Siamo noi i soli che possiamo creare le nostre gabbie mentali, le nostre prigioni interiori, noi soli sappiamo come incatenare la nostra anima. Siamo noi stessi i nostri migliori carnefici. Creiamo le nostre catene e le colleghiamo ai fatti del nostro passato. In questo modo soffochiamo la nostra vita in nome di una cosa che non esiste più, cioè il passato, oppure la condanniamo ad aspettare qualcosa che non esiste ancora, cioè il futuro. Siamo soffocati tra due assurdi logici ed incatenati senza prospettive.
Così relegati, come possiamo sperimentare tutte le potenzialità che sono dormienti nel nostro cuore, nella nostra mente e nella nostra anima?
Vorremmo un mondo diverso, ma gli altri non possono cambiare per un nostro atto di volontà, in realtà, possiamo e dobbiamo cambiare solo noi stessi. Possiamo iniziare a volerci bene, ad essere amici di noi stessi, ad apprezzarci per quello che siamo, possiamo migliorarci continuamente. Questo è il senso della libertà dell’uomo. Per crescere bisogna usare il nostro fuoco sacro, l’energia maschile nascosta in ognuno di noi e, con la sensibilità del nucleo femminile ugualmente presente, manifestare le energie creative dormienti nel nostro io più profondo. Non dobbiamo quindi fuggire dal nostro passato, ma allontanarci da esso, lasciandolo andare, pacificandoci con gli avvenimenti occorsi, crescendo e modificando la nostra pelle psichica. A volte è necessario saper rielaborare anche esperienze molto dolorose, ma queste sono le situazioni che maturano il senso della vita. Le esperienze dolorose, mentalmente rielaborate e metabolizzate, offrono il vissuto di una persona ricca e capace di passione, vibrante di sentimento. Una persona bella perché ricca nel cuore.
Per Erich Fromm, la maggior parte dei successi terapeutici inizia da una forte intensità di malessere interiore. Il paziente deve toccare il fondo della sua sofferenza, solo dal fondo si risale per una vera resurrezione. Chi non ha coscienza del suo soffrire, non arriva da nessuna parte, non cresce. Lo stesso Meister Eckhart affermava splendidamente “L’animale più veloce che vi porti alla perfezione è il dolore”.
Nella crescita vi è impegno e sacrificio, bisogna avere il coraggio di abbattere muraglie, lasciare armature, scudi e corazze, mettere da parte aculei e pungiglioni. Bisogna avere il coraggio di rinunciare a tutte le difese che ci hanno aiutato a sopportare le ingiurie della vita. Bisogna essere un vero guerriero, infatti, diceva Lao Tse “Chi vince gli altri è muscoloso, chi vince se stesso è forte”.
Tutte le difese rigide che abbiamo adottato, non fanno altro che ucciderci lentamente, togliendoci la libertà di manifestare la nostra vera essenza. La mancanza di dinamismo, l’abulia, l’inerzia e la pigrizia, lentamente costruiscono il malessere interiore e causano la morte dell’anima. Nel cambiamento, nell’azione e nell’entusiasmo per le nuove scoperte, si nasconde la nostra resurrezione.
C’è chi affronta la vita in modo rigido, come una persona tutta d’un pezzo, come una persona inossidabile ed invulnerabile. Le persone con le spalle larghe però, restano spesso prigioniere di una prigione di ghiaccio. Esse, per affrontare la realtà, hanno bisogno di scinderla in modo manicheo, devono vederla in modo schematico: nero/bianco, buono/cattivo, bello/brutto, conveniente/sconveniente, etc…
Il mondo viene incasellato in mille schemi predefiniti e rigidi, così da non potere sbagliare e poter avere sempre l’approvazione degli altri. Spesso questa rigidità ci impedisce di innamorarci, i nostri sentimenti sono congelati e le nostre sensazioni vengono chiuse in un frigidaire. Dobbiamo, allora, scongelare il nostro cuore ed aprirci alla dolcezza dell’amore, al suo calore e alla sua passione.
Le persone rigide, spesso, possono vivere molti anni senza innamorarsi perché, nella loro struttura di cemento tutto è già incasellato nella “giusta” dimensione. Colui che è rigido non accetta di mettersi in discussione, non accetta di essere scrutato da uno sguardo indagatore, non vuole fare un lavoro di analisi ed introspezione perché afferma di non averne bisogno. In realtà ha paura di rivelare la sua profonda fragilità e continua a vivere ripetendo copioni ripetitivi che gli assicurano stabilità emotiva. Le rigidità bloccano le sue energie vitali perché soffocano tutte le nuove idee e le visioni creative del mondo. La rigidità atrofizza le potenzialità espressive e causa paralisi affettive ed impotenze emotive. Anche il corpo rivela la rigidità affettiva ed il movimento diviene limitato, goffo, ripetitivo o scattoso. Spesso vi sono dolori alla schiena, come manifestazione dell’incapacità di “reggere” quell’arido progetto di vita.
Il vero riequilibrio si ottiene solo lavorando sul nostro io più profondo, sulla rimarginazione delle ferite interne, sul superamento dei modelli familiari e sociali, sulla consapevolezza dei condizionamenti esterni e sulla rivendicazione della nostra libertà di essere e di agire.
Nell’essere flessibili non si rischia nulla, diveniamo come il salice che si piega senza spezzarsi, poiché possiede radici salde e profonde. Quelle solide radici sono costruite sull’autostima, sulla certezza dei nostri valori personali, sulla sicurezza delle nostre convinzioni interiori. Possiamo giocare con la tempesta senza perdere il nostro equilibrio. L’equilibrio nel movimento non significa però instabilità, infatti l’instabile cerca fuori di sé le certezze, viaggia senza una meta precisa, senza una stella che gli faccia da riferimento, si agita perché non riesce a riconoscere l’origine del suo turbamento. L’instabile è inattendibile per gli altri ed incapace di lasciarsi andare alla vita e ai sentimenti, non sa affidarsi realmente a nulla e non sa custodire nessuno.
Quando si arriva al sé maturo, invece, si arriva al reale radicamento interiore, si riposa nel Dio interiore, siamo nel nostro tempio interno, siamo a casa. Ogni strada è sicura perché possediamo la bussola per un sicuro ritorno: in noi vi è il centro, la stabilità e la sicurezza necessarie per ogni occasione, in noi vi è l’armonia.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami
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