"Intrepido, fendo lo spazio con le mie ali e la fama non mi fa urtare contro mondi tratti da falsi principi, secondo i quali rimarremmo rinchiusi in una prigione immaginaria come se tutto fosse cinto da muraglie di ferro... ma fendo i cieli e all’infinito m’ergo." (Giordano Bruno)
venerdì 25 luglio 2008
Quella volta che litigai con Dio
Tutti miei problemi con il cattolicesimo iniziarono ai tempi della prima comunione. Sottoposta alle consuetudini della mia famiglia, sono stata mandata a fare la mia preparazione al sacramento, cioè il catechismo verso i 10 anni. Il mio insegnante era un anziano sacerdote, che ci consegnò a tutti una bella copia del Messale Romano e una del Vangelo e ci iniziò a parlare dei primi elementi della dottrina cristiana. La lezione di catechismo era costituita da una serie di domande e di risposte già preconfezionate a cui non si poteva argomentare: essenzialmente la base era il Catechismo di Pio X, a cui si argomentava rispondendo con una formuletta mandata a memoria, come un pappagallo.
Generalmente non ero molto soddisfatta delle risposte, così iniziai a leggere il Vangelo, ed i problemi iniziarono con la parabola del fico sterile. La parabola si conosce in tre versioni leggermente diverse perché in Matteo e Marco si racconta che, Gesù ebbe fame e cercò dei fichi su di un albero che non ne aveva, per questo lo maledisse e l’albero si seccò. Ai discepoli meravigliati Gesù rispose: “Abbiate fede in Dio. In verità vi assicuro che se uno dirà a questa montagna: “Sollevati e gettati in mare”, e non esiterà in cuor suo, ma crederà che quanto dice avvenga, gli avverrà. Per questo io vi dico: Tutto quello che voi chiederete pregando, credete di averlo già ottenuto e vi avverrà. E quando vi mettete a pregare, perdonate, se avete qualcosa contro qualcuno, affinché il Padre vostro che è nei cieli, vi perdoni le vostre colpe".
La frase mi apparve estremamente sibillina, non capivo proprio che c’entrasse con il povero fico maledetto e rinsecchito. Nella versione di Luca le cose sono diverse, e Gesù racconta una parabola : “Un uomo aveva un fico piantato nella sua vigna. Andò a cercare il frutto, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco sono già tre anni che vengo a cercar frutto da questo fico e non ne trovo; taglialo! Perché deve occupare il terreno inutilmente?”. Il vignaiolo gli rispose: “Signore, lascialo ancora quest'anno, per darmi il tempo di scavar tutt'attorno e mettergli del concime; se farò dei frutti, bene; se no, lo taglierai.”
Nel tempo ho capito tante altre cose e di maggiore spessore, leggendo i testi sacri in modo diverso, ma in quel momento, con la mia testa da bambina, rimasi profondamente indignata per l’ingiustizia fatta al povero fico, già sterile e inutile su cui Gesù s’infieriva, facendolo seccare. Era una palese ingiustizia infierire su un essere debole come il fico. Mia nonna, che era profondamente cristiana, da sempre una grande devota della Madonna e di Gesù, mi aveva sempre insegnato che Gesù amava tutti, ma per i fico mi sembrava che tutto questo amore non lo avesse mica dimostrato!
In seguito ho imparato a leggere tra le righe delle Sacre Scritture, oggi sono appassionata di esegesi e di cristologia, ma allora una grande ingiustizia con un misero fico fu sufficiente e rendermi antipatico una divinità che, per fame si fa prendere dal nervosismo, e arriva a seccare un povero albero perché non può dare frutti fuori stagione. Mi ha lusingato scoprire che, anche il filosofo matematico e scrittore britannico, premio Nobel per la letteratura nel 1950, Sir Bertrand Arthur William Russell, si scandalizzò per il povero fico, fino a dichiararlo tra i motivi per cui non poteva essere cristiano.
Nel tempo, ho imparato a leggere i testi sacri come dei meraviglioso koan, delle pillole di saggezza, delle forme elevate di insegnamento, ho capito che il fico sterile è colui che non produce frutti coltivando sé stesso, colui che vive come un morto, che vegeta nella vita, che risponde un “ni”, che non sa fare scelte. Colui che non ha coraggio in sé stesso, colui che non crede in nulla. Fico sterile è colui che non ha la speranza di migliorare e di potere avere un sogno, come può essere vivo colui che non ha sogni e non ha ideali? Ma come poteva parlarci modernamente un uomo di 2.000 anni fa, come poteva comunicare in modo migliore, se non con le sue stesse parole: “tu quando vuoi pregare, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa.” Ed il secretum di cui dice Gesù è la parte più sacra del tempio, ed il tempio interno è il cuore, quel dio è già nel tuo cuore. Così si leggono i testi sacri, soprattutto quando il dito non deve distrarre dalla luna! Vista così la cosa è pienamente condivisibile. Messa così, la parabola mi è sembrata anche molto più plausibile e coerente con l’immagine che mi ero creata del giovane maestro, che indicò un dio molto più misericordioso, di quello terribile e vendicativo del Vecchio Testamento, che indicò dio come un padre. Ancor più nella parabola si nasconde un grande insegnamento di grandezza dell’essere umano quando si dice che “se uno dirà a questa montagna: “Sollevati e gettati in mare”, e non esiterà in cuor suo, ma crederà che quanto dice avvenga, gli avverrà.” Veramente colui che crede e lotta per conquistare i suoi sogni, che ha una fede incrollabile nei suoi ideali, alla fine vince. La storia è piena di esempi di tale genere, di grandi visionari che hanno saputo cambiarla. Ma questo è stata una conquista più matura, che non toglie nulla alla mia indignazione da bambina, per cui ancora oggi, non posso essere cattolico-romana, e se potessi scegliere, vorrei essere cristiana alla musulmana, una che si chiude nella sua stanza per parlare con il suo Dio, senza alcuna intermediazione. Questo concetto ricorda il Dhammapada, in cui è scritto “Tu sei il tuo solo maestro. Chi altro può guidarti? Diventa padrone di te stesso e scopri il tuo maestro interiore.”
Buona erranza
Sharatan ain al Rami
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