giovedì 30 marzo 2017

Fusione e dissolvenza



“Metti radici nella terra
così potrai ergerti alto nel cielo;
metti radici nel mondo visibile
così da poter raggiungere l'invisibile.”
(Osho)

“Una delle cose fondamentali, che non solo tu, ma tutti devono ricordare è questa: qualsiasi cosa tu incontri nel tuo viaggio interiore, tu non sei quella cosa. Tu sei colui che ne è testimone: può essere il nulla, può essere la beatitudine, può essere il silenzio. Ma una cosa va ricordata: per quanto bello e ammaliante possa essere ciò che incontri, tu non sei quell'esperienza.

Tu sei colui che sperimenta, e se prosegui senza fermarti mai, il culmine del tuo viaggio sarà il punto in cui non ci sarà esperienza alcuna: né il silenzio, né la beatitudine, né il nulla. Non esiste nulla in quanto oggetto di fronte a te, solo la tua soggettività. Lo specchio è vuoto. Non riflette più nulla. Sei tu.

Perfino i più grandi viaggiatori del mondo interiore sono rimasti intrappolati in esperienze meravigliose, e si sono identificati con esse pensando: "Ho trovato me stesso". Si sono fermati prima di arrivare allo stadio finale, là dove ogni esperienza scompare. L'illuminazione non è un'esperienza. È uno stato dell'essere in cui tu sei lasciato assolutamente solo, senza nulla da conoscere.

Nessun oggetto, per quanto bello, è presente. Solo in quel momento la tua consapevolezza, non più impedita da alcun oggetto, opera una svolta e torna alla fonte. Diventa un'auto-realizzazione. Diventa illuminazione. 

Devo ricordarvi qualcosa sulla parola "oggetto". Ogni oggetto presuppone un ostacolo. Il significato della parola stessa è: ciò che ostruisce, che si para davanti. Quindi, l'oggetto può essere altro da te, nel mondo materiale; oppure dentro di te, nel tuo mondo psicologico. Vi possono essere oggetti nel cuore, nei sentimenti, nelle emozioni, nelle sensazioni, negli stati d'animo. E gli oggetti possono esistere per sino nella sfera spirituale.

E sono così estatici da renderti inconcepibile la possibilità che esista qualcos'altro. Molti mistici si sono arrestati di fronte all'estasi. È una dimensione splendida, offre un panorama magnifico, ma non si è arrivati a casa. Quando arrivi al punto in cui ogni esperienza è assente, in cui non esiste più oggetto alcuno, allora la consapevolezza, libera da ostacoli, si muove in un cerchio - nell'esistenza tutto si muove in circolo, se non ha impedimenti - essa proviene dalla stessa fonte del tuo essere, e si muove.

Non trovando ostacolo alcuno - nessuna esperienza, nessun oggetto - torna indietro. E il soggetto in quanto tale diventa l'oggetto. È ciò che Krishnamurti ha continuato a dire per tutta la vita: quando l'osservatore diventa la cosa osservata, sappi che sei arrivato. Prima di allora, esistono mille cose lungo il sentiero. Il corpo ti dà le sue esperienze, divenute note come le esperienze dei centri della kundalini; i sette centri diventano i sette fiori di loto.

Ognuno è più grande dell'altro ed è più elevato del precedente, e quella fragranza inebria. La mente ti fornisce uno spazio immenso, sconfinato, infinito. Ma ricorda la massima fondamentale: ancora la casa non è giunta. Goditi il viaggio e tutti i panorami che esso ti porta a conoscere: gli alberi, le montagne, i fiori, i fiumi, il sole e la luna e le stelle, ma non fermarti da nessuna parte, se non quando la tua stessa soggettività è divenuta l'oggetto di se stessa.

Quando l'osservatore è la cosa osservata, quando colui che conosce è la cosa conosciuta, quando colui che vede è la cosa vista, è giunto a casa. Questa casa è il tempio reale che noi abbiamo cercato per vite intere, ma da cui siamo sempre vissuti lontani, accontentandoci di esperienze meravigliose.

Un ricercatore coraggioso deve abbandonare tutte quelle esperienze meravigliose dietro di sé e continuare a camminare. Quando tutte le esperienze vengono esaurite e resta solo il proprio sé nella sua solitudine... non si ha estasi più grande. Nulla è più beato, nessuna verità è più vera. Allora entri in ciò che chiamo essenza divina, diventi una divinità...

Tu dormi, ed è ora di svegliarsi. Tutte queste esperienze riguardano una mente addormentata. Una mente risvegliata non ha esperienza alcuna. L'osservatore e la cosa osservata sono due aspetti dell'essere testimone. Quando essi scompaiono l'uno nell'altro, quando si fondono l'uno nell'altro, quando diventano una cosa sola, per la prima volta il testimone affiora nella sua totalità.

Ma in molti nasce un interrogativo, in quanto essi pensano che il testimone sia colui che osserva. Nelle loro menti, l'osservatore e il testimone sono sinonimi. È un falso: l'osservatore non è il testimone, ma solo una parte. E quando la parte si considera il tutto, nasce l'errore.

L'osservatore indica la parte soggettiva, e la cosa osservata quella oggettiva: osservatore è ciò che è esterno alla cosa osservata, e questa indica ciò che è all'interno. L'esterno e l'interno non possono essere separati: sono uniti, possono solo esistere in quanto unità. Quando questa unità, o meglio questa unione, viene sperimentata, sorge il testimone. 

Non si può coltivare il testimone. In questo caso non si farà che coltivare l'osservatore, e questi non è il testimone. Che fare, dunque? Ci si deve fondere, ci si deve dissolvere. Mentre guardi una rosa, dimentica completamente che esiste un oggetto visto e un soggetto che guarda. Lascia che la bellezza del momento, la benedizione del momento, travolgano entrambe le cose, così la rosa e tu non siete più separati; diventate i un solo ritmo, un canto, un'unica estasi.

Quando ami, quando esperimenti la musica, quando osservi un tramonto, lascia che questo si ripeta. Più si ripete, meglio è, poiché non si tratta di un'arte ma di un trucco. Devi solo capirlo, e quando lo hai capito lo puoi mettere in atto ovunque, in qualsiasi momento. Quando sorge il testimone, non esiste nessuno che fa il testimone e non esiste una cosa di cui si ha testimonianza.

È uno specchio limpido, che non rispecchia nulla. Perfino dire che si tratta di uno specchio, non è giusto; sarebbe meglio dire che si tratta di un rispecchiare. È meglio dire che si tratta di un processo dinamico di fusione e dissolvenza; non è un fenomeno statico, è un flusso. La rosa ti raggiunge e tu entri in lei: è una condivisione dell'essere.

Non pensare che il testimone sia colui che osserva: non lo è. L'osservazione può essere praticata, l'essere testimone accade. L'osservazione è una sorta di concentrazione, e l'osservare ti mantiene separato. L'osservatore darà risalto al suo ego, lo rafforzerà. Più diventi un osservatore, più ti senti simile a un'isola, separato, distaccato, distante.

Nel corso dei secoli, i monaci di tutto il mondo hanno praticato l'esercizio dell'osservazione. Possono anche averlo chiamato il testimone, ma non lo è. Il testimone è qualcosa di totalmente diverso, di qualitativamente diverso. Si può praticare l'osservazione, la si può coltivare; la si può migliorare con l'esercizio. Gli scienziati osservano, i mistici sono testimoni.

La scienza si basa sull'osservazione: è un'osservazione estremamente penetrante, affilata, acuta, nulla deve sfuggirle. Tuttavia, lo scienziato non arriva a conoscere Dio. Sebbene la sua osservazione sia estremamente abile, rimane inconsapevole di Dio.

Non lo incontra mai; al contrario, arriva a negarne l'esistenza, poiché più osserva - e la scienza si fonda interamente sull'osservazione - più diventa separata dall'esistenza stessa. Ogni collegamento si spezza e sorgono mura; lo scienziato resta prigioniero del proprio ego. Il mistico testimonia. Ma ricorda: si tratta di un evento, è una conseguenza.

Una conseguenza dell'essere totale in qualsiasi momento, in qualsiasi situazione, in qualsiasi esperienza. La totalità è la chiave: dalla totalità sorge la benedizione della testimonianza. Dimentica l'osservazione: non farà che darti informazioni più accurate sul soggetto osservato, ma ti lascerà completamente ignaro della tua consapevolezza.” (Osho, La meditazione prima e ultima libertà, Ed. Mediterranee)

martedì 28 marzo 2017

Chi è il mio prossimo?



“Amerai il prossimo tuo come te stesso.”
(Vangelo di Marco 12,31)

“Resta fondamentale la domanda posta dal dottore della Legge a Gesù: «E chi è il mio prossimo?» che potremmo tradurre: «Dove trovo il mio prossimo?» Io vorrei segnalare due luoghi “insoliti” dove pochi sospettano si possa trovare il prossimo. Il primo è dentro te stesso. Il prossimo, prima di tutto, sei tu. Forse qualcuno rimarrà sorpreso e perfino scandalizzato da questa affermazione. E obietterà che l’amore, al contrario, è dimenticanza di sé, capacità di cancellarsi e di essere “per” l’altro.

Farò presente che soltanto rinnegando l’egoismo è possibile amare veramente. Tuttavia, non dobbiamo confondere un giusto, perfino doveroso amore di sé, con l’egoismo. Sono due cose totalmente diverse. Una certa - cattiva - formazione ha insegnato a disprezzare, o addirittura odiare se stessi. Si tratta di un atteggiamento antitetico rispetto al Vangelo dove Gesù, citando l’Antico Testamento, insegna: «Amerai il prossimo tuo come te stesso.”

Qui si suggerisce, dunque, la possibilità e perfino il dovere di amare se stessi. La carità nei propri confronti è perfettamente legittima secondo il Vangelo. Io resto convinto che troppe persone si rivelano incapaci di amare e accettare gli altri perché non riescono a stabilire un buon rapporto con se stessi. Non sapendo stare come si deve nella loro casa interiore, si rivelano impreparati a vivere “fuori.”

Ci sono individui che non si sopportano, nutrono dei risentimenti verso se stessi. Non si perdonano quella spanna in meno, le due dita di cellulite in più, il non aver saputo approfittare di una circostanza favorevole nella vita. Poveracci che si mettono continuamente sotto accusa per un’infinità di motivi: carattere, difetti, insuccessi, errori, talenti limitati, malanni fisici, un albero genealogico con qualche ramo scricchiolante…

Perciò, devi amare te stesso. Devi perdonarti. Avere pazienza, fiducia nei tuoi confronti. La fede, la speranza e la carità è bene esercitarle anche verso di te. Hai il preciso dovere di “farti prossimo” verso quel poveraccio che sei tu. Ti viene richiesto di rispettare e amare te stesso come “qualsiasi altro povero membro del corpo mistico di Cristo” secondo l’espressione di Georges Bernanos.

È assurdo che tu tenga le distanze da te stesso. Devi avvicinarti, guardarti in faccia, dirti che vuoi “vivere in armonia”, andare d’accordo con te stesso, non mancarti di rispetto. Più che scaraventarti addosso il disgusto (che rappresenta l’eccesso opposto dell’autocompiacimento), è utile che porti serenamente il tuo peso, accetti i tuoi limiti. E, al più piccolo incidente, al primo - o ennesimo - infortunio, non pensare subito che la convivenza è impossibile.

Cerca di essere fedele a te stesso, nonostante i tradimenti e gli sgarbi che ricevi dalla parte peggiore di te. Convinciti. Non potrai essere fedele né a Dio né ad un’altra persona, se non imparerai a essere fedele a te stesso. Impegnati pure in molteplici attività. Ma vedi anche di accorgerti di quel poveraccio di te stesso. Presta un po’ di attenzione a quel “dimenticato” che sei tu…“ (Alessandro Pronzato, Piccoli passi verso l’uomo, Gribaudi ed.)

La speranza



“Sperare significa credere che qualcuno ci ama
significa mettersi in cammino verso un altrove
significa anche osare di vivere in altro modo.”
(Enzo Bianchi)

“Il monito dei Proverbi: «La speranza insoddisfatta fa languire il cuore» si applica dolorosamente a coloro che vivono in luoghi del mondo dove persistono conflitti etnici e religiosi, spesso conseguenza di eventi accaduti centinaia di anni fa: un esempio di come le tragedie passate mantengono la loro stretta mortale sul futuro dell’umanità.

La speranza - speranza di pace, di opportunità, di una nuova vita - è il possedimento più prezioso sia per costoro sia per chi cerca asilo in paesi ricchi e liberi dove poter godere della vita che gli viene negata in patria, tormentata di povertà e di assenza di libertà. È difficile reggere il pensiero della loro delusione quando quelle speranze vengono negate.

Il fatto che la speranza sia essenziale per la vita è considerato un truismo. Che vita sarebbe se non avessimo speranze, se pensassimo che le cose possono solo peggiorare, se ci aspettassimo continuamente il fallimento, anticipando il sapore della sconfitta? Non è concepibile.

Chi approva un atteggiamento ottimista sostiene che, nei momenti favorevoli, la speranza è un incitamento verso le cose ancora migliori, mentre nei momenti difficili essa è un conforto, perché tiene viva l’idea del sollievo e della salvezza, di una ricompensa futura o, almeno, della giustizia finale.

Naturalmente, però, c’è sempre chi non è d’accordo. Secondo i cinici, la storia dimostra che il tributo riscosso dalle notti buie è sempre stato minore di quello preteso dalle false albe. La natura ingannevole della speranza le dà una cattiva reputazione: per ogni uomo fioriscono cento speranze, pochissime delle quali destinate a realizzarsi. Essa spaccia la menzogna per verità, e intrappola gli esseri umani facendo loro perseguire vani obiettivi che li porteranno a disillusioni ancora più grandi.

La speranza, dicono i cinici, distorce la realtà; fa sembrare quanto è autenticamente brutto e cattivo nulla più che uno schermo temporaneo, frapposto tra noi e ciò che è bello e buono. Pertanto essa è legata all’illusione… ma una vita di false speranze - di mera speranza o di null’altro che speranza - è forse migliore e più nobile di una vita in cui si affronti la realtà guardandola in faccia e considerandola per quello che è?

Si potrebbe sostenere che i cinici partano dalla premessa sbagliata. Essi osservano la propensione umana a sognare a occhi aperti, ad abbandonarsi alla fantasia, ad aggrapparsi a vane speranze a dispetto di schiaccianti evidenze contrarie, a nutrire aspettative e ambizioni poco realistiche. Osservano, e non riescono a capire che da questo terreno a volte sbocciano fiori sorprendenti di originalità e successo.

Gran parte di ciò che ha spinto avanti il mondo nacque come una speranza; e tutto quello che l’ha fatto regredire ha comportato la morte di speranze. La rigida concezione che vede nella speranza una debolezza più che una virtù ci esorta a rimboccarci le maniche e ad abbracciare la Verità. D’altra parte, affermano i difensori della speranza, la sola verità indiscutibile sulla condizione umana è che possiamo soffrire e dobbiamo morire. Il resto sta a noi crearlo. Che cosa mai potremmo fare di noi stessi senza speranza?

I cinici non sono d’accordo nel trattare la speranza come una virtù, giacché raramente essa genera frutti. D’altra parte, ribattono gli avvocati della speranza, ciò significa guardare le cose a rovescio. La speranza è una virtù, e lo è a prescindere da ciò che realizza.

È un valore intrinseco, un fine in sé, associato al coraggio e all’immaginazione, un atteggiamento positivo pieno di possibilità e aspirazioni.È per questa ragione che si scopre di più su una persona conoscendo le sue speranze piuttosto che osservando quanto ha realizzato nella sua vita. La nostra parte migliore, infatti, sta in ciò che speriamo di essere.” (A. C. Grayling, Il significato delle cose, TEA ed.)

giovedì 23 marzo 2017

Desiderio di cose leggere



Giuncheto lieve biondo
come un campo di spighe
presso il lago celeste

e le case di un’isola lontana
color di vela
pronte a salpare –

Desiderio di cose leggere
nel cuore che pesa
come pietra
dentro una barca –

Ma giungerà una sera
a queste rive
l’anima liberata:
senza piegare i giunchi
senza muovere l’acqua o l’aria
salperà – con le case
dell’isola lontana,
per un’alta scogliera
di stelle -


(Antonia Pozzi, 1° febbraio 1934)

domenica 12 marzo 2017

L’Eden



Non ti attaccare
Non respingere
Lascia i concetti
Vedi le cose per come sono
Lo spazio si apre

Tutto è in te
Tu sei in tutto
Non ti manca nulla
Non ti aggredisce nulla
Non vi è più nessun ostacolo
(Pierre Lévy)

“Non c’è niente da volere, niente da fare. Il mondo è già stato creato. Non dobbiamo fare altro che ricevere i doni innumerevoli che ci vengono dati ogni secondo: la vista, l’udito, la ricchezza dei sentimenti, la profondità e la luminosità degli esseri. Dio è ciò per cui ogni gioia viene al mondo.

Ogni volta che sorge la bellezza, allo stesso tempo Dio viene al mondo. Dio è molto facile da trovare. È nel più intimo della gioia di esistere, di respirare, di sentire. Quando meditiamo, smettiamo di agire. Smettiamo allo stesso modo di essere agiti dall’irritazione e dalla mancanza che osserviamo venire e dissolversi.

È sufficiente lasciare l’agitazione per rendersi conto che possiamo lasciare il mondo così com’è, che possiamo godere della semplice esistenza sempre presente, sempre disponibile. Lo shabbat ha lo stesso significato. Durante questa meditazione settimanale è vietato lavorare. È vietato creare. È il momento per godere di una creazione continuata che non ci richiede alcuno sforzo. È il momento per entrare nella danza cosmica.

Proprio come il Giardino dell’Eden, il Nirvana non può essere né prodotto, né costruito. Smettiamo semplicemente di desiderare, di agire, di manipolare, di fabbricare, di calcolare, per accontentarci di essere attential mondo, a noi, al nostro corpo, alle nostre emozioni, al libero gioco del nostro intelletto.” (Pierre Lévy, Il fuoco liberatore, Luca Sossella ed.)

giovedì 9 marzo 2017

L’imbecillità è una cosa seria



“Ogni epoca ha i suoi tromboni,
così come ha i suoi bugiardi, i suoi furfanti,
e ovviamente i suoi imbecilli.”
(Maurizio Ferraris)

L’assunto da cui parte il filosofo Maurizio Ferraris con “L’imbecillità è una cosa seria,” un pamphlet molto spiritoso e gradevole, è che l’essere umano è fondamentalmente un imbecille. La riflessione sull’imbecillità ha impegnato le menti migliori di tutti tempi. Il fatto è che sono sempre esistite legioni di imbecilli, perché il processo inizia con l’ominizzazione e continua durante l’evoluzione dell'uomo. 

E non è detto che nella lunga lista di imbecilli "storici" non ci sia finito anche il nostro nome. In effetti, anche chi prova a studiare o lavorare sul fenomeno può scivolare fatalmente nel gorgo dell’imbecillità. Ferraris nota che Ortega y Gasset diceva che l’uomo di buon senso è sempre tormentato dal sospetto di essere imbecille, mentre il vero imbecille è fiero di se stesso. E allora come possiamo avere la garanzia che non siamo finiti in questa lunga lista? 

E, se pensiamo di non esserci inclusi non siamo forse dei presuntuosi? E la presunzione non dimostra l’opposto esatto di quanto vorrebbe mostrare? In realtà non ci spaventa la follia, ma temiamo maggiormente l’imbecillità perché il matto si riesce a distinguere, mentre l’imbecille resta un problema. Anche i più grandi uomini sono stati degli imbecilli, osserva Ferraris, basti pensare a Napoleone Bonaparte che aiutò il suo stesso declino. Chi altri se non un imbecille partirebbe per la Russia giocandosi d'un colpo solo, la casa, l’impero e il patrimonio? 

Arrivati a questo punto è urgente fare una precisazione terminologica, per cui precisiamo che per "imbecillità" vogliamo significare l'equivalenza di significato con: cecità, indifferenza o ostilità ai valori cognitivi. Questa precisazione ci rende evidente che l’imbecillità è inversa e simmetrica al peccato originale in cui vi è un’eccessiva curiosità nei confronti dei valori cognitivi. Se accettiamo il collegamento, i conti tornano, in politica e in economia, nella vita sociale e anche nella filosofia della storia. 

Sì, proprio "filosofia della storia" che sembra una cosa strana e inutile, mentre invece essa ci offre strumenti indispensabili per comprendere i tempi in cui viviamo. E per molti uomini l’epoca presente dimostra che c'è un fragoroso fallimento delle ideologie che non sanno regolare i comportamenti collettivi. L’ampliamento di prospettiva offerto dalle nuove tecnologie semplifica l’accesso alla cultura: e questa è un’ottima notizia. Le cattiva notizia è che le tecnologie aumentano ancora di più la distanza tra “il dire e il fare” e che sfruttano la “virtualità del virtuale” per aumentare il livello di “coglioneria diffusa”. 

Ma cosa spinge un essere umano a fare uno studio così ambizioso e complesso, si chiede Ferraris? Senza dubbio sul lato malsano dell'autore non incide il desiderio di sputare fiele contro tutto il genere umano. Quello che spinge il benintensionato è una constatazione oggettiva, ossia che “non c’è grandezza umana che non sia travagliata dall’imbecillità” e questo pensiero può divenire una grande consolazione. Dobbiamo pensare che “l’imbecillità dell’uomo di genio è una tappa evolutiva di un cammino che ha avuto inizio nell’infanzia.” 

Nietzsche dice che l’uomo è una corda tesa tra la bestia e il superuomo. E vuole significare che l’uomo è posto a metà strada tra l'imbecille e il semidio. In definitiva dice che l’uomo non è,  né carne, né pesce. Anche Vico vede - nel passato -  un grande branco di scimmioni che si uccidono, per cui sembra che il guado che va superato è molto ampio, e forse è più largo di quanto crediamo. Se la questione è vista in questo modo, è chiaro che la filosofia della storia diventa un’epopea dell’imbecillità. 

Esiste una legge implacabile, nota Ferraris, secondo la quale quanto più la “scimmia è nuda” e tanto più pretende di essere costruttrice del mondo, perché crede di essere creatrice e originale. La logica che guida lo scimmione vichiano è questa: “Visto che non sono creativo, ho pensato di scrivere un decalogo, come il Creatore.” Tra gli uomini dell'antichità essere creduti imbecilli non era un problema e non costituiva un insulto, mentre la stessa cosa è ritenuta una colpa per l’uomo moderno. Fa eccezione il caso di chi “ci fa” ma "non lo è."  

Dobbiamo pensare che la modernità ci sta rincretinendo? Non sembra affatto vero, anche se - solo per il fatto di averlo pensato - dimostriamo una forte imbecillità. A questo punto qualcuno si aspetterebbe una filippica contro il digitale, perché al digitale viene attribuito tutto il male del mondo ovvero: egoismo, liberismo, anarchismo, nichilismo, coazione, oscenità e calo del desiderio. Forse è vero che viviamo “in un tempo di morti viventi,” ma siamo sicuri che questo dipenda dal digitale? 

Da quanto ci risulta, la tecnica non aliena, né istupidisce, ma - piuttosto - aumenta la possibilità di farci conoscere per ciò che siamo veramente. Tanta più tecnica viene usata e tanto maggiore sarà l’imbecillità percepita. Ferraris dice che non siamo più imbecilli dei nostri antenati, anzi forse siamo diventati molto più intelligenti. E allora cosa possiamo fare per aiutare l’umanità a migliorare e per fare in modo che non restiamo tutti schiacciati dall’imbecillità collettiva? 

Ferraris, in seguito a questa bella intenzione e dopo un’approfondita analisi dell’imbecillità di massa, si mette ad analizzare l’imbecillità di élite, infine ipotizza la dialettica dell’imbecillismo, perché il fenomeno è complesso e multiforme. Non dobbiamo mai dimenticare che la condizione umana di base è che: “imbecille è l’uomo allo stato di natura, “in-baculum” e implume. E questa appunto, è la nativa imbecillità umana, il bestione vichiano, il perfetto imbecille, l’imbecille fatto e finito,” nota Ferraris. 

Vista così la questione, è evidente che l’uomo ha bisogno di ricevere degli ausili tecnici, e questo vuol dire che l'uomo ha bisogno di ricevere un aiuto. Ma, di contro,  è certo che l’imbecillità insidia l’umanità proprio nel preciso momento in cui l’uomo sembra potersi elevare dal suo stato di natura, e sembra migliorare il suo stato. Allora qual è la soluzione migliore? Maurizio Ferraris, con "L’imbecillità è una cosa seria" offre l’opera adatta per trovare una soluzione al dilemma.

Buona lettura
Sharatan


sabato 4 marzo 2017

Il contraddittorio sul sublime insegnamento



Qualunque monaco errante può fermarsi in un tempio Zen a patto che sostenga e vinca una discussione sul buddhismo con coloro che vivono in quel luogo. Se viene sconfitto, deve continuare nel suo cammino. In un tempio, nella parte settentrionale del Giappone, vivevano due confratelli. Il più anziano era erudito, ma il più giovane era stupido e aveva un solo occhio.

Un monaco errante arrivò e chiese alloggio sfidandoli, come è consuetudine, a un contraddittorio sul sublime insegnamento. Il confratello più anziano, sentendosi stanco per il troppo studio, quel giorno disse al più giovane di prendere il suo posto: «Vai tu e chiedigli il dialogo silenzioso» si cautelò prudentemente. Così, il giovane monaco e lo straniero andarono a sedersi nel santuario.

Non passò molto tempo che il viaggiatore si alzò e andò dal monaco anziano dicendo: «Il tuo giovane confratello è un individuo straordinario. Mi ha sconfitto.» L’altro disse: «Riferiscimi il dialogo.» Il viaggiatore spiegò: «Ebbene, innanzitutto io ho alzato un dito che rappresentava Buddha, l’Illuminato. Allora lui ha alzato due dita, per indicare Buddha e il suo insegnamento.

Io ho alzato tre dita per rappresentare Buddha, il suo insegnamento e i suoi seguaci che vivono la vita armoniosa. Allora lui ha agitato il pugno davanti al viso, a indicare che tutti e tre vengono da una sola realizzazione. Così lui mi ha vinto e io non ho il diritto di rimanere qui.» Detto questo, il viaggiatore se ne andò e continuò la sua strada.

«Dov’è andato quel tale?» Chiese il più giovane arrivando di corsa dal fratello più anziano, che disse: «Ho saputo che hai vinto il dibattito.» Il fratello più giovane precisò: «Non l’ho vinto affatto. Vorrei tanto dargli una bella bastonata.» Il fratello più anziano gli suggerì: «Dimmi l’argomento della vostra discussione.»

Il più giovane raccontò: «Beh, non appena mi ha visto, ha alzato un dito, insultandomi con l’allusione che ho un solo occhio. Poiché era uno straniero, ho pensato di dover essere gentile con lui, così ho alzato due dita congratulandomi con lui per il fatto che avesse due occhi.

Allora quel miserabile maleducato ha alzato tre dita, suggerendo che tra tutti e due abbiamo soltanto tre occhi. Arrivati a questo punto ho perso la testa e ho minacciato di dargli un pugno, ma lui si è alzato ed è scappato via, e così è finita la discussione!» (101 storie zen, a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, Ed. Il punto d’Incontro)