“Il viaggio più lungo è il viaggio interiore.“
(Dag Hammarskjöld)
Non è raro sentire commenti razzisti nei confronti degli extracomunitari, migliaia e migliaia di persone venute in Italia nella speranza di migliorare la propria condizione economica. In parte questa speranza è stata soddisfatta, ma a costo di enormi sacrifici, tra cui probabilmente il più grande è la necessità di abbandonare i genitori, i parenti, la terra di origine. Per alcuni il ritorno al paese natale è impossibile.
Pensiamo ai profughi di qualunque paese che sta subendo la violenza politica e militare di un grande cambiamento sociale. In un certo senso, anche noi siamo profughi della nostra stessa terra. Quante volte ci troviamo a dover lasciar andare una situazione, a dover abbandonare una certa condizione, spinti dalla necessità di aprire uno spiraglio in una situazione di sofferenza!
E così ci mettiamo in viaggio, potremmo dire, alla ricerca della terra promessa. Pensiamo che la nostra terra promessa esista come luogo fisico, pensiamo che la felicità sia impossibile da trovare qui e ora, esattamente qui dove siamo. Questa mancanza di fiducia nella nostra situazione attuale ci fa ricercare spazi diversi, esperienze diverse, persone diverse nella speranza che un luogo o una persona ci possano dare la felicità che ci manca.
Ma, ben presto, ci rendiamo conto che, in qualsiasi luogo siamo, con qualsiasi persona viviamo, qualsiasi cosa facciamo, le cose non vanno come avremmo voluto. È uno scoraggiamento capace di portarci a un senso di totale smarrimento ma, poiché ci sentiamo responsabili per noi e per gli altri, facciamo enormi sacrifici per andare avanti. E così, tutti presi dal sacrificio e dal lavoro compulsivo, dimentichiamo di accudire a quella ferita interiore che non ha ancora trovato un’erba curativa, un lenimento.
Ci gettiamo nel lavoro in modo frenetico, siamo rivolti solo all’esterno, presi dalla meccanica stabilitasi tra noi e gli altri, tra noi e la società. Questo continuo darci da fare, compreso ciò che facciamo per gli altri, soffoca proprio quel desiderio di libertà che ci aveva fatto rivolgere all’esterno. Tutti vogliamo ritornare a casa, ma prima dobbiamo sapere qual è la nostra vera casa. Pensiamo a una casa di mattoni, lavoriamo sodo per guadagnare abbastanza per comprarcela.
Potremmo dedicare anni e anni a questo scopo, crearci una famiglia una famiglia e una casa solo per renderci conto che, in realtà, abbiamo dimenticato di lavorare su noi stessi, e non abbiamo quindi creato le condizioni indispensabili per stabilire un rapporto durevole e armonioso con la nostra famiglia. Così quelle quattro mura ci soffocano e, mancandoci l’armonia proprio in casa nostra, abbiamo voglia di evadere, di scappare, alla ricerca di altri piccoli rifugi, di altre piccole e grandi cosa da fare per sostituirle al nostra antico sogno.
Fa parte di un discorso molto importante, perché una dinamica psicologica caratteristica è l’evasione, la fuga, il non voler vedere come feriamo le persone che ci sono più vicine. In seguito, senza dubbio proviamo tutti nostalgia, una nostalgia profonda che ci chiama verso la nostra vera casa. Vogliamo tornare a casa. Dopo aver viaggiato per anni, lavorato per anni, incontrate tante persone, vogliamo ritrovare il nostro giaciglio e, una volta tanto, dormire da soli sotto le stelle.
È solo la paura che non ci permette di essere liberi. Liberi dal desiderio, come dall’avversione e dall’illusione. Invece, continuiamo a pensare che la libertà ci aspetti in un’altra terra, in un altro sogno. Credere che possa esserci di rifugio un’altra casa, un altro luogo, un’altra situazione è un’illusione. Significa non voler accettare il lavoro che dobbiamo adempiere qui e ora per ristabilire un rapporto sincero e armonioso con le persone con cui abbiamo intrapreso il viaggio della vita.
È essenziale chiederci se siamo disposti a cambiare, se vogliamo veramente guarire dalla malattia e dal desiderio ossessivo. È essenziale chiederci se vogliamo vivere al di là della dipendenza, della schiavitù degli stimoli e delle sensazioni, liberi da qualunque oggetto. Ogni volta che creiamo dualismo e viviamo nel dualismo, allarghiamo l’area del conflitto. (Achaan Thanavaro, Verso la luce, Ubaldini ed.)
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Sharatan