domenica 1 marzo 2009

Esplorare i prodigi dell’Africa


Lo spirito fu l’elemento che portò alla crisi e al distacco di Jung da Sigmund Freud e, attualmente, è l’ambito in cui freudiani e junghiani sono maggiormente distanti. Jung riteneva che la maggior parte dei malesseri fosse causata da crisi spirituali non risolte, mentre Freud supponeva che essi fossero sintomi di vere e proprie malattie, di cui la psicoanalisi doveva farsi carico, mentre si attendeva che le scienze neurologiche trovassero i migliori rimedi per la cura. Tra i due non poteva esserci distanza maggiore.

Come studioso materialista, Freud negava ogni esistenza dello spirito nell’essere umano mentre Jung, che era un mistico intuitivo e che proveniva da una famiglia in cui la veggenza non era affatto insolita – sua cugina era una valente medium - proclamava la centralità dello spirito alla base di ogni istanza umana più elevata. Freud affermava un approccio più farmacologico verso i disagi umani, mentre Jung supponeva che bisognava costruire un’interpretazione più olistica dell’uomo e delle sfide della vita. Jung riteneva che per essere spiritualmente vivi si dovesse concepire sè stessi come parte di un più grande disegno cosmico.

Quando Jung incontrò un capo Pueblo del New Mexico, nell’inverno tra il 1924 e il 1925, rimase profondamente colpito perché il capo indiano gli disse che era allarmato dai bianchi: “Vedi, come appaiono crudeli i bianchi. Le loro labbra sono sottili, i loro nasi affilati, le loro facce solcate e alterate da rughe. I loro occhi hanno uno sguardo fisso, come se stessero cercando sempre qualcosa. Che cosa cercano? I bianchi vogliono sempre qualcosa, sono sempre scontenti e irrequieti. Noi non sappiamo che cosa vogliono. Non li capiamo. Pensiamo che siano pazzi.”
Quando Jung gli chiese perché pensasse che i bianchi fossero pazzi, Ochwìa Biano, il capo Pueblo gli rispose: “Essi dicono di pensare con la testa.”
Jung replicò sorpreso: “Ma certo. E tu come pensi?” Allora il vecchio Pueblo gli indicò il suo petto e il suo cuore e rispose: ”Noi pensiamo qui.”

Jung capì che il pensare con la testa avrebbe fatto fare passi tecnologici enormi, ma avrebbe causato la perdita della capacità di pensare con il cuore e di vivere attraverso l’anima e capì che, se non ci assumiamo la responsabilità della nostra parte di universo, ogni cosa veramente importante sarebbe andata perduta.

Nel 1944 Jung ebbe un arresto cardiaco e rischiò di morire e quando fu guarito, raccontò che in quella occasione aveva sperimentato un’esperienza di pre-morte. Raccontò che era uscito dal corpo e dal mondo,entrando in una dimensione meravigliosa in cui tutto era perfetta luce, felicità ed armonia. Niente vi era di più meraviglioso, ma prima aveva dovuto sopportare una totale lacerazione da tutto il suo passato personale. Era stato come se tutto gli fosse stato tolto con la violenza, come se gli avessero strappato tutto ciò che desiderava, tutto ciò in cui credeva e tutto ciò che aveva pensato; gli restava solo ciò che aveva vissuto e ciò che aveva fatto, e lui era tutto ciò.

Questa spoliazione era stata fonte di estrema miseria ma anche di appagamento e, alla primaria sensazione di essere stato defraudato, saccheggiato e violato, era poi sopraggiunta la sensazione di essere restato tutto integro in sé stesso e di essere integro in tutto ciò che era veramente: non vi era più nessun rimpianto per ciò che gli era stato tolto: era vero ed integro nella sua essenza.

Sospeso nello spazio cosmico era giunto ai piedi di un tempio in cui doveva entrare, perché sapeva che era atteso da coloro che facevano parte di lui, e che lui stesso era una parte di un grande libro della vita, di cui costituiva una pagina: perciò doveva entrare nel tempio. Ma non gli fu possibile, perché giunse l’immagine del medico che lo stava rianimando e gli disse che non poteva andarsene dalla terra e che doveva ritornare alla vita. Fu così che fu riportato nel corpo e gli fu impedito di morire, e allora deluso pensò:”Ora devo tornare ancora una volta al “sistema delle cassettine!”

Nacque così in lui una sensazione che lo accompagnò per tutta la vita che, dietro al cosmo, avessero costruito artificiosamente un mondo tridimensionale, in cui ognuno stesse per conto suo, chiuso dentro una piccola cassetta. La vita e il mondo intero gli apparvero come una prigione, in cui tutto era perfettamente normale e, dopo avere sperimentato la straordinaria sensazione di librarsi nello spazio senza peso, ora venisse catturato da un filo e richiuso ancora nella sua cassettina. Amareggiato pensava:”Ora devo tornare in quel mondo grigio!”

Più tardi scrisse che, sebbene in seguito avesse recuperato la fede in questo nostro mondo, eppure non riuscì mai più a liberarsi dal pensiero che questa vita fosse solo un frammento dell’esistenza che si svolge in un universo tridimensionale, disposto beffardamente a tale scopo, dichiarando di avere sperimentato il sentimento giocoso ed ironico, che gli induisti definiscono Lila o Leela, il gioco cosmico e creativo di Brahman.

Di questa nuova sensibilità risentì la sua concezione di legame affettivo, infatti scrisse: “in genere gli uomini attribuiscono molta importanza ai legami affettivi, ma questi contengono proiezioni che è necessario respingere per realizzare sé stessi e l’oggettività. I rapporti emotivi sono rapporti di desiderio, viziati da costrizioni e mancanza di libertà; si vuole dall’altro qualcosa che priva sia lui che noi della libertà. La conoscenza obiettiva sta al di là della relazione affettiva; sembra essere il segreto essenziale. Solo grazie ad essa è possibile la vera coniunctio.”

Dopo la malattia Jung scrisse la maggior parte delle sue opere principali e la conoscenza di queste realtà lo spinse a lasciarsi andare alla sua intuizione interna, senza volere fare delle affermazioni ma trovando il coraggio per nuove ed insolite formulazioni. Ma dalla malattia derivò anche la capacità di saper dire “si” all’esistenza, imparò “un si incondizionato a tutto quello che è, senza proteste soggettive, la totale accettazione delle condizioni dell’esistenza così come le vedo e le intendo; l’accettazione della mia stessa essenza, proprio come essa è. Al principio della malattia avevo la sensazione che vi fosse un errore nel mio atteggiamento, e che perciò in un certo modo fossi responsabile io stesso dell’infelicità.

Ma quando uno vive la via dell’individuazione, quando si vive la propria vita, si devono mettere anche gli errori nel conto: la vita non sarebbe completa senza di essi. Non c’è garanzia, neanche per un solo momento, che non cadremo nell’errore e non ci imbatteremo in un pericolo mortale. Possiamo credere che vi sia una strada sicura, ma questa potrebbe essere la via dei morti. Allora non avviene più nulla o, in ogni caso, non avviene ciò che è giusto. Chiunque prende la strada sicura è come se fosse morto.

Fu solo dopo la mia malattia che capii quanto sia importante dir di sì al proprio destino. In tal modo forgiamo un io che non si spezza quando accadono cose incomprensibili; un io che regge, che sopporta la verità, e che è capace di far fronte al mondo e al destino. Allora, fare l’esperienza della disfatta è anche fare esperienza della vittoria. Nulla è turbato – sia dentro che fuori – perché la propria continuità ha resistito alla corrente della vita e del tempo. Ma ciò può avvenire solo quando si rinuncia a intromettersi con aria inquisitiva nell’opera del destino. “

L’orientamento junghiano, più che religioso può definirsi sacrale, perchè afferma la sacralità dell’essere umano in campo psicologico ed opera nella psicologia, una rivoluzione paragonabile a quella fatta da Copernico nell’astronomia. Perciò Jung fu molto più di un brillante teorico di pratiche psicoterapeutiche, poichè praticò la sua arte con il rispetto sacrale con cui si attua una pratica religiosa, vedendo in ogni crisi personale non una patologia, ma una opportunità evolutiva, rifiutandosi di definire un concetto di normalità a cui fare sottostare e dovere forzosamente ricondurre le persone, volendo vedere ognuno di noi come una realtà unica, e perciò irriducibile a dei rigidi schemi ideologici o socio-culturali.

Di lui fu scritto che avviò una gigantesca esplorazione dei “prodigi dell’Africa” che giacciono nascosti dentro di noi. Come un esploratore geografico, tracciò una mappa precisa del suo viaggio, poi lo raccontò per aiutare i futuri viaggiatori che ne avessero voluto seguire le orme; perciò può essere definito il primo cartografo dell’anima.

Alla fine della sua vita, modestamente, riteneva di avere compiuto ben misera cosa e, a chi gli faceva i complimenti per la sua notorietà e per la genialità delle sue teorie, disse che lui era solo un uomo che aveva immerso il suo cappello in un fiume e che l’aveva ritirato ricolmo di acqua. Disse di non avere scoperto nulla e noi sappiamo che non è vero, ma così rese sicuramente omaggio all'infinito splendore di Brahman!

Buona erranza
Sharatan

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