“Dov’è la Mente del Risveglio
di colui che si arrabbia
quando gli altri ricevono qualcosa?”
(Shantideva)
“Un popolare aneddoto che i maestri tibetani amano raccontare ai loro studenti narra l’incontro tra un eremita e un pastore. L’eremita viveva in solitudine sui monti. Un giorno un pastore giunse per caso alla grotta dell’eremita e incuriosito gli chiese: “Cosa fai qui, solo, in questo luogo così remoto?” l’eremita rispose: “Medito.” Allora il pastore gli chiese: “E su che cosa stai meditando?” l’eremita rispose: “Sulla pazienza.”
Ci fu un attimo di silenzio, dopodichè, il pastore decise di andarsene. Fece qualche passo, poi si voltò verso l’eremita e gridò: “Vai al diavolo!” L’eremita gli rispose seccamente: “Che cosa? Ma vacci tu!” Il pastore scoppiò a ridere e ricordò all’eremita che si era appena dimenticato di praticare la pazienza. Questo semplice aneddoto illustra in modo esemplare la sfida fondamentale per colui che voglia esercitare la pazienza: in una situazione che normalmente genera un’esplosione d’ira, come è possibile essere spontanei e rispondere senza perdere la calma?
La sfida non è rivolta esclusivamente ai praticanti della religione. È una sfida che ognuno di noi affronta nel tentativo di condurre un’esistenze caratterizzata da dignità umana e decoro. Quasi a ogni passo ci troviamo ad affrontare situazioni che mettono alla prova i nostri limiti di pazienza o tolleranza. Spesso, nel nostro nucleo familiare, nell’ambiente di lavoro o nelle normali relazioni con il prossimo, si manifestano i nostri pregiudizi, le nostre convinzioni vacillano e l’immagine che abbiamo di noi è minacciata.
Sono questi i momenti in cui diventa necessario fare appello alle nostre più profonde risorse. Tutto ciò, come direbbe Shantideva, mette alla prova il nostro carattere, rivelando quanto siamo riusciti a sviluppare la nostra capacità di pazienza e tolleranza. L’aneddoto sottolinea inoltre come la pazienza non possa essere sviluppata nell’isolamento: è infatti una qualità che può nascere solo in un contesto di interazione con gli altri, soprattutto altri esseri umani.
La spontanea risposta dell’eremita mostra quanto fosse fragile la sua crescita interiore, come il castello di sabbia di un bambino. Una cosa è abbandonarsi ad appassionati pensieri di tolleranza e compassione nei confronti degli altri nel contesto privo di sfide dell’isolamento, completamente diverso è dare vita a questi ideali nell’interazione quotidiana con persone in carne e ossa.
Con questo non si vuole però sminuire l’importanza della meditazione solitaria. Tali esercizi condotti in solitudine portano a interiorizzare introspezioni che, altrimenti, si fermerebbero al livello di consapevolezza intellettuale. E come le più antiche tradizioni religiose indiane, il buddismo riconosce nella meditazione un elemento chiave del cammino spirituale. Ma resta comunque il fatto che la vera sfida alla pazienza emerge dal contesto dell’interazione con gli altri.
Il terzo aspetto che emerge dal breve incontro tra il nostro eremita e il pastore è che l’autentica pazienza può svilupparsi solo quando si è raggiunta una certa capacità di controllo sulla propria ira. Ovviamente, reagire con una forte esplosione emotiva a un maltrattamento verbale che non si era provocato è una risposta naturale nell’uomo, ma una vera persona spirituale deve essere in grado di superare tali prevedibili reazioni umane. Questo è quanto insegna Shantideva nel capitolo dedicato alla pazienza nella sua “Guida al modo di vivere del bodhisattva.”
L’ideale del bodhisattva eleva dunque l’umiltà e la sottomissione a principi spirituali? Predica la tolleranza davanti al male?e come si pone nei confronti dell’ira e dell’odio che abbiano una giustificazione? L’ideale del bodhisattva non ci chiede forse l’impossibile, andando contro la reale natura umana? Queste sono solo alcune delle domande che immediatamente si presentano alla mente dei moderni lettori di Shantideva.
Scritta nell’VIII secolo d. C., l’opera di Shantideva divenne un importante classico del buddismo Mahayana. La leggenda vuole che il monaco Shantideva recitasse l’intero testo improvvisando quando gli fu chiesto di tenere una lezione a una congregazione di monaci alla famosa università monastica indiana di Malanda. Si narra che inizialmente la richiesta della lezione nascesse dal desiderio di umiliare Shantideva che, agli occhi dei suoi confratelli sembrava non fare altro che “mangiare, dormire e defecare.”
I monaci non si rendevano conto che Shantideva sembrava condurre un’esistenza piuttosto oziosa, ma aveva invece una ricca esperienza interiore e una profonda conoscenza. Gli aneddoti tibetani sulla storia concordano nell’affermare che quando Shantideva arrivò al nono capitolo, quello difficile, quello sulla saggezza, si librò nell’aria e svanì, mentre la sua voce restò perfettamente udibile.” (Geshe Thupten Jinpa)