Gli inuit credono che un tempo la parola fosse dotata di un potere che era in grado di trasformare ciò che veniva detto in forme viventi. In virtù di quel potere, un uomo poteva diventare un animale e l’animale poteva assumere la forma di un essere umano. A quei tempi viveva tra gli inuit un grande cacciatore di foche chiamato Akuluk.
Quando Akuluk girava per il villaggio avviluppato in pelli di beluga, tutti gli sguardi lo seguivano ammirati, ma lui non era un uomo felice. Tornando dalla caccia regalava la parte migliore delle prede alla tribù e poi si ritirava nell’igloo trattenendo solo quello che gli spettava di diritto. Akuluk era molto ammirato, ma non era felice: nessuno lo aspettava e nessuno condivideva la sua vita.
Una mattina come le altre tirò fuori il kayak e gonfiò i galleggianti, poi uscì in mare sentendosi nel velo di una sottile malinconia e mentre pescava ripensava ai racconti di sua nonna. Le storie che aveva raccontato nella sua infanzia dicevano che Kannakapfaluk, la madre degli animali insegnò agli uomini che, in passato, anche le foche erano state degli esseri umani.
Quel giorno Akuluk era stranamente ansioso, perciò si preoccupò di controllare se l’arpione fosse a posto, poi lo ripose e continuò a cercare foche. La giornata era strana, infatti i pensieri di Akuluk continuavano a vagare, perciò ripensò agli sguardi che gli aveva lanciato una donna del mercato l’ultima volta che era andato, poi vide una balena boreale saltare davanti ai suoi occhi.
Intanto si era spinto lontano dalla costa ma di foche non c’era traccia, perciò andò ancora più lontano, finché giunse in vista di un isolotto che vagava solitario. I suoi acuti occhi di cacciatore videro qualcosa che si muoveva sulla banchisa, poi udì delle risate gioiose che rimbalzarono tra le rocce ghiacciate, ma era troppo lontano per capire chi fosse.
Si avvicinò cautamente pagaiando silenzioso, quindi arrivò allo scoglio dietro cui si nascose. Fu nascosto che riuscì a vedere la scena incredibile di un gruppo di foche che si issava dalle acque salendo sulla banchisa, ma poi le vide togliersi le pelli. Una volta che tutte le pelli furono lasciate, Akuluk vide tante donne-foca nude di rara bellezza che iniziarono a rincorrersi ridendo.
Akuluk guardava eccitato la bellezza dei corpi e sentiva il fascino misterioso delle fanciulle, perciò si avvicinò ancora di più. Sentiva una strana eccitazione che lo spinse a strisciare fino al posto dove erano le pelli di foca, e ne afferrò una a caso. Le donne-foca avevano percepito la presenza dell’uomo che era ormai uscito allo scoperto, perciò fuggirono in mare dopo avere ripreso le pelli e le forme animali.
Sulla banchisa restò solo una fanciulla dalla bellezza abbagliante con i lunghi capelli neri e ondulati che coprivano il corpo perfetto. Il respiro della fanciulla era ancora affannato per l’inutile fuga, ma gli occhi neri e profondi erano fissi in quelli di Akuluk che stringeva la pelle.
Per un attimo si fissarono, poi il cacciatore gli disse: “Donna io sono Akuluk, e tu non puoi tornare con il tuo popolo. Vieni con me, io avrò cura di te.” La melodiosa voce della fanciulla risuonò desolata per chiedere: “E come potrei dimenticare il mio popolo? Come poter dimentica il mare e il regno della grande Dea?”
Akuluk insistette: “Diventa la mia sposa. Resta con me per sette estati e poi ti renderò la pelle. Allora potrai scegliere. Se ne avrai voglia potrai restare oppure potrai andare dove vuoi.” A quella proposta la donna rispose: “Non mi lasci molta scelta. Sarò la tua sposa, ma trascorse le sette estati, io sceglierò e seguirò i miei desideri.”
Da quel momento Akuluk conobbe la dolcezza e la passione della fanciulla-foca. Gli piaceva molto ridere con la sua sposa e gli piaceva l’allegria delle sue danze. Intanto l’estate scorreva e lui correva veloce quando tornava a casa. L'igloo era confortevole in inverno, perciò il ritorno dalla caccia non era più verso un igloo solitario.
Ben presto nacque un figlio chiamato Ooruk che sapeva scivolare sul ghiaccio come nessun inuit sapeva fare. Il suo corpo era ricoperto da una pelle morbida e così liscia che sembrava spalmata di grasso. Anche se era leggermente più paffuto degli altri bambini inuit era agile come una giovane foca.
Mentre Akuluk andava a caccia di caribù, il suo bambino cresceva nutrito dalla pura gioia di sua madre, infatti la madre lo allevava con le sue storie affascinanti. Gli diceva che gli uomini e gli animali sono uguali, gli diceva della sensazione di avere un corpo ricoperto di pelliccia e raccontava ciò che sua madre aveva narrato a lei.
Sua madre gli insegnò a imitare il canto delle balene e insegnò come lo sciamano deve parlare per farsi comprendere dal popolo del mare. Ella gli insegnò tutto quello che sapeva sulla vita degli oceani. Disse tutto, ma non rivelò la verità su se stessa, perciò non rivelò che era una donna-foca.
Con il trascorrere degli anni la sua gioia scomparve, perciò la sua pelle si inaridì e si coprì di rughe. La donna mutava diventando solo l’ombra della splendida fanciulla che era stata. La bellezza dei capelli, degli occhi, del corpo snello e la melodiosa voce erano svanire, finché fu vista camminare barcollando, perché stava diventando cieca.
Erano passate le sette estati della promessa, ma Akuluk sembrava aver dimenticato, e teneva ben nascosta la pelle di foca nel kayak. Akuluk non si curava più di lei ma non voleva che se ne andasse. Lui voleva che restasse a crescere suo figlio. Che lei fosse felice o infelice non importava, lui la voleva con sé anche infelice, malata o morta.
Intanto era tornato a essere lui, cioè solitario e sempre lontano a cacciare i caribù. Ooruk amava teneramente sua madre e soffriva della sua sofferenza, perciò vide il deperimento che la stava uccidendo. Ogni giorno la vedeva sempre più debole, e avrebbe fatto di tutto per guarirla. Alla fine iniziò a pregare gli spiriti dell’acqua come lei gli aveva insegnato.
Iniziò a pregare con fervore Kannakapfaluk, la grande Dea madre degli animali, e si inventò un canto di richiamo per le balene. Una notte sognò che veniva un gruppo di salmoni giganti a rimproverare il padre, e che lui si pentiva. Insomma sognò, fece e pensò tutto quello che un figlio può fare per sua madre, poi si addormentò sfinito.
Quella stessa notte sentì una voce che lo chiamava, perciò uscì nella notte buia. Seguendo la voce che lo chiamava arrivò in riva al mare e si trovò davanti ad una enorme foca. L’animale comunicava uno strano linguaggio che esternamente gli era incomprensibile, ma che internamente capiva. Usando questa strana comunicazione la grande foca gli comunicò delle istruzioni.
Dopo averle ascoltate, Ooruk andò nel kayak tirato in secco, e trovò una borsa di pelle d’orso. Nella borsa c’era una pelle da foca, ma il mistero restava. Perciò portò alle narici la pelle e aspirò l’odore della madre. L'odore della pelle di foca risolse il mistero, e poi Ooruk sentì la grande foca che gli lanciava un richiamo.
Mentre la verità entrava in lui, da Ooruk uscivano calde lacrime di disperazione e dalla sua bocca sgorgò l’antico linguaggio. Corse alla riva per rassicurare la foca che aveva capito, poi portò la pelle alla madre. Lei aprì gli occhi e ringraziò la Dea Kannakapfaluk, perché suo figlio era saggio e sano, e perché lei era rimasta ancora in vita.
Il figlio poteva salvarla, infatti Ooruk la aiutò a vestirsi facendo ciò che suo padre non aveva fatto ossia restituirle la sua pelle e permettere che tornasse nel suo mondo. Ooruk la aiutò ad arrivare al mare, ma quando si abbracciarono non fu per dirsi addio. Infatti sua madre gli soffiò per tre volte nella bocca cioè una volta per ogni mondo esistente, poi insieme si lanciarono in acqua e iniziarono a nuotare.
Nuotarono a lungo nelle acque profonde fino a raggiungere il paradiso delle foche. Qui trovarono la grande foca che aveva chiamato Ooruk in sogno. La foca si dichiarò suo nonno e se lo strinse lungamente tra le pinne. Dopo averli abbracciati entrambi, la foca sentì il racconto di ciò che era avvenuto, quindi poggiò teneramente la sua fronte su quella di sua figlia e disse:
“Lo sai che non puoi tornare da Akuluk, anche se un tempo è stato buono con te. Se torni tutto ricomincerà a essere come prima. Tu saresti di nuovo la sua prigioniera. Gli uomini sono strani figlia mia, sono esseri che hanno sempre paura. Gli uomini non conoscono i legami tra i mondi, perciò cercano sempre di impadronirsi dell’altro. Essi rendono schiavi e dicono di amare.”
La vecchia foca si volse verso Ooruk e chiese: “E adesso che ne facciamo di questo piccolo uomo coraggioso?” La madre chiese triste: “Dovrà tornare indietro, non è vero?” La grande foca rispose: “Temo che sia così, figlia mia. Lui è ancora piccolo e non può imparare l’arte della trasformazione.
Tu conosci l’arte del cambiamento e sei restata sette anni in forma umana, ma lui non è maturo. Può restare solo sette giorni, poi dovremo riportarlo da suo padre.” Sette giorni nel paradiso delle foche passano in un attimo, perciò il nonno e la madre riaccompagnarono Ooruk fino alla Terra di Mezzo. Ma siccome loro conoscevano le leggi che collegano i mondi non ci furono addii strazianti, e ognuno ritornò nel suo mondo.
Ooruk restò nel mondo degli uomini dove apprese l’arte del tamburo, perciò diventò un potentissimo sciamano. Conosceva tutti i canti di richiamo degli animali, e insegnò agli uomini il modo di trattare gli animali affinché possano mandare in pace la loro anima. I nomadi inuit lo amavano e lo temevano, perché placava tutti gli spiriti con un linguaggio misterioso e irresistibile.
Ooruk, per sciamanizzare, aveva scolpito un mulinello con la forma di una foca, perciò tutti sapevano che il suo animale totem era la foca. Basta sapere che lo si vedeva spesso, al tramonto, seduto in riva al mare insieme a una foca. Molti videro che la foca cantava e lo baciava.
Buona erranza
Sharatan
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