“Quello che vedi non esiste
e per quello che esiste, tu non hai parole”
(Kabir)
e per quello che esiste, tu non hai parole”
(Kabir)
Kabir (1440-1518) non è tra le figure più conosciute del misticismo orientale ed è un peccato, perché i suoi versi sono una pietra miliare della poesia indiana. Kabir è il padre della letteratura indi, ma è anche un grande santo e mistico che sia per il pensiero che per le sue vicende biografiche è degno della massima notorietà ed ammirazione. La sua vita è particolare e sulla sua nascita possediamo due diverse versioni, una musulmana e una brāhmaṇa.
Secondo la fonte islamica, un giorno il tessitore musulmano Nuri e sua moglie Nima tornando da un banchetto di nozze, videro in un laghetto vicino a Benares, un bellissimo fiore di loto su cui era dormiente un bimbo appena nato. L’uomo prese in braccio il bimbo, che si destò sorridendo amabilmente e gli domandò con grazia, quale fosse la via più breve per Benares. L’uomo terrorizzato dal neonato parlante pensò di essersi imbattuto in una entità diabolica, perciò posò il neonato a terra e si diede velocemente alla fuga correndo per un buon miglio.
Ma quando lo stremato Nuri si fermò per riprendere fiato, si accorse che il bimbo era seduto davanti a lui e lo guardava con infinita dolcezza. Fissandolo nei suoi occhi splendenti, Nuri si convinse di avere incontrato un bambino prodigioso, per cui lo adottò chiamandolo Kabir (Il Bene informato, il Molto istruito, Colui che conosce le cose per il loro vero essere) e lo amò ancor più di un figlio.
Secondo la fonte brāhmaṇa, che troviamo nella Bhakta Mala la vita dei senti induisti, a Benares viveva un sant’uomo seguace di Ramananda che aveva una figlia vergine, vedova di un brāhmaṇo. Essendo il maestro Ramananda giunto in visita a Benares, la fanciulla chiese al padre di poter incontrare il grande guru. Quando fu giunta davanti al maestro, egli la benedì augurandole la nascita di un bimbo dotato di mille virtù, trascurandone la condizione di vedova vergine di un sommo sacerdote della tradizione vedica.
Siccome gli antichi induisti credevano all’irrevocabilità sia delle benedizioni, come pure delle maledizioni dei grandi taumaturghi, inutile fu la disperazione della fanciulla che pianse e pregò che l'augurio fosse revocato, ma neppure Ramananda potè annullare le conseguenze della sua benedizione. Così il bimbo nacque e la madre dovette abbandonarlo, perciò il piccolo Kabir fu adottato da due umili tessitori musulmani che lo educarono alla loro religione.
Questa versione viene accettata dai seguaci brāhmaṇi che venerano Kabir come avatar di Vishnu. Come Krishna, che è sempre rincarnazione dello stesso dio e figlio della vergine principessa Devaki, dissero che Kabir era figlio di una vergine brāhmaṇa e quindi nato in una casta superiore.
Molte religioni ammettono la nascita da origine superiore, anche la nostra, ma per noi il concetto di sublime è collegato alla nascita umile di un Figlio di Dio mentre nell’induismo una divinità incarnata non può che essere di casta superiore ed elevata.
Kabir trascorse la sua infanzia nella casa dei laboriosi tessitori musulmani, finchè a Benares ritornò il maestro Ramananda, che girava predicando una dottrina di dolcezza contrapposta al rigido monismo vedico che soggiogava l’anima dei fedeli. Ramananda predicava la fratellanza, la pietà, la rettitudine, e soprattutto l’unione di tutte le dottrine religiose. La sua parola sembrava placare le aspre dispute che avvenivano tra i Sufi e i Brāhmiṇi, perciò tutti accorrevano a lui per essere illuminati.
Kabir capì che quello era il vero maestro che gli era destinato, ma il suo essere musulmano gli impediva di poter divenire discepolo di un guru induista, così decise di ricorrere ad uno stratagemma. Sapendo che Ramananda andava all’alba sulle rive del Gange, Kabir si nascose sulla scalinata che il maestro usava per scendere sulle sponde del fiume sacro, e aspettò pazientemente che egli giungesse.
Ramananda arrivò e scese la scalinata per bagnarsi nel sacro fiume, ma lungo la discesa, nella penombra del mattino, andò a urtare il corpo disteso di Kabir ed esclamò: ”Rāma! Rāma!” che è il nome di un’altra incarnazione del dio Vishnu che lui adorava. Immediatamente Kabir si gettò ai suoi piedi con le mani giunte e disse: “Oh maestro, tu mi hai dato il mantra Rāma e mi hai fatto diventare il tuo discepolo malgrado io fossi soltanto un umile tessitore musulmano.”
Disse questo perchè nella tradizione induista il guru nomina il discepolo con la consegna di un mantra su cui deditare, quindi Kabir forzò la sua iniziazione, ma il grande Ramananda pur avendo compreso lo stratagemma del giovane, fu commosso dal suo ardore e dalla sua devozione e lo accettò come discepolo.
Il mantra Rāma ricevuto da Kabir, simboleggia un suono mistico e potente, che nasce dall’ombelico, sale fino alla lingua e su essa danza. La dichiarazione dei Veda: Tat tvam asi, cioè “Tu sei Quello” è racchiusa nella parola Râma, la quale consiste di tre suoni: ra, ā e ma; di questi “ra” è il simbolo di tat (Quello, Brahman, Dio) “ma” è il simbolo di tvam (il tu, il jîvi, l’individuo) e la “ā” che unisce i due è il simbolo della loro identità, della loro sublime sintesi.
Rāma è come l’ape che sugge il miele della devozione dal Loto del cuore, egli è come il sole ed è l’incarnazione del Dharma. Il mantra “Rāma- Rāma-Rāma” è uno dei più potenti, semplici ed efficaci della religione induista e fu lo stesso usato da Gandhi, che lo ripeteva perchè questo “mantra diventa il sostegno della propria vita e fa superare ogni prova”.
Kabir divenne l’emblema dell’uomo che Ramananda sognava si realizzasse, dell’ideale che aveva predicato tutta la vita, infatti Kabir che fu insieme brāhmaṇo e sufi, lottò sempre per unire queste due religioni. Pur continuando a condurre la sua vita di tessitore di tappeti, Kabir albergò nel suo cuore la piena fratellanza con i mistici sufi come Jalaluddin Rumi, mentre nella vita sociale si comportò sempre come un adepto della setta vaishnava che predica la filosofia della non violenza e della assoluta tolleranza.
Sappiamo che visse di una vita laboriosa ed amorevole, che ebbe in moglie una donna con la quale adottò due fratellini orfani, e che amò teneramente la sua famiglia, fu poeta e musicista, fu grande maestro spirituale ed insegnò sia a discepoli islamici che brāhmaṇici. Mentre tesseva i suoi tappeti, Kabir cantava le sue strofe e allietava l'animo di coloro che giungevano per assorbire la sua Luce: tutti lo venerarono per la sua impeccabile probità, per il sincero misticismo e per la purezza del suo animo.
Kabir è anche il primo poeta indiano di lingua musulmana ed è il padre della letteratura indi che è la lingua nazionale dell’India.Seppure abbia scritto in lingua indi, che è la lingua del popolo, comunque ci lascia una poesia mistica di una musicalità unica, volontariamente rivestita di un umile linguaggio popolano contrapposto all'aristocratico sanscrito, che era il linguaggio delle caste superiori e l’unico ritenuto degno di esprimere la meditazione filosofica elevata.
Ma il sanscrito, diceva il grande poeta, è come l’acqua di un pozzo mentre la lingua del popolo è come un ruscello che scorre, perciò quest'ultimo è il più adatto per una “danza continua senza mani, e senza piedi” che “viene suonata senza le dita e udita senza le orecchie.”
Con questo Kabir provò una rivoluzionaria sintesi di pensiero e cultura, pari a quella che Gandhi avrebbe fatto nel secolo 20., solo che anticipò la mossa di 550 anni. Non stupisce che fosse costretto a spostarsi dalla nativa Benares a Magahar, dove finì i suoi giorni perchè, seppure inebriato da Dio apparteneva pur sempre ad una casta umile, perchè si permetteva di avere una mentalità iconoclasta ed avversa ad ogni ritualismo e superstizione, e perchè era un pensatore libero e appassionato.
Kabir condannava nell’induismo, la vuota idolatria, il filo sacro simbolo un ideale che non a tutti è dato realizzare mentre lui lottava per affermare una salvezza accessibile a tutti. Kabir si opponeva alla divisione in caste e si ribellava alle oppressioni e alle limitazioni religiose dogmatiche. Di contro accettava la concezione induista di reincarnazione e la legge del Karma, ma comunque era un pensatore troppo irregolare ed incontrollabile perché una mediazione fosse possibile.
Non stupisce che Kabir venga oggi considerato un vaishnava per gli induisti, un sukhi dai musulmani, ed un precursore e interlocutore privilegiato di Nanak dai sikh, ma resta certo che in vita fu odiato e perseguitato dalla mentalità ortodossa sia induista che islamica. Del pensiero islamico accoglieva l’idea di monoteismo (proclamato anche nelle Upanishad) e condannava invece la circoncisione e le ripetizioni meccaniche delle preghiere nelle moschee. Sia Rāma che Allah sono la stessa entità, affermava, sono dei nomi che raffiguravano lo stesso Essere Supremo universale che governa il creato.
E’ perciò fatale che venisse odiato perché la sua religiosità era troppo superiore ed elevata, e fuori dalla portata dei suoi tempi, quindi ostica ed ostile per la mente dei suoi contemporanei. Naturale che fosse costretto ad emigrare a Magahar, dove morì ormai vecchio e “così debole che le sue mani non gli permettevano di dedicarsi alla musica che amava tanto.”
L’opera poetica di Kabir ha esercitato un’enorme influenza sul pensiero di Guru Nanak (1469-1538) il fondatore del movimento sikh. Il credo del sikhismo si basa sulla evoluzione della coscienza e sull’eliminazione dell’Ego che ci schiavizza tramite la lussuria, l’ira, l’avidità, l’attaccamento agli amori materiali e l’orgoglio che è il sommo rappresentante dell’Ego.
Per i sikh, l’essere condizionati dal proprio Ego costituisce la più grande malattia umana, e vanno eliminate ogni tipo di barriere che opprimono l'individuo perciò, nel pensiero di Guru Nanak che è assai avanzato, la donna non viene oppressa ma gode di piena eguaglianza sociale e di piena libertà religiosa. Essa non è ritenuta una cosa sporca perchè la tentazione incarnata, ma viene considerata “la coscienza dell’uomo.”
Kabir morì serenamente ormai vecchio e molto amato, e che anche la sua morte ha una leggenda. Si racconta che, morto il grande Maestro, i suoi discepoli iniziarono a litigare per le sue spoglie mortali perché i musulmani volevano seppellirlo, mentre gli induisti volevano cremarlo: così continuavano a litigare di fronte al feretro, senza arrivare ad un pacifico accordo.
Nel corso della disputa, tra i litiganti apparve lo stesso Kabir che invitò tutti a smettere la discussione e ordinò di guardare il suo corpo mortale, quindi scomparve. Quando i discepoli andarono a sollevare il lenzuolo funerario, per fare come gli era stato detto, sotto non trovarono altro che un enorme mazzo di fiori. Una metà di quei fiori fu dunque presa dai musulmani che la seppellirono a Magahar, mentre l’altra fu presa dai seguaci brāhmaṇi che la bruciarono a Benares, e ne dispersero le ceneri nel sacro Gange.
Kabir ignorava le ragnatele dei credo e dei dogmi, ed era certamente meno condizionato dal pensiero vedanta di quanto non lo fosse il suo maestro Ramananda,avendo avuta una formazione di tipo eclettico ma in lui, la ricerca del Gioiello del Signore dell’Universo, che è nascosto nel cuore dell’uomo, viene indicata con parole talmente belle da stregare il cuore dei devoti da centinaia di anni.
Se conosciamo le poesie di Kabir in occidente dobbiamo rendere grazie al grande poeta Rabindranath Tagore anche lui mistico e poeta, ed assonante a Kabir in tanti altri aspetti. La poesia di Kabir indica il modo con cui ricercare il Gioiello ma, soprattutto ci indica il luogo dove si nasconde, cioè dentro noi stessi. Egli usa uno stile ed una tecnica assai semplici, ma la sua poesia ci appare assoluta:
“Il gioiello si è perso nel fango ed ognuno lo cerca.
Qualcuno si volge ad Est, altri verso Ovest,
qualcuno lo cerca nell’acqua, altri fra le pietre,
ma l’umile Kabir ha compreso il suo vero valore
e lo conserva avvolto nella cappa del suo cuore.”
Buona erranza
Sharatan
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