sabato 30 maggio 2009

Siamo affascinanti ladri


Siamo affascinanti ladri
che rubano i cuori
e non falliscono mai
perché sono gli amici dell'Uno.

Il tempo per le vecchie predicazioni,
è finito,
miriamo dritto al cuore.

Se la mente cerca di insinuarsi
e di prendere il sopravvento,
la imbavaglieremo senza indugio.

Trasformiamo il veleno in medicina,
le nostre sofferenze in benedizioni.

Tutto ciò che era familiare,
i nostri cari e noi stessi,
abbiamo dovuto lasciarli indietro.

Benedetta è la poesia che sgorga attraverso di me e non da me,
perchè il suono della mia musica sommergerà la canzone d'Amore.

Mevala Jalaluddin Rumi

giovedì 28 maggio 2009

Interiormente con Dio, esteriormente con gli uomini



“Cerco sinceramente
Colui che non si può trovare”
Rumi

Vi è un gruppo di persone che chiamano Sufi. Guardati in modo esteriore, vestono di lana grezza, per cui il loro nome forse viene dal termine arabo suf, che significa lana grezza. Coloro che li vedono vivere estranei alle ansie del mondo, sereni e in pace con se stessi, che in arabo si dice suffah, li credono sufi per questo motivo. Ancora altri, dallo sguardo più acuto, li vedono nella profondità del cuore e li ammirano perché sono i puri di cuore, che in arabo si dice safa, e come tali li onorano. Altri, che li conoscono ancor meglio, li vedono nel Giorno del Giudizio di fronte all’Eterno, pronti in prima fila, che è detta saff-i-awwal, immersi nella gioia dell’Eterno: tutte queste etimologie sono egualmente vere.

Parlare del sufismo è difficile, perché è un pensiero che non si fa ingabbiare, come dimostra l’etimologia multeplice, che ci propone Abd al-Qadir al-Jilani ne “Il segreto dei segreti”per spiegare il loro nome. Il sufismo non si può nemmeno definire una religione, perché essi ammoniscono di non aderire ad alcun culto per non dovere trascurare gli altri, ma il sufismo non è nemmeno una filosofia, sebbene abbia la sua visione del mondo, e che tra i suoi aderenti siano annoverati i più grandi filosofi e teologi islamici.

Il sufismo è un ecumenismo, è un universalismo, è un sentiero di scoperta del nucleo più profondo, più autentico ed esoterico di ogni religione, perciò è stato detto che i sufi sono come api che suggono il nettare da ogni fiore. Esso è un metodo rigoroso di addestramento mentale, una concezione psico-pedagogica di vita che si appella alle facoltà interiori dell’uomo, affinchè possa divenire un individuo autentico, che ha realizzato la sua essenza. L’uomo, afferma il sufismo, deve eliminare i suoi pregiudizi mentali e culturali, in modo da poter scoprire la scintilla divina nascosta nel suo cuore: il sufismo è la meta ideale di un importante programma di rieducazione.

Dopo avere raggiunto un certo livello di consapevolezza, un sufi è esteriormente un uomo comune, perfettamente inserito nella società, ma dentro di sé sarà profondamente diverso. Egli si voterà ad un lavoro comune, con impegno e dedizione, cosicchè la nobile condotta ne rispecchi la maturità intima. Così il sufi realizzerà il perfetto equilibrio tra l’interno e l’esterno, con piena soddisfazioni di entrambi le esigenze: essendo impeccabile dentro e fuori.

I sufi sono stati chiamati “Gli Amici” in allusione alla loro relazione con Dio, oppure “Le Genti della Verità” o “Il Gruppo” o anche “Cristiani esoterici” per la loro profonda affinità con le dottrine cristiane. Essi si appellano al Patto di Allenza tra Dio e gli uomini, un patto stipulato sotto gli auspici dell’amore reciproco: Dio è ovunque e controlla ogni azione dell’uomo, perciò essi si comportavano come se fossero perennemente al cospetto di Dio.

I sufi credono che ogni conoscenza si debba convertire in azione, per potere conciliare l’intenzione con le opere: senza conoscenza l’azione è monca, ma senza intenzione, cioè senza adeguata disposizione d’animo, ogni atto rituale è privo di valore. D’altro lato, senza le opere, non sappiamo saggiare le vere disposizioni interiori: questi sono principi pratici, da applicare alla vita quotidiana, non delle vuote speculazioni filosofiche.

Essenziale è l’Amore per Dio a cui i sufi si votano assolutamente e per sempre. Affermano che, se viviamo e agiamo pensando alle ricompense e alle punizioni, allora ci allontaniamo da Dio, perché vediamo solo la separazione e non l’unione: la volontà divina è assolutamente la migliore per l’uomo, e anche le avversità servono a riavvicinarci a Lui. Distaccandoci dal nostro io limitato e parziale, e riponendo piena fiducia nella bontà del disegno divino per la nostra vita, sapremo accantonare ogni contrarietà dell’esistenza.

Anche se i primi sufi furono degli asceti, in seguito iniziarono a valorizzare il mondo materiale dal punto di vista spirituale, perché anche la realtà delle cose e le attività quotidiane aiutano ad accostarci alla divinità. La corporeità non è un velo, ma è un modo per godere i migliori frutti dell’operato di Dio, grazie al quale ogni creatura partecipa di Lui. Per questo amore, i sufi furono distinti in “ebbri” cioè intossicati e alimentati dal pensiero del Divino, e “sobri” che non rinunciavano ai rapporti sociali e che li valorizzavano in senso spirituale.

Era un sufi anche al-Gazali, il maggiore teologo islamico, che fece apprezzare il sufismo negli ambienti intellettuali più raffinati, il quale insistette sull’aspetto della conoscenza del sé, mentre dobbiamo a Ibn-Arabi lo sviluppo del concetto dell’Unità dell’essere e a Fariddun Attar il tema del viaggio, cioè dell’erranza della Creatura che vuole tornare al suo Creatore.
Ma siano essi sufi ascetici, innamorati o metafisici, pur sempre il sufismo è una consapevolezza interiore che, a prescindere dal credo religioso, si lascia penetrare da ogni concezione mistica con cui venne a contatto: particolarmente cara è la figura di Gesù che i sufi amano intensamente e che li fa chiamare anche “cristiani mascherati.”

Islam significa “pace” e “sottomissione” e implica l’abbandono totale ed assoluto a Dio e alla sua volontà. L’uomo cerca sempre il ritorno al Creatore, ed ogni azione umana dimostra questa ricerca. I sufi non si sottraggono alla Legge, ma vi aggiungono la prospettiva interiore ed esoterica, per cui i loro messaggi si ampliano sempre con significati più profondi di quelli prettamente letterali.

Osservando i Pilastri della Legge, intendono il concetto di digiuno sia esteriore ma maggiormente come interiore, cioè come abbandono dei preconcetti e dei pregiudizi, piuttosto che come pura e semplice astensione dal nutrimento. Riguardo alla preghiera, non se ne pretende la corretta esecuzione, ma la sincera disposizione interna, sebbene il sufismo usi tecniche molto superiori alla preghiera, cioè il dhikr, che è una meditazione di tipo yogico. La Mecca non è quella geografica, ma è il nostro cuore, e la jihad è la guerra contro i nostri istinti e le nostre passioni: tutte le loro interpretazioni sono dei mòniti a coltivare l’interiorità, cioè l’aspetto esoterico della Legge.

Ogni volta che l’Islam chiama ad interpretazioni restrittive e rigide della Legge, i sufi sono in prima fila nel richiamare agli aspetti interiori e spirituali: di fatto un sufi non si sente mai vincolato alla Legge, soprattutto dopo essersi accostato alla Realtà Autentica e, anche se di fatto essi sono esteriormente conformisti, interiormente, sono sempre aderenti al Nucleo della Realtà. Il loro motto programmatico fu “interiormente con Dio, esteriormente con gli uomini” e rimasero sempre fedeli.

Più volte furono perseguitati ed uccisi per la loro simpatia all’universalismo tollerante dell’Islam, ma resistettero, perché nel Corano si afferma che Dio non distingue tra i suoi inviati, e lascia che ogni popolo osservi i suoi rituali, perché tutti coloro che credono alla fine saranno salvati (Sura 2,62) ed essere ebrei o cristiani è irrilevante davanti a Dio.

I sufi si spingono a proclamare l’unità di tutti i culti perché, malgrado le strade diverse, la ricerca è sempre una. Rumi dice che, alla fine, ci ritroveremo tutti alla stessa meta e allora vedremo che non esiste più alcuna differenza tra le varie religioni, perché tutti verremo sommersi dal Grande Oceano dell’Amore Cosmico.

Buona erranza
Sharatan


martedì 26 maggio 2009

Essere come gli dei

Da secoli la Chiesa afferma che l’uomo nasce nel peccato, vive nel peccato e non può sottrarsi alla sua natura peccaminosa. Facendo una continua predicazione in tale senso, ha sempre più diminuito la speranza ed il desiderio di sfuggire ad una natura imperfetta e corrotta. Sia pure ammettendo che l’uomo sia capace di crudeltà, però non è scritto da nessuna parte, che gli esseri umani debbano fatalmente essere vittime delle loro bassezze.

Gesù ha detto: ”Siate perfetti come perfetto è il vostro Padre Celeste” per cui è assai difficile che potesse incitare degli esseri tanto imperfetti e crudeli, ad un ideale, ad una vetta così sublime. A chiunque volesse obiettare ricordando la colpa del peccato originale che ha causato la caduta dell’uomo, potrei facilmente ricordare che la caduta riguarda la “condizione” umana e non la sua “natura.” Questa cosa non può avvenire perché Dio soffiò nel primo uomo, plasmato in argilla, un “soffio vitale” che lo rese vivente: perciò l’uomo possiede in sé un soffio divino a cui non può abiurare, essendo la sostanza della sua intima essenza.

Gesù ci ricorda questa discendanza e filiazione divina nella preghiera del Padre Nostro, ma questo non è bastato perchè i cristiani si sentissero e si comportassero veramente come figli di Dio. Per secoli si sono sentiti avvinti da un rapporto di timore ad una figura divina che possiede tutti i tratti del Dio geloso e vendicatore dell’Antico Testamento, senza pensarlo come il Padre amoroso e compassionevole che è stato predicato da Cristo.

Tutti coloro che non sono consapevoli del proprio stato di divinità latente, sono perciò condannati allo smarrimento e alla disperazione dovuto all’assenza della divinità. Non è possibile alcun risveglio e alcuna mobilitazione se non si perviene alla piena fiducia della nostra natura divina. Nello splendido Sermone della montagna, è lo stesso Cristo che afferma: ”Siate perfetti come perfetto è il vostro Padre Celeste” ”(Mt. 5,48) e anche “Chi crede in me, compirà anch’egli le opere che faccio io, anzi, ne farà di migliori.”

Perché allora vogliamo trascurare questo prezioso insegnamento? Perché esso non viene messo in luce in modo adeguato? Alla prima domanda potremmo rispondere ricordando la profonda pigrizia ed inerzia a cui tende la natura umana, sempre presuntuosamente ancorata al suo modo abituale di ragionare, e che preferisce vivere rassicurata nella sua cecità. Ma dovremmo anche ricordare che la comprensione della realtà è illusoria, e che è falsata dallo suo “strumento per pensare”, cioè dalla nostra mente cartesiana e logica: questo tipo di mente è tanto pesante e densa che non si fa raffinare con facilità.

Alla seconda domanda potrei rispondere ricordando che la Chiesa nega la dottrina della reincarnazione, senza la quale la teoria della reintegrazione degli esseri non sarebbe possibile. La"vittoria" del Bene sul Male, della Luce sulle Tenebre si compirà con il ritorno delle cose nel Divino, cioè con la riassimilazione degli esseri purificati e rigenerati nel Divino che li aveva emanati. E’ questa la Grande Opera universale. “Le illusioni momentanee, battezzate col nome di creature, di esseri, di mondi, scompariranno. In quanto Dio è Tutto, e Tutto è in Dio, benchè Tutto non sia Dio! L'Assoluto non ha tratto niente da un Nulla illusorio, che non potrebbe esistere al di fuori di Lui, senza essere Lui stesso.”

Gesù era cosciente della sua essenza e della sua missione spirituale sulla terra, perché aveva preparato la sua incarnazione. Nel vangelo di Giovanni invece si riferisce di un dialogo intercorso tra Giovanni Battista e gli inviati dei Giudei: “E questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: “Chi sei tu?”. Egli confessò e non negò, e confessò: “Io non sono il Cristo”. Allora gli chiesero: “Che cosa dunque? Sei Elia?”. Rispose: “Non lo sono”. “Sei tu il profeta?”. Rispose: “No”. Gli dissero dunque: “Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?” Rispose: “Preparate la via del Signore, come disse il profeta Isaia”. Essi erano stati mandati da parte dei farisei.”(Giovanni 1, 19-25): da ciò si desume la familiarità con la teoria della reincarnazione.

Tutta la vita e la predicazione di Gesù ci spingono al risveglio alla nostra vera essenza divina, e la parabola del figliol prodigo ci testimonia delle celebrazioni che avvengono nei Cieli, quando uno dei figli perduti finalmente ritorna a casa. Questo ritorno ha inizio con il risveglio dal mondo dei dormienti, perché la peggiore schiavitù che si può infliggere all’uomo è mantenerlo nell’ignoranza e nell’inconsapevolezza della sua dignità e della sua natura divina.
Un essere in possesso di tale consapevolezza diventa capace di cose grandi e questo fa paura al potere costituito, perché nessun soppruso si tollera se ci si reputa figli di tale padre: pretendiamo il massimo rispetto da tutti perché ne abbiamo diritto.

Gesù insisteva nel proclamare l’origine divina dell’uomo, allora gli scribi cercarono di lapidarlo. Ma Gesù disse loro: “Vi ho mostrato molte buone opere che vengono dal Padre mio, per quale di esse mi lapidate?” I Giudei gli risposero. “Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per la bestemmia: perché pur essendo tu un uomo, ti fai simile a Dio." E allora Gesù li guardò e rispose: “Non sta forse scritto nella vostra legge: Io vi ho detto che siete dei?” E allora quelli non seppero rispondere e lo lasciarono andare.

In realtà questa divinità è già scritta nell’Antico testamento e più volte, tale teoria ricorre nei vangeli, insieme alla dottrina della reincarnazione, come nel caso del cieco nato, infatti i discepoli domandarono a Gesù: “Chi ha peccato, quest'uomo o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?” (Giov. 9, 2)
La divinità viene raggiunta nel corso di più vite, ma non viene preclusa a nessuno, perchè è una nostra condizione naturale, dobbiamo solo riconoscerla e rivendicarla.

Credere in questa fraternità universale, in una comune e nobile origine, permetteva a Gesù di avvicinarsi a chiunque e di parlare con chiunque, senza lasciarsi condizionare da pregiudizi o limitazioni di casta, così proclamava un’uguaglianza spiritale ben superiore all’uguaglianza sociale che pure pretendeva. Sicuramente il messaggio che ci consegna è quello di credere in un’essenza divina che tutti abbiamo e che tutti possiamo ricordare, e da cui nessuno viene mai escluso.

Chiaramente il senso non è quello di “credersi un dio” perché sarebbe la strada per il ricovero in una clinica psichiatrica, ma piuttosto è quello di fare un percorso di consapevolezza lastricato di umiltà, amore e generosità sia verso se stessi che verso gli altri: questo sarebbe già un’ottimo inizio.
Nella mente umana regna sempre una grande confusione dovuta alla coesistenza della natura terrena con quella spirituale, perché esse viaggiano in direzioni opposte; dovremmo invece affrontare il lavoro della loro riconciliazione, della loro armonizzazione per ottenere sempre maggiori salti di consapevolezza cosciente.

L’esempio che può essere fatto, attingendo al campo della musica, è quello di uno strumento, che deve essere accordato in modo sempre più raffinato per poter eseguire partiture di crescente difficoltà. Per questo dovremmo coltivare il nostro animo leggendo dei libri, ascoltando della musica, ammirando un bel paesaggio, meditando e coltivando la nostra creatività nel modo più adeguato per i nostri talenti. Dovremmo nutrirci di bellezza, così da avvertire in noi il lampo che illumina e riscalda il nostro essere.

Coltivare solo una delle nostre due nature non ha senso, mortificarne una a scapito dell’altra non è certo la strada migliore. Educare all’elevazione delle nostre due nature appare assai più conveniente. Per evolvere è necessario un grosso lavoro sulla nostra sensibilità: è così che la nostra materia psichica può divenire più sottile, più flessibile, più pura, vibrando in modo diverso e permettendoci di percepire meglio il livello divino e preservandoci dalle cattiverie, dalla stupidità e dalle offese che potrebbero ferirci; ad esse non presteremo più alcuna attenzione.

Chi è veramente sensibile non è vulnerabile, per cui è superiore alla malevolenza, alla volgarità e alle brutture, perché si sente naturalmente attratto solo dalla luce, dalla bellezza e dalla felicità: questo significa essere come gli dei. Questi argomenti di Omraam Mickhael Aivanhov, il mio primo maestro spirituale, credo che meritino tutta la nostra riflessione.

Buona erranza
Sharatan

sabato 23 maggio 2009

La nobile banalità dell’eroe


Immersi nei luoghi oscuri che sono celati nell’animo umano, ragionando sulle materie brute e sui sentimenti di crudeltà che esso è in grado di ospitare, sapendo che vi sono forze che ci possono assoggettare, sembrerebbe facile dire che siamo un crogiuolo di forze capaci di farci abiurare a tutte le nostre migliori prerogative quali: la premura, la gentilezza, la cooperazione e l’amore.

Ma poi abbiamo visto che, anche se siamo in preda alle emozioni, alle situazioni e, anche se siamo governati da sistemi che non sempre agiscono per il bene del singolo e della comunità, possiamo imparare a essere dissidenti perchè non siamo schiavi del potere e delle situazioni, e possiamo resistere. C’è chi lo ha fatto e può testimoniarlo, ma ci resta il sospetto della nostra piccolezza perché non siamo eroi.

Gli eroi sono degli esseri speciali che compiono azioni eccezionali, sono uomini simili agli dei, così eccezionali che trascendono ogni legge. Sono spiriti magnifici che posseggono coraggio e integrità d’animo, sono superiori alle mediocrità della vita comune e capaci di imprese memorabili che nessuno sarebbe in grado di compiere. Così si esprimeva Aristotele, creando un ideale di eroismo maschio e sprezzante, naturale conseguenza di una dote individuale innata. L’eroismo nasce da una matrice possente che è aliena al vivere normale, essa è una luce, un’ideale elevato che si colloca in un luogo lontanissimo da quello del comune mortale: l’Olimpo delle divinità greche.

In realtà, nella psicologia, c’è il difetto di basare le indagini solo sull’aspetto peggiore della natura umana. Questo elemento non deve essere visto come fattore in detrimento della disciplina, perché essa sorge per la normalizzazione dei comportamenti individuali devianti, cioè nasce per eliminare i fattori dannosi alla società e al buon vivere civile.

Oggi invece conosciamo psicologie positive, strategie d’aiuto che analizzano le virtù, cioè le tendenze divine dell’essere umano. Ogni pensiero che si basa su interpretazioni di tipo darwiniano perciò andrebbe archiviato, perché reputa l’uomo derivato dalla natura animale, mentre invece ogni forma vitale possiede una scintilla divina da alimentare ed elevare: questo è il motivo della sacralità della vita.

Pensare all’uomo come forma animale evoluta, equivale a giustificarne lo sterminio e la rovina, tanti sono gli esempi di ferinità moderna, perciò dovremmo vedere il prossimo come un fratello addormentato, come una scintilla coperta da uno strato di cenere, una brace latente, ed un potenziale fuoco di divino splendore. Molto spesso non è facile farlo, ma non per questo dovremmo arrenderci, come insegnano le leggi della resistenza e dell’erranza.

Nello stereotipo dell’eroe concorre l’immagine del guerriero coraggioso, di uno che si assume dei rischi, che è noncurante di morire al fine di una nobile causa: senza dubbio l’eroismo è una sorta di status sociale che deve essere riconosciuto dagli altri. Ma qui già dovremmo riflettere, perchè gli stessi kamikaze palestinesi che sono visti come assassini dagli israeliani, vengono considerati dei martiri eroici per i loro fratelli palestinesi: insomma questi valori sono culturalmente e storicamente mutevoli e variabili.

I fatti eroici devono essere testimoniati, scritti e tramandati per poter essere ricordati, perciò è impossibile per chi non sa scrivere poter narrare la sua versione dei fatti: in effetti i poveri, gli analfabeti ed i popoli indigeni hanno pochi eroi conosciuti.

Ma non tutti gli eroi sono stati santi o guerrieri, non tutti hanno offerto il sacrificio della vita per servire una causa, anche se l’eroe è certamente chi trascura il rischio fisico per una nobile causa e chi sacrifica ad essa la sua intera vita, come Madre Teresa, Mandela, Gandhi e tanti altri, senza tacere però della miriade di “pseudo-eroi” creati dai media per indottrinarci con ideologie di massa.

Vi sono poi gli eroismi delle persone comuni, di coloro che affermano di non avere fatto niente di eccezionale, di aver fatto cose normali, che invece sono state grandi, enormi, che hanno voluto compiere atti memorabili di cui non si sono mai pentiti perché non avrebbero potuto fare altrimenti: essi dicono di non essere eccezionali ma di essere solo persone comuni.

A Città del Messico il 3 ottobre 1968 la piazza di Tlatelolco (ribattezzata piazza delle Tre culture) è ricoperta da centinaia di morti, quasi tutti studenti: l’esercito ha sparato dagli elicotteri e dai tetti del ministero degli Esteri, per ordine del presidente messicano Gustavo Diaz Ortaz. L’eco della strage sarà enorme in tutto il mondo, ma l’indignazione non impedisce la regolare apertura dei giochi olimpici, che iniziano a Città del Messico il 12 ottobre del 1968, pochi giorni dopo la strage di piazza delle Tre culture.

In febbraio gli Stati Uniti avevano votato a favore della partecipazione ai giochi del Sudafrica, paese in cui vigeva l'apartheid, ma una valanga di “no” di 32 stati africani e la minaccia di boicottaggio da parte degli atleti neri, li persuase a ritirarsi; così Città del Messico ospita i giochi più politicizzati della storia olimpica.

Furono i neri americani a occupare la scena con 10 record mondiali, e il culmine fu la premiazione dei due velocisti neri Tommie Smith e John Carlos, oro e bronzo nei 200 metri piani. Salirono sul podio scalzi, e ascoltarono il loro inno nazionale chinando il capo e sollevando i pugni chiusi con le mani guantate di nero, comunicando al mondo la loro solidarietà con il movimento del black power che in quegli anni lottava per avere eguali diritti negli Stati Uniti.
In maniera non violenta attuavano la disobbedienza civile tanto agognata da Martin Luther King, assassinato il 4 aprile 1968 a Memphis: la denuncia del razzismo americano, la dissacrazione della retorica olimpica e tutta la potenza della lotta dei neri statunitensi occuparono la scena mondiale.

Smith e Carlos furono sospesi dalla squadra americana con effetto immediato, ed espulsi dal villaggio olimpico. L’America bianca al loro ritorno si dimostrò ostile, negandogli un lavoro e riducendoli in condizioni difficili, fino a minacciarli di morte. La madre di Smith morì d’infarto, quando gli agricoltori locali gli spedirono ratti morti e letame, e la moglie di Carlos si suicidò perchè duramente provata, sia fisicamente che moralmente, dalle condizioni di emarginazione sociale.
Dobbiamo aspettare il 2005, per vedere nel campus della San Jose State University, una statua che li raffigura durante la famosa cerimonia di premiazione olimpica, e che gli rende onore per il loro eroismo civile.

Potremmo allora accettare una prospettiva intermedia per cui gli eroi sono delle persone comuni, che hanno saputo compiere imprese eccezionali. La spinta che li ha portati ad agire eroicamente è stata il tempo e il luogo, perchè una situazione agisce da catalizzatore e ci incoraggia ad agire, ci spinge ad entrare in gioco, oppure una situazione può ridurre il nostro autocontrollo e spingerci ad attuare una contromossa.

E’ interessante notare che questi anomali hanno più volte rifiutato la denominazione di eroi, dicendo di avere fatto solo quello che era necessario. Affermano che chiunque avrebbe agito come loro, oppure hanno difficoltà a comprendere come altri non l’abbiano fatto.
Nelson Mandela ha detto:”Non sono un messia, ma un uomo comune che è diventato un leader a causa di circostanze straordinarie” e le stesse parole sono state usate anche dagli eroi comuni e sconosciuti, che hanno fatto gesti eroici di ogni tipo.

Queste sono le frasi dell’eroe comune, del combattente di ogni giorno, di colui che apre la porta, che offre la precedenza, che offre il suo soccorso come buon samaritano e che può salvare migliaia di perseguitati quando arrivano le notti della ragione, così comuni nella nostra storia umana.
Questa è una banalità positiva che si oppone a quella negativa, alla “banalità del male” proclamata da Hanna Arendt: alcuni atti si compiono perchè è giusto che siano fatti.

Allora possiamo concludere pensando che ognuno può fare il bene ed il male, entrambi possono uscire fuori da noi in condizioni eccezionali, quando una situazioni svolge un ruolo determinante e ci si ritrova ad avere saltato il confine tra inerzia ed azione. Importante è credere che tutti siamo degli eroi latenti, e che l’eroismo è una capacità innata del genere umano e non una qualità rara di pochi eletti.

Buona erranza
Sharatan

mercoledì 20 maggio 2009

Un decalogo di resistenza sociale


Nella condizione umana esiste un dualismo che contrappone l’atteggiamento distaccato e il pieno coinvolgimento, siamo divisi tra il cinismo e l’impegno, tra una sospettosa prudenza e lo slancio generoso verso gli altri. La sfida più grande, per ognuno di noi, è trovare il modo migliore di oscillare in modo armonioso tra questi due estremi, perché una partecipazione più aperta ed appassionata nei riguardi della vita ci rende felici, ma la necessità del consenso altrui può renderci schiavi e non liberi.

Tutti vogliamo provare dei sentimenti forti e caldi, tutti vogliono poter esser aperti, spontanei: tutti amiamo condividere ed assaporare il calore dei rapporti umani. La sfida delle relazioni interpersonali consiste proprio nell’imparare quando è il momento di coinvolgerci completamente con gli altri, e quando è il momento di restare distaccati e distanti dal mondo. Cosa avviene quando le nostre relazioni sociali arrivano al punto di assoggettarci, di conformarci e di ridurre il nostro livello di felicità?

Esistono delle indicazioni pratiche di psicologia sociale, che ci aiutano a costruire un piccolo decalogo, che indica i contesti sociali ed i comportamentali rischiosi per la nostra felicità e delle indicazioni per la difesa dai condizionamenti sociali negativi. E’ chiaro che nessuno può essere ingabbiato in atteggiamenti standard, ma non cadiamo nella trappola della presunzione e ipotizziamo che chiunque può essere sorpreso con la guardia bassa, che chiunque può essere colpito dalla forza del pensiero e del consenso di gruppo.

Il lavoro è su due versanti: sull’aspetto dell’aumento della resilienza personale e sull’accrescimento del nostro senso civico. E la chiave della resistenza consiste nello sviluppo della consapevolezza di sé, nella sensibilità alle situazioni, e dall’accortezza pratica di sapersi destreggiare nella vita. Tutte queste doti sono essenziali per ogni aspetto della nostra esistenza, ma sono ancora più efficaci se usate per costruire delle doti di resistenza, come ci insegna il lavoro di Philip Zimbardo, consegnandoci il suo prezioso decalogo. Sono 10 punti che ci offrono altrettante raccomandazioni tattiche, da utilizzare per la nostra riflessione.

1 - Ammettere i propri errori
Cominciamo nel saper concedere a noi e agli altri la possibilità di poter sbagliare, di poter fare errori di valutazione, di poter fare la scelta sbagliata. Si inizia con il chiedere scusa, con l’ammettere il nostro dispiacere e con la richiesta di perdono dell’offesa. Diciamo a noi stessi che abbiamo sbagliato ma che miglioreremo. Diciamolo ma poi facciamolo: cambiamo strada. Dare un taglio netto aiuta a non perseverare nell’errore, impedisce la giustificazione dell’azione sbagliata, elimina i nostri sensi di colpa ed impedisce che essi siano strumentalizzati contro di noi. Anche se non è facile in alcune situazioni tagliare i ponti, alla lunga, è una strategia molto conveniente.

2 - Imparare a stare attenti e ad essere critici
Molte volte sbagliamo perché siamo distratti e non facciamo attenzione a ciò che ci circonda, viaggiamo con un pilota automatico, che lavora sulla falsariga di vecchi comportamenti a cui siamo abituati: questi comportamenti sono basati sulle esperienze passate, su ciò che conosciamo. In questo caso invece dovremmo imparare dai maestri zen, che sanno assaporare ogni istante della loro vita con intensità spontanea e profonda e con un atteggiamento mentale accorto. Impariamo a tenere sempre desta la nostra mente, ad essere come Gesù predicava ai discepoli: “siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe.” (Matteo 10,16)
Mai buttarsi a capofitto nelle situazioni, ma riflettere sempre con calma prima di agire, e non agire mai seguendo le suggestioni emotive. Impariamo a fare la valutazione delle conseguenze delle nostre azioni, rifiutiamo le soluzioni semplici e veloci ai problemi, impariamo invece a valutare le situazioni in modo critico, informato ed oculato. Ricordiamoci che, se le cose fossero semplici così come ci vengono presentate, non sarebbero diventate un problema.

3 - Imparare a sentirsi responsabili delle proprie azioni
Imparare a sentirci responsabili del bene e del male che facciamo ci aiuta a diventare attori e protagonisti della nostra vita. Permettere ad altri di governare i nostri comportamenti, equivale ad abiurare alla nostra volontà e responsabilità personale, ma soprattutto equivale alla cessione della nostra forza vitale.
Questa forma di influenza è spiegata esotericamente con il fatto che, il permesso di accesso alla nostra mente e alla volontà causa la perdita dell’energia vitale personale, e costituisce un’invasione del nostro nucleo interno; se trovassimo chi possiede una sufficiente forza psichica, potremmo avere un vero e proprio vampirismo di energie vitali, e divenire vittime di una pericolosa fascinazione mentale.

4 – Affermare la propria identità personale
Non permettere a nessuno di farci sentire un oggetto, una categoria o una casella impersonale. Dobbiamo essere orgogliosi di affermare la nostra identità, rifiutando che gli altri ci disumanizzino, perché la disumanizzazione ci pone in balìa di torturatori, tiranni, bulli, stupratori e di personalità sadiche e distruttive. Andiamo oltre l’individuazione del sé facendo azioni positive in contesti in cui si tende a rendere le persone come oggetti, ma noi non permettiamo tali strategie: parole, etichette negative e battute che possono essere distruttive o negative, anche riferite ad altre persone non vanno mai pronunciate. Diventando così meschini si abbassa il nostro livello.

5 – Rispettare le autorità giuste e ribellarsi alle tirannie
In ogni contesto dobbiamo saper riconoscere tra le autorità che per competenza, saggezza, anzianità e per status sociale meritano tutto il nostro rispetto, distinguendole da quelle che esigono cieca obbedienza senza avere meriti e sostanza, i falsi maestri. Molti si ammantano di autorevolezza ma sono dei falsi leader e dei falsi profeti, degli imbroglioni che sono promotori solo di sé stessi e che dovrebbero essere per questo, sottoposti al disprezzo di tutti. Essere educati e gentili con chi ha meriti autorevoli, ma essere determinati e fermi nel ribellarsi a coloro che ci opprimono e che pretendono irrazionale obbedienza e sottomissione, dovrebbe essere un imperativo morale assoluto.

6 – Farsi accettare dal gruppo rimanendo indipendenti
Essere accettati dal gruppo è un obiettivo ambito da tutti e per poter godere dell’approvazione altrui si farebbe qualunque cosa, perché essere animali sociali ci sottopone alla tentazione di sottostare alle norme di gruppo, anche se entrano in conflitto con le nostre intime convinzioni. Dovremmo invece sottoporci solo a quelle norme che perseguono il bene comune, ma essere disposti anche a subire la disapprovazione sociale quando la pressione del “gioco di squadra” ci fa sacrificare la nostra moralità. Dobbiamo fare un passo indietro riguardo a questo tipo di gruppi e cercare delle associazioni che promuovano i nostri valori e che sostengano il nostro spirito di indipendenza. Esiste sempre un gruppo diverso e migliore che merita la nostra presenza, dobbiamo solo cercarlo.

7 – Fare attenzione alle strutture di conoscenza
Spesso ci presentano le cose usando immagini, slogan, frasi o spezzoni di discorsi che ci suggestionano. Esse ci influenzano senza che ce ne rendiamo conto, perché sono forme stereotipate ma efficaci. Siamo molto sensibili alle questioni che ci vengono presentate come convenienti e diffidiamo di ciò che ci presentano come svantaggiose. Quando ci vogliono abbindolare presentandoci delle cose come preziose, rare ed esclusive, andiamo sempre ad indagare se, piuttosto, una proclamata apparenza non nasconda piuttosto una vuota sostanza.

8 – Equilibrare il senso del tempo
Molti si fanno affascinare ragionando solo con la prospettiva del presente, ma noi dobbiamo ragionare attivando una prospettiva in cui, le azioni si attuano tenendo conto degli obblighi passati, e valutando la prospettiva futura, cioè equilibrando la prospettiva temporale. Non lasciamoci fagocitare dal perpetuo presente, perché la prospettiva che mette in gioco anche passato e futuro, può attenuare gli eccessi del solo presente, il quale valuta solo le soddisfazioni più immediate ed egoistiche.

9 – Non sacrificare i diritti e le libertà personali e civili a favore dell’illusione della sicurezza
Il bisogno di sicurezza è una potente leva del comportamento umano, perché quando ci sentiamo minacciati diventiamo come tigri, siamo capaci di cose incredibili. Di questo approfittano coloro che ci vogliono influenzare perché ti convincono che puoi rinunciare a piccole parti delle tue libertà per permettere una protezione dalle incertezze e dalle minaccie. E’ un patto mefistofelico perché tutti i sacrifici delle libertà non potranno mai dare una sicurezza che è una pia illusione: nessuno può metterci al sicuro dal mondo e dalla vita. Spesso, il solo risultato è l’abolizione di leggi che offrono libertà, privacy e demicrazia, infatti Eric Fromm afferma che, queste false sicurezze che si millanta di procurare, sono le prime mosse di un leader fascista per creare una società solo nominalmente democratica.

10 – Possiamo ribellarci ai sistemi ingiusti
Anche se la forza dei sistemi di potere è enorme, la resistenza del singolo, unita ad altri che si associano condividendo gli stessi atteggiamenti e la stessa determinazione alla resistenza, possono fare la differenza: la storia è stata cambiata da coloro che hanno avuto il coraggio di ribellarsi e di opporsi alle ingiustizie. Resistere può significare allontanarsi anche fisicamente dalle situazioni in cui le informazioni, le ricompense e le punizioni sono completamente controllate. Può anche significare essere in grado di sfidare il pensiero di gruppo, e può significare cercare l’appoggio di amici, autorità, consulenti, persone indipendenti e gruppi politici che ci possano aiutare.
I sistemi sono molto potenti nel contrastare la dissidenza, per cui cercheranno di isolare la pecora nera, la mela marcia, il folle pensatore che critica e contesta, ma quando ci sono più persone che fanno critiche, allora la loro voce non si può ignorare: fare causa comune crea forza e aiuta la resistenza.

Questi sono 10 punti molto essenziali e di buon senso ma poi, la nostra levatura morale si dimostra nella vita di ogni giorno iniziando e facendo cose che sembrano piccole, ma che possono divenire grandi. Nella vita di ogni giorno, asteniamoci dai peccati veniali e dalle piccole trasgressioni che nessuno valuta come gravi: ci fanno diventare meschini e codardi.
Asteniamoci dal barare, dal mentire, dal fare pettegolezzi malevoli, dal diffondere voci per seminare zizzania, dalle barzellette razziste e sessiste, dal fare dispetti e prepotenze: questi non sono piccoli peccati, sono atteggiamenti gravi, che aprono l’anima alla banalità del male, perché essere morali non significa essere buoni, ma significa sapersi opporre a tutto ciò che fa del male.

Buona erranza
Sharatan

lunedì 18 maggio 2009

Arresta il sistema!

Centrati in un ruolo o inseriti in un particolare contesto, può avvenire che una situazione ci spinga a divenire malvagi, e che qualcuno esterno a noi ci possa manipolare, convincendoci che siamo i servitori di una buona causa e che siamo i soldati di una santa crociata: noi siamo il Bene Assoluto che deve assolutamente garantire il rispetto delle regole.

Qualcuno arriva con dei concetti corroboranti e vigorosi: “Noi ci rendiamo conto che ciò che ci attendiamo da voi è “sovrumano”, di essere sovrumanamente inumani. ” Vengono e ci ripetono queste intriganti parole alate, Geflugelte Worte, quelle stesse parole che Himmler ripeteva alle SS per spingerle a sterminare milioni di persone inermi: eccolo il Male assoluto che si maschera da Bene assoluto per poter legittimare se stesso!

Oggi sappiamo che le situazioni sono in grado di esercitare una forte pressione sulla volontà personale, perché persone e situazioni sono in interazione dinamica, per cui sarebbe un grosso errore sottovalutare la forza dei sistemi socio-culturali in cui viviamo. Molto spesso riteniamo di essere sufficientemente forti ed impermeabili alle influenze esterne e di avere una personalità stabile e decisa, ma ciò non è affatto vero, e noi dovremmo essere più umili ed onesti nell’ammettere le nostre debolezze.

Molte persone si sono lasciate trascinare in comportamenti di aberrante crudeltà, perché sono state convinte da altre “parole alate” che le hanno affascinate e gli hanno offerto sicurezza, per questo appare vantaggioso non negare di poter essere condizionabili e vittime di un sistema: perciò l’analisi dei sistemi di potere diventa essenziale se vogliamo arrestare il sistema condizionante, o se vogliamo renderlo meno insidioso.

I sistemi di potere creano degli schemi comportamentali complessi, in grado di forzare le disposizioni individuali e le situazioni, e ci riescono soprattutto quando essi prendono forza dalle ideologie. Le strutture di potere fortemente ideologizzate, promettono delle soluzioni facili ai problemi, sono strutture che manipolano le simbologie sociali comuni e le deformano per i loro fini, tramite il condizionamento delle emozioni umane, e con la proposta di soluzioni rassicuranti, efficaci e definitive: per questo dobbiamo sempre diffidare delle soluzioni totali.

Solitamente sono gli stessi guardiani dei sistemi che cercano di isolare i comportamenti devianti, perché così riescono a distogliere l’attenzione e la responsabilità da coloro che stanno ai vertici, e che sono i veri responsabili delle situazioni. E’ in forza di ciò che l’analisi dei sistemi deve iniziare dalla struttura apicale e da coloro che possono imporre le regole del gioco, cioè dalle élite di potere.

Il sociologo C. Wright Mills nel suo libro “Le élite del potere”, così le descrive: “L’élite di potere è composta di uomini che si trovano in posizioni tali da potere trascendere l’ambiente dell’uomo comune; le loro decisioni hanno conseguenze più vaste. […] Stanno a capo delle alte gerarchie e delle organizzazioni della società moderna; dirigono i grandi gruppi economici; muovono la macchina dello stato e ne rivendicano le prerogative; comandano le forze militari. Insomma occupano quelle posizioni stategiche della struttura sociale in cui sono attualmente accentrati gli strumenti del potere, la ricchezza, la celebrità.”

I sistemi di potere creano delle gerarchie di dominio, in cui l’influenza e la comunicazione viaggiano dall’alto verso il basso e quasi mai al contrario. Quando una élite di potere vuole distruggere una nazione nemica, si rivolge a degli esperti della propaganda per creare un programma di odio.

Tutto ciò è funzionale affinchè i cittadini di una nazione possano coltivare un’ostilità tale da spingerli a perseguitare, segregare, torturare e uccidere. E per fare tutto questo è indispensabile che sorga una “immaginazione ostile”, una costruzione psicologica che veda l’altro trasformato in Nemico; così l’immaginazione diventa il fucile con cui si arma la mente delle persone, usando l’odio e la paura come munizioni. Tutto viene creato con le parole e con le immagini, che hanno lo scopo di costruire la minaccia insidiosa.

Noi crediamo, combattiamo e viviamo anche in funzione di parole piene di virtù, nelle quali abbiamo radicato delle idee fortemente sentite e partecipate, ma anche queste parole virtuose possono diventare degli “specchi per le allodole” in forza della loro affascinante forza e luminosità.
Il valore attribuito a tali concetti diventa talmente forte, che siamo indotti a supporre che coloro che ci parlano usino tali termini nel senso che noi gli diamo, e che tutti credano come noi all'importanza di quei concetti.
Ciò abbassa la nostra guardia e ci rende molto meno sospettosi di quanto dovremmo, cosicchè delle parole piene di virtù ci vengono infuse in associazione con valori nuovi, che arriviamo ad approvare ed accettare pienamente, senza averne esaminato il valore, ma basandosi solo sulla loro evidenza: così le parole alate vengono usate per non farci ragionare in modo logico e critico.

Iniziano così le creazioni di idee stereotipate e di percezioni deumanizzate dell’altro, ovvero dell’altro come privo di valore, dell’altro come onnipotente, dell’altro come demoniaco, dell’altro come mostro astratto, dell’altro come minaccia dei nostri valori e delle nostre usanze più care.
Quando si è creata la paura pubblica e la minaccia incombente, anche le persone più ragionevoli possono diventare conformiste, possono comportarsi irrazionalmente e diventare pericolosamente aggressive.

Tramite la paura e l’odio si creano delle ottuse e perfette macchine da guerra, perché le immagini drammatiche o minacciose del nemico si stampano nel sistema limbico, che governa questi sentimenti e che costituisce il nostro cervello primordiale: questa è l’immaginazione negativa che è creata dalla propaganda nazionalistica, soprattutto quando si vuole preparare la guerra e si deve costruire una psiche colma di desiderio di distruzione.

L’elemento centrale della propaganda è costituito dalla disumanizzazione del nemico, che è la migliore leva per scardinare la moralità personale e per giustificare il disimpegno morale davanti ai comportamenti inaccettabili.
La forza delle etichette e degli stereotipi negativi che vengono instillati, ha un forte impatto sui nostri comportamenti, e questo spiega come le stesse persone possano essere crudeli o compassionevoli, a seconda dei contesti e degli interlocutori.

In particolari contesti siamo in grado di convincerci che coloro su cui si stiamo infierendo non siano esseri come noi, ma sono dei mostri, delle bestie, dei barbari o dei subumani. E’ in quei contesti che possiamo essere trasformati negativamente, soprattutto quando siamo inseriti in sistemi totalitari dotati di una carismatica ideologia e di potenti identificazioni di ruolo.
Diventa perciò vitale rammentare che diveniamo più forti a simili contagi nocivi, se sappiamo riconoscere la loro capacità di contagiarci.

Le situazioni hanno maggiore potere condizionante soprattutto qualora ci vengano proposte delle situazioni nuove, e quando subiamo la minaccia di un elemento sconosciuto e di un contesto inaspettato, in cui non possiamo fare riferimento a dei comportamenti precedenti e a delle regole già conosciute. Su questo terreno insicuro su cui il passo è incerto, è facile entrare in confusione, ed è facile che dei modelli insoliti o estremi, possano venire accettati dalle masse sfruttando il fattore della novità e dello smarrimento individuale.

Siccome le regole sociali sono delle forme di controllo dei comportamenti individuali, è su di esse che vengono costruiti i comportamenti etici ed i sistemi premianti. E’ così che le regole assumono una vita propria e la forza di autorità primaria, perciò siamo facilmente convinti a fare la nostra parte e persuasi ad assumere un determinato ruolo, infatti i ruoli sociali sono necessari per il buon vivere civile.

Il problema nasce quando alcuni ruoli, seppure artificiali, momentanei e occasionali, vengono conservati ad oltranza fino a divenire delle insidiose identificazioni totalizzanti.
E’ la rigidità dei ruoli che ci fa chiudere la mente a quelle che sono le nostre concezioni e convinzioni interiori, perchè essa è una paurosa sclerotipìa che ci fa ragionare in compartimenti separati, e che ci impedisce l’interpretazione e il dialogo con le altrui concezioni.

E’ in questo modo che il potere riesce a forgiare il nostro modo di vedere e di pensare, fino al punto di non farci vedere delle realtà alternative a quelle ci vengono prospettate, e di giustificare ogni nostra irresponsabilità e ogni disimpegno morale. Scrisse Eric Hoffer “E’ proprio quando si coniuga con la paura cronica che il potere diventa spaventoso.”

Buona erranza
Sharatan

giovedì 14 maggio 2009

La stirpe di Lucifero


Leggo che Barack Obama, per non complicare la missione dei suoi soldati schierati in Iraq e Afghanistan, è contrario alla pubblicazione delle nuove foto che mostrano gli abusi commessi dalle truppe americane sui detenuti a Bagdad e Kabul. Nessuno ha dimenticato le foto delle umiliazioni inflitte nel carcere di Abu Ghraib, ed il presidente non ha voluto rischiare, per cui le foto restano secretate. Abu Ghraib è uno dei simboli negativi più pesanti di una crudele guerra inutile, ed Obama sceglie la ragion di stato a scapito della democrazia, e fa molto male!

La sensazione che sorge quando si contemplano immagini come quelle di Abu Ghraib, è che ci troviamo di fronte a dei mostri, a degli esseri mostruosi che infieriscono su prigionieri inermi, non solo con maltrattamenti fisici, ma anche con ingiurie ed umiliazioni che tutti hanno definito inumane. E in effetti, molto spesso davanti a delitti incredibili ci ritiriamo, dicendo che quelle sono mostruosità, che sono compiute da persone che hanno del tutto smarrito la ragione e ogni natura umana. Ma è proprio vero che essi sono un non-Noi, un’alienità, che con il nostro essere non ha nulla da spartire?

Nel 1971 Philip Zimbardo, professore del Dipartimento di psicologia presso l’Università di Stanford in California, compì un esperimento di “prigione simulata” che lo rese famoso. Nell’esperimento, tra coloro che avevano risposto ad un’inserzione di lavoro sui giornali locali, furono scelte 24 persone, che avevano il profilo di giovani maschi di media estrazione sociale, intelligenti e sani: quelli che potremmo definire un campione di uomini normali. A metà di loro fu affidato il ruolo delle guardie e all’altra metà quello dei prigionieri, dicendo alle guardie di fare tutto ciò che ritenevano opportuno per mantenere l’ordine, ma evitando di usare abusi e punizioni fisiche.

Il 15 agosto 1971 inizia l’esperimento, con la simulazione dell’arresto dei prigionieri, che vengono prelevati nelle loro vere case, con la collaborazione della polizia di Palo Alto, e che vengono sottoposti alle varie pratiche di degradazione presenti negli arresti reali: furono perquisiti, fotografati, schedati, bendati e spogliati, cosparsi di disinfettante e fotografati nudi. Dopo furono fatti rivestire con le uniformi carcerarie, ma senza biancheria intima, gli vennero consegnati dei sandali di gomma come calzature e delle cuffie di nylon per nascondere i capelli: il loro numero di matricola, prima unito al nome e poi il solo numero spersonalizzato, diventò la nuova identità carceraria.

Le guardie indossavano uniformi cachi, brandivano dei manganelli, avevano il fischietto al collo, e indossavano degli occhiali a specchio che ne occultavano gli occhi. Le guardie, nei giorni precedenti all’esperimento, avevano compiuto dei sopralluoghi alla “prigione” e avevano concordato delle regole per i prigionieri, per cui esse vennero lette ai prigionieri e poi vennero condotti in cella. L’esperimento che doveva protrarsi per 2 settimane, si interruppe al 5° giorno, perché gli abusi fisici e psichici diventavano così radicali da costituire un pericolo per i “prigionieri.” In 5 giorni, dei normali padri di famiglia si erano trasformati in spietati aguzzini, e le guardie non solo erano diventate estremamente autoritarie, ma di notte avevano anche abusato sessualmente dei reclusi.

L’esperimento di Stanford si concluse ma, la coincidenza con l’omicidio di George L. Jackson nel penitenziario di San Quentin il 21 agosto 1971, attirò l’attenzione sul lavoro di Zimbardo e lo rese famoso. La morte del militante del Black Panther Party, George Jackson recluso da quando aveva 18 anni, chiuso in una cella d'isolamento del penitenziario di San Quentin per almeno ventitré ore al giorno e brutalmente ucciso da un secondino a soli 30 anni, non poteva che avere una risonanza eccezionale.
Sepolto vivo nell’isolamento del carcere, Jackson aveva scritto parole audaci, disperate, piene di odio contro l’impero statunitense, un fondamentale contributo alla lotta di liberazione dei Neri, una colonia “interna” al sistema e costretta in condizioni di ordinaria schiavitù, simili a quelle che molti migranti vivono oggi nelle metropoli del capitalismo globalizzato.

Il contributo offerto dagli studi di Zimbardo sui componenti degradati e violenti, osservabili all'interno di un'istituzione come il carcere, sono considerati un classico della psicologia sociale, ma il suo lavoro nel tempo è continuato, allargandosi allo sfruttamento delle tecniche psicologiche per aiutare le persone ad andare oltre la cieca conformità ed obbedienza sociale.
Zimbardo afferma che in tutti noi vi è il bene ed il male, tutti siamo come Lucifero, tutti siamo capaci di essere demoni e angeli per noi e per i nostri simili. Il Male assoluto non è che l’ombra che il Bene assoluto proietta sulla nostra vita, e il Male è proprio il “far Male” inteso come sofferenza subita ed inflitta.

Classicamente, il peccato di Lucifero nasce dalla “cupiditas” che, secondo Dante è la radice dei peccati della lupa. Questa è la condizione spirituale di avere in sé un abisso che non possa essere colmato, nè dal potere nè dal denaro: per costoro, tutto ciò che esiste fuori di essi, ha motivo di esistere solo se può essere sfruttato o acquisito. Per questo nell’Inferno, Dante li descrive come infissi in un lago di ghiaccio e imprigionati nel gelo del loro Sé per l’eternità.
Inducendo le persone a concentrarsi solo su se stessi, Satana e i suoi seguaci, distolgono il loro sguardo dall’armonia dell’amore che unisce tutte le creature, ingenerando separazione e discordia: i peccati della lupa spingono l’essere umano fuori dalla grazia dell’amore, li crea e li lega come vittime in una prigione interiore.

Ma il significato di Satana, non è altro che uno specchio dell’umanità, infatti nel Vangelo di Tommaso, si insegna che “vi è una luce entro ogni persona che illumina l’universo intero. Se non brilla, c’è la tenebra”. Secondo Elaine Pagels, infatti: “Quello che ci affascina, di Satana, è il modo in cui esprime qualità che vanno oltre ciò che comunemente riconosciamo come umano. […] Quindi il male, al suo peggio, sembra implicare il soprannaturale, ciò che riconosciamo, con un brivido, come il diabolico contrario della definizione di Dio in quanto “totalmente altro”.

Nel Pentateuco si narra che con Dio, nell’alto dei cieli, c’erano i Bene Elohim (figli del Signore) e i Malak Jahvé (emissari o messaggeri di Dio). Il Satana del libro di Giobbe è confuso tra i Bene Elohim, i figli del Signore, e forse è uno di loro. Vaga per la terra, ed osserva da vicino gli esseri umani. Li osserva per ricercarne i cattivi comportamenti e quindi sottoporli al giudizio di Jahvè. Ha accesso al trono del Signore, siede tra la corte celeste e dialoga con il Signore.

Questo Male ci affascina e ci ripugna poiché, come diverso lo respingiamo per la sua alienità da noi, ma poi sappiamo apprezzare gli eccessi sessuali e le violazioni dei codici morali che vengono compiuti da estranei al nostro gruppo sociale.
Secondo David Frankfurter, docente di studi religiosi, questo è dovuto al fatto che, la costruzione di un Altro di tipo sociale, usa le immagini di cannibale, selvaggio, demone, stregone, vampiro etc. attingendo ad un repertorio di simboli di inversione e, nel contempo, giocando sulle loro attribuzioni di crudeltà, perversità e libertinismo: ciò causa un compiacimento e un godimento nella commistione di orrore e di piacere anche a livello di fantasie individuali.

L’effetto Lucifero è il nome che Zimbardo attribuisce alla nostra illusione di essere speciali, perché la maggior parte di noi si nasconde dietro un preconcetto egocentrico che ci offre l’illusione di essere speciali: questi scudi protettici egocentrici ci illudono che siamo ad un livello di integrità morale che si colloca al di sopra della media.
Ma le nostre preconcezioni ci allontanano da una profonda conoscenza di noi stessi, perché la maggior parte di noi si conosce solo in base alle limitate esperienze in situazioni abituali, che implicano regole, leggi e linee di condotta conosciute. Ma cosa accade quando ci troviamo davanti a scenari nuovi ed inconsueti?

L’idea che una frattura separi i Buoni dai Cattivi consola, perché il Male diventa un’entità precisa, una qualità intrinseca di certe persone ed estranea ad altre: dal cattivo seme viene il cattivo frutto. Inoltre, in questo modo, le persone buone sono esentate da ogni responsabilità, vengono liberate da ogni valutazione o responsabilità di poter essere stati complici o inerti di fronte alle azioni malvagie.

Zimbardo suggerisce l’ipotesi che il Male sia una cosa di cui tutti siamo capaci, e che la nostra natura possa essere modificata in senso buono o cattivo, a seconda dell’acquisizione di qualità dovute a esperienze e pratiche di vita, e che ci si possa avvalere di particolari opportunità: tutti possiamo diventare sia buoni che cattivi, indipendentemente dalla dotazione genetica, dalla personalità o dal retaggio familiare, perché siamo in uno stato di interazione dinamica.

Buona erranza
Sharatan

lunedì 11 maggio 2009

Uomini o cani?



Lo scorso 8 maggio ho letto sul sito “LaZampa.it” la notizia che a Matrice, comune in provincia di Campobasso, il sindaco ha deciso di assegnare la cittadinanza onoraria ad un cane meticcio, su proposta dell’intera cittadinanza. Naturalmente tutti hanno pensato che l’intero paese fosse impazzito, ma gli stessi cittadini sono intervenuti per spiegare il motivo di una decisione così anomala: “Lo abbiamo fatto per amore verso di lui e non per pazzia”.

L’animale, morto di vecchiaia qualche giorno fa, si chiamava Peppino ed è stata la mascotte del paese per 15 anni. Peppino era arrivato diversi anni fa ed era diventato un cittadino a tutti gli effetti, tanto che la cerimonia funebre è stata partecipata ampiamente con manifesti funebri affissi sui muri e commozione affettuosa di tutti i cittadini. Uno dei tecnici del comune ha voluto seppellirlo personalmente nel cimitero del paese, tra il rimpianto di tutti. “Peppino è venuto al funerale di mio fratello e volevo ricambiare il gesto di cortesia” ha dichiarato uno di loro. Questa è una storia di civiltà e di amore infinito per gli animali, una storia di sensibilità, che dimostra la capacità di saper vedere un’anima nobile, nascosta dentro un involucro da cane.

Oggi leggo sui giornali, che respingere gli immigrati clandestini direttamente in Libia “è un'iniziativa molto triste” che “mina la possibilità per ogni essere umano di fuggire da repressione e violenza, ricorrendo al diritto d'asilo”. Sono le parole del Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammarberg. Dopo le critiche della Cei e dell'Agenzia Onu per i rifugiati, anche il Consiglio d'Europa boccia il respingimento di rifugiati: “l'iniziativa italiana che viola il diritto di ogni essere umano di ottenere asilo politico. Spero che l'Italia non vada avanti con questa politica. Gli stranieri che raggiungono l'Italia devono avere una chance per ottenere asilo. Ora in Italia tutto questo diventa impossibile”.

Informandomi ho scoperto che, a vietare tassativamente il respingimento di rifugiati o richiedenti asilo, sono gli obblighi internazionali che nascono dalla Convenzione sui Rifugiati del 1951 e dal Protocollo del 1967, dalla Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici, dalla Convenzione Onu contro la tortura, dalla Convenzione europea sulla protezione dei diritti umani. La Convenzione europea sui diritti umani vieta “la tortura, il trattamento disumano e degradante” e la Corte di Strasburgo per i diritti umani, applica questo divieto anche nei contesti di respingimento ed espulsione. L'obbligo di non-respingimento non comporta alcuna limitazione geografica e si applica a tutti gli agenti statali nell'esercizio delle loro funzioni all'interno o all'esterno del territorio nazionale, quindi nessun alibi di circoscrivere la questione alle acque di competenza: nessuno può essere respinto.

Invece il 10 maggio 2009 sono stati riportati nel porto di Tripoli 240 migranti. Maroni è soddisfattissimo di questa “svolta storica” ribadendo che la linea, da ora in poi, è una sola: “Chi non entra nelle acque territoriali italiane sarà rispedito da dove è venuto e si continuerà così finché gli sbarchi non cesseranno del tutto”.
Va ricordato che il rinvio diretto di un rifugiato o di un richiedente asilo verso un paese nel quale teme di essere perseguitato non rappresenta l'unica forma di respingimento, perché anche il rinvio indiretto verso un paese terzo, la Libia in questo caso, che potrebbe successivamente rimandare la persona verso il paese di temuta persecuzione, costituisce respingimento. Così facendo, entrambi i paesi sono responsabili, cioè sia la Libia che l'Italia. E non risulta che, nell'accordo bilaterale con il governo libico, l'Italia abbia preteso garanzie del rispetto dei diritti umani per le persone che vengono riportate a Tripoli, in seguito al pattugliamento delle coste libiche.

Le testimonianze di coloro che provengono dalla Libia, raccontano: “Li hanno mandati al massacro. Li uccideranno, uccideranno anche i loro bambini. Gli italiani non devono permettere tutto questo. In Libia ci hanno torturate, picchiate, stuprate, trattate come schiave per mesi. Meglio finire in fondo al mare. Morire nel deserto. Ma in Libia no”. Sono donne nigeriane, etiopi, somale, sono le “fortunate” che sono arrivate a Lampedusa nelle settimane scorse, e quelle reduci dal mercantile turco Pinar. Hanno saputo che oltre 200 disgraziati come loro sono stati raccolti in mare dalle motovedette italiane e rispediti “nell'inferno libico”. Tra di loro anche 41 donne, alcuni sono feriti con gravi ustioni, altri presentano sintomi di disidratazione, ma il peggio è che sono stati riportati in Libia, da cui “erano fuggite dopo essere state violentati e torturati. Non solo le donne, ma anche gli uomini”.

Tra i 240 extracomunitari rispediti ieri in Libia c'erano 42 donne e due neonati che sono stati trasferiti nella prigione di Zawia, a 35 chilometri da Tripoli, mentre altri sono stati spediti in altri centri di accoglienza del territorio libico. I rappresentanti delle organizzazioni umanitarie che finalmente, dopo giorni di attesa, sono stati ammessi all'interno delle prigioni, le hanno trovate sovraffollate. In quella di Zawia, la situazione è incandescente, perché sono più di 700 i rinchiusi in quella prigione, anche dei bambini. “Siamo in più di 70 per ogni camerata che ne può ospitare non più di venti, non c'è posto neanche per dormire a terra, ci sono tre donne incinte senza i mariti, mentre una terza che è con il suo uomo è al quarto mese di gravidanza e non sta molto bene perché rischia di abortire dopo questi giorni di inferno”. Sono in maggioranza nigeriani, eritrei e somali, che si rifiutano di rientrare nei loro Paesi, afflitti dalla guerra e dalla povertà e preferiscono rimanere nelle “prigioni” libiche, dove almeno possono vivere.

In questi giorni sono confusa, perché vedo cani che sono riconosciuti pari agli uomini, e questo mi rende felice, ma vedo anche uomini trattati peggio di bestie, e non riesco a vedere dov’è finita l’umanità, non vedo più le persone. Sono talmente confusa e frastornata che mi è venuto il rimpianto di non essere potuta andare al funerale di Peppino: sono convinta che a me Peppino mi sarebbe piaciuto, mi sembrava una gran brava persona.

Buona erranza
Sharatan

domenica 10 maggio 2009

Macchine per il senso di colpa



Le ricerche di Martin Hoffman riguardano la nascita del nostro senso morale, e ci aiutano a capire i motivi per cui la morale diventa vulnerabile al degrado. Evidentemente va precisato che non si tratta di valutare la qualità dei contenuti, ma solo la modalità con cui i nostri meccanismi etici si creano e si consolidano: analizzate così le nostre debolezze, diventa strategicamente più facile creare strategie di reazione e di rinforzo della nostra mente.

La molla dell’empatia è la sofferenza, giacchè di solito uno spettatore innocente viene sollecitato a rispondere a qualcuno che soffre, e questa forma di sofferenza è considerata una motivazione morale di tipo protosociale, cioè una forma primitiva di socialità. L’empatia, che è frutto della selezione naturale, è una risposta multideterminata perchè attivata da multeplici forme di stimolazione. E’ meraviglioso notare come nella natura umana siano innate le capacità di flessibilità e multeplicità, come programmazione della specie e come aspetto biologico, malgrado esse ci predispongano ad alcune forme di vulnerabilità.

Credo che valga sempre la pena di analizzare tutte le strutture arcaiche che sono alla base dei nostri atteggiamenti, con una analisi metodica e accorta, soprattutto quando vogliamo capire qualcosa di più profondo sulla nostra essenza umana, perché la loro natura innata non ci permette di ignorare tutti quegli input empatici, che sono di tipo preverbale, automatico ed involontario.

Il primo meccanismo primitivo è la mimesi, che è automatica con base neuronale, e consiste nella corrispondenza faccia a faccia con l’altro, nel contatto frontale tra osservatore e vittima, che ci permette di avere un’insieme di sollecitazioni che ci fanno mentalizzare la condizione di colui che osserviamo.
Nel secondo e terzo fattore innato, si raggruppano il condizionamento classico e l’associazione diretta tra condizione dolorosa della vittima e le passate esperienze dolorose dello spettatore: è questa la struttura primaria dell’empatia umana. In questo meccanismo tutti gli uomini si rassomigliano, in questa modalità di reagire tutti si rispecchiano aldilà di ogni barriera di lingua, cultura e razza.

La teoria di Martin Hoffman è che, per avere un armonioso sviluppo morale, sia necessaria una sintesi tra empatia e consapevolezza degli altri, cioè bisogna conseguire un’armonia tra l’emozione e il senso di giustizia. L’empatia si sviluppa quando siamo in grado di sentire il dolore degli altri come se fosse il nostro, e quando proviamo una profonda solidarietà per tutti coloro che soffrono, cioè tramite la sofferenza del cuore condivisa dalla mente manifestata nella capacità di avere compassione.

Ma può avvenire che non si venga educati correttamente a questa evoluzione di consapevolezza, e si può venire educati senza sviluppare una naturale sensibilità, in armonia con il principio di reciprocità e di giustizia. Ovviamente accade che il modello educativo possa essere deviato, fino a creare degli esseri morali che funzionano più per senso di colpa che per morale consapevole e allora, avverte Hoffman, diventiamo delle “macchine per il senso di colpa” e non degli esseri senzienti al servizio dell’etica e della giustizia.

Le pratiche disciplinari dell’adulto, comprendono sempre un meccanismo che afferma il potere, e un meccanismo che minaccia il ritiro dell’amore in caso di trasgressione. Comunque siano usate, queste modalità educative causano nel bambino della sofferenza e dei sensi di colpa. E’ in questo modo che i genitori approfittano della naturale inclinazione alla simpatia e alla compassione presente nei bambini, per limitarne le componenti egoistiche ed egocentriche. E’ così che impariamo ad associare: Trasgressione -> Sofferenza empatica -> Senso di colpa, ed iniziamo ad inscrivere un copione interno che tenderà ad influenzarci anche per tutta la vita: un vero e proprio imprinting comportamentale ed emotivo, che diventa poi morale.

Il copione si rafforza sempre più con la ripetizione del comportamento, ed in seguito sarà sufficiente avere lo schema Trasgressione -> Senso di colpa, per avere il pieno controllo delle pulsioni negative. Una volta acquisito, questo copione può attivarsi anche in modo distorto ed eccessivo, come nei casi dei sensi di colpa per le trasgressioni virtuali, in cui ci si reputa responsabili di colpe mai commesse. Queste forme di repressione eccessiva, sono in grado di causare problemi di autobiasimo e di eccessiva responsabilizzazione, che spesso vengono conservate anche in età adulta. L’osservazione su bambini in cui il senso di colpa è stato eccessivo in età precoce, ci fanno osservare degli adulti problematici, vittime di colpevolizzazioni e di fragilità nelle relazioni interpersonali.

La larga diffusione del senso di colpa e l’utilizzo di meccanismi di colpevolizzazione per avere il controllo degli individui, scrive Hoffman, permette che la nostra società ci strutturi come “macchine per il senso di colpa” piuttosto che come esseri liberi, e non consoli sapere che in altre società si attuano gli stessi meccanismi, ma con contenuti emotivi di altro genere, come nel caso della società giapponese che controlla con l’utilizzo del senso di vergogna. La seconda limitazione a cui siamo vulnerabili è la nostra naturale propensione verso coloro che sentiamo familiari o affini, per cui è facile che la strumentalizzazione colpevolizzante provenga proprio da coloro che amiamo o stimiamo maggiormente.

Se analizziamo come agiscono i sensi di colpa sulla psiche umana, notiamo che essi modificano il meccanismo dolore/piacere, fino a farlo virare su stili deviati o esacerbati, perciò una educazione troppo severa e direttiva è idonea a favorire stili relazionali di stampo masochistico. La repressione delle istanze egoistiche ed egocentriche umane, usata come una forma di condizionamento piuttosto che come consapevolezza etica produce personalità nevrotiche e frustrate, forzate e non convinte alla morale sociale.

Qualora il condizionamento etico venga imposto come dovere, e non venga costruito su valori intimamente condivisi, avremo degli individui alla ricerca del gusto “proibito” della trasgressione, e potenzialmente predisposti ad attuare atteggiamenti devianti qualora le circostanze esterne glielo rendano possibile. E’ questo il caso di persone che, apparentemente onorate ed onorabili, vengono scoperte colpevoli di delitti vergognosi di cui nessuno li avrebbe considerati capaci.

Senza usare il paradosso dei casi limite trovo estremamente utile operare una riflessione in piccolo, utile nella minima dimensione della nostra vita, riguardo all’utilizzo del senso di colpa che noi facciamo e che subiamo, per avere il controllo del fare e dell’essere.

Rifletterei anche sul fatto che la nostra affettività ci rende incline ad attuare e subire questi atteggiamenti, soprattutto da parte delle persone a noi care, e valuterei come tanti nostri rapporti possano essere costruiti in modo distruttivo e masochistico, giocando su questi elementi primari di dolore/piacere, qualora incontriamo chi sappia farlo con diabolica abilità. Sulla successiva ipotesi di poter essere così usati e strumentalizzati, offrirei un esercizio di consapevolezza intima e personale.

Buona erranza
Sharatan

venerdì 8 maggio 2009

L'arte dell'empatizzazione multipla



David Hume, nel “Trattato sulla natura umana” (1739) scriveva: “Non c’è qualità della natura umana più notevole, sia in sé e per sé, sia per le sue conseguenze, della nostra propensione a provare simpatia per gli altri, e a ricevere per comunicazione le inclinazioni e i sentimenti altrui, per quanto diversi e addirittura contrari ai nostri. […] In generale possiamo osservare che le menti umane sono specchio l’una dell’altra, non solo perché riflettono reciprocamente le loro emozioni, ma anche perché questi raggi di passioni, sentimenti e opinioni si riverberano fino a svanire pian piano, insensibilmente.” Questo sentimento i filosofi dell’antichità lo chiamavano simpatia e gli stoici la ritennero il legame che unisce tra loro le cose e le tiene o le fa convergere nell’ordine del mondo. Plotino la mise alla base della magia, come pure così tutti i più grandi maghi rinascimentali.

Adam Smith nella “Teoria dei sentimenti morali” (1759) inizia così: “Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe alle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla. Di questo genere è la pietà o compassione, l’emozione che proviamo per la miseria altrui, quando la vediamo oppure siamo portati a immaginarla in maniera molto vivace.” Questa compartecipazione è il nucleo della moralità, ed è frutto di una cognizione prodotta da “un immaginario scambio di posto con chi soffre.”

Darwin ne “L’origine dell’uomo” riprende sia Hume che Smith, affermando che la simpatia è l’elemento fondamentale degli istinti sociali. “un uomo che non possedesse traccia di questi istinti sarebbe un mostro innaturale” e afferma: “Siamo così spinti ad alleviare le sofferenze altrui, in modo da alleviare nello stesso tempo i nostri sentimenti dolorosi.” Così la simpatia è alla base anche dei sentimenti di rimorso, pentimento, dolore e vergogna, come ripensamento sulle azioni compiute, assieme al proponimento di fare diversamente per il futuro. Darwin riteneva che la simpatia fosse innata perché osservabile anche negli animali, che fosse il prodotto della evoluzione e della selezione naturale, a vantaggio delle comunità umane, qualora ne sperimentino gli effetti positivi di aiuto e di difesa.

Già da subito, nel sentimento di simpatia, si evidenziano due aspetti: la componente mentale definita da Hume “capacità di entrare nei sentimenti altrui”, e la capacità di provare le emozioni dell’altro rappresentandole come immagini della nostra mente: così le emozioni simpatetiche diventano il requisito per la nostra educazione morale. Questa capacità di saper assumere il punto di vista dell’altro, di poterne assumere il ruolo, a livello cognitivo viene denominato empatia. Il termine viene usato dallo psicologo americano Edward Titchener per tradurre il termine Einfuhlung, che era usato nei testi di estetica per indicare il venire assorbiti dall’oggetto artistico che si sta osservando. Freud usa Einfuhlung per indicare il processo che ci permette di comprendere gli altri, e lo introduce nella psicanalisi.

La capacità di “leggere la mente” o di “mentalizzare”, alla luce delle nuove scoperte della neurobiologia sembrerebbe attribuibile, in primo luogo alla presenza nella mente umana di meccanismi innati che generano credenze circa gli stati mentali a partire da determinati input percettivi, in secondo luogo da un determinato funzionamento mentale di tipo strutturale. La teoria dei neuroni specchio, dimostra che i neuroni si attivano sia se facciamo un’azione, sia se la vediamo eseguire da altri, e spiega neuropsicologicamente i comportamenti per induzione, su cui si basano i comportamenti imitativi, come già intuito da Hume.

La teoria freudiana, attiva lo studio sull’empatia e lo rapporta alla moralità solo per affermare che vi è un conflitto tra le inclinazioni naturali dell’individuo e le esigenze della vita sociale. Quindi i genitori devono modificare tali atteggiamenti naturali, prima addestrando i figli ad obbedire agli ordini e poi, tramite la creazione di regole a cui obbedire, creano un modello condizionato di comportamento. Ciò permette di interiorizzare gli atteggiamenti morali senza l’intervento di nessun controllo esterno. Perlopiù la scena educativa e psicologica, verrà occupata da questa concezione per metà Novecento, fino alla proposta di Martin Hoffman che, all’inizio degli anni ’60 estese il suo studio del comportamento morale all’altruismo e alla considerazione per gli altri, ed incluse il dispiacere empatico tra le emozioni moralmente rilevanti.

Hoffman spiega che l’empatia non ci spinge a condividere le emozioni degli altri in modo imparziale, ma è vulnerabile rispetto a due tipi di distorsioni o “bias” cioè, quello di familiarità che ci fa empatizzare con i membri del nostro gruppo (etnico, religioso, professionale, etc.), e quello con cui abbiamo vincoli di parentela, di amicizia e di affinità intellettuale. Il suo lavoro viene considerato rivoluzionario perché ritiene che il bambino sia capace di azioni morali e di comportamenti di cura, mettendo in crisi la teoria psicanalitica che reputa il bambino come essere immorale, un perverso polimorfo.

Le ragioni evoluzionistiche, egli afferma sono molto forti, infatti gli esseri umani hanno i geni per il mutuo aiuto, altrimenti i popoli cacciatori e raccoglitori non sarebbero sopravvissuti. Così resta, sebbene il mondo competitivo ed indifferente verso il prossimo, della fine del 20. secolo, faccia supporre che ognuno pensi soprattutto a sé stesso. La teoria di Hoffman è invece che l’empatia è la scintilla da cui nasce l’interesse umano per gli altri, il collante che rende possibile la vita sociale e che ha permesso l’evoluzione e la sopravvivenza umana: nell’uomo vi è una “etica del prendersi cura” che si relaziona con il concetto di giustizia, cioè con la base del comportamento morale.

La larga diffusione del senso di colpa nella società occidentale, per Hoffman, ha ridotto gli esseri umani a “macchine per il senso di colpa” piuttosto che individui in cui l’empatia per gli altri sia incorporata in un principio morale congruente, in modo che l’empatia sia stabile e strutturata. Alla base di gran parte dei principi di giustizia c’è il senso di reciprocità, per cui le buone azioni dovrebbero essere ricompensate, le cattive andrebbero punite e le pene dovrebbero essere proporzionate ai delitti: poichè il concetto di reciprocità va accompagnato sempre dall’empatia.

L’importanza dell’interiorizzazione morale è primaria, e la motivazione morale interna è per Hoffman quella che:
• Ha un carattere irresistibile ed obbligatorio
• È qualcosa che nasce dall’interno
• Ci fa sentire colpevoli quando compiamo azioni che danneggiano gli altri
• Ci fa tenere conto delle necessità degli altri anche quando vanno in conflitto con i nostri interessi.
L’ipotesi di Hoffman è che la socializzazione a favore dell’uguaglianza, debba essere insegnata fin dalle fasi più precoci della vita, perché solo l’empatia è innata. Il codice morale invece, deve essere costruito con dei valori, e questi valori sono di tipo familiare e sociale.

Crescendo, la persona inizia a riflettere e ragionare su tali valori, quindi può analizzarli, interpretarli, confrontarli e contrapporli e infine può accettarli o rifiutarli, cioè può creare un proprio sistema di principi morali generali che si auspica abbiano anche un forte carico emotivo. Una volta che abbiamo interiorizzato i principi di cura e di giustizia, e ci impegniamo affinchè tali valori siano rispettati, ci rendiamo conto che abbiamo la scelta e il controllo della situazione. Questo ci infonde il coraggio delle nostre azioni, e abbiamo raggiunto un nuovo livello, cioè sappiamo agire sulla base di principi interiorizzati che diventano affermazione di noi stessi.

La combinazione di empatia, reciprocità e giustizia hanno valore universale e non tengono conto delle variabili culturali e razziali. Nella nostra società multirazziale, dovremmo creare la coscienza della profonda unità del genere umano, conclude Hoffman, e addestrarci all’arte della “empatizzazione multipla” che può ridurre la tendenza ad attribuire motivazioni negative alle persone estranee al proprio gruppo, e può rendere più civile la vita di una società multiculturale.

Buona erranza
Sharatan

martedì 5 maggio 2009

La morte del prossimo


Nella Bibbia è detto: “Ama il prossimo tuo come te stesso. Io sono il Signore” e lo stesso precetto è stato ripetuto da Cristo. Alla fine dell’Ottocento Nietzsche gridò che Dio è morto e, alla fine del secondo millennio, tutto ci fa sospettare che sia morto con Dio anche il nostro prossimo: questa è la teoria dello psicanalista Luigi Zoja, per spiegare l’indifferenza moderna per il destino dei nostri simili.

Ma chi è il nostro prossimo, si chiede, se non colui che possiamo vedere, sentire, toccare e con cui possiamo instaurare un reale rapporto di empatia e di condivisione? Il concetto di prossimità e di alterità non ha altro significato se non quello di potere vedere, concepire e perciò sentire un nostro vicino, un nostro simile. La novità del cristianesimo, seppure la volessimo cercare, è costituita dall’allargamento del precetto ebraico ad ogni prossimo, al prossimo che è un nostro simile, a tutti gli esseri umani: ogni prossimo così ci diventa caro, ogni prossimo così diventa fratello.

Il dono che facciamo al nostro prossimo diventa un omaggio a Dio, ed il concetto di prossimo e di amore che viene a lui tributato, diventa insieme etica civica e mistica religiosa. Non è un caso se tanta letteratura mistica, di tutte le religioni e non solo del cristianesimo, assume un tono molto sensuale e quasi erotico quando testimonia dello slancio irresistibile che spinge l’anima dell’uomo verso Dio. Non è un caso dicevo, poiché l’immaginario che abbiamo del rapporto assoluto ed esclusivo, dell’estremo piacere della fusione, non può che raccontare immagini che ricordano l’estasi fisica e l’acme orgasmico.

Se per millenni il mondo ha funzionato cercando di far resistere i due pilastri di amore per Dio e amore per il prossimo, oggi osserviamo che, con la morte di Dio, abbiamo assistito anche alla scomparsa del prossimo, dopo un’agonia che è durata tutto il Novecento. La fede è diventata un fenomeno privato e personale e, lo spazio reso vacante nell’alto dei cieli, è stato occupato dalla nuova divinità del Progresso tecnologico, una divinità esclusiva e feroce come il Dio dell’Antico Testamento, una Divinità implacabile con la Tavola delle sue Leggi del Mercato economico, a cui tutti offrono cruenti sacrifici e calorosi omaggi.

Poiché si conosce la necessità umana di avere qualcuno da adorare e a cui affidarsi, al posto di una invisibile divinità trascendente, afferma Zoja, l’uomo ha ben pensato di collocare se stesso ed il frutto delle sue mani, cioè la tangibilità del suo progresso tecnico ed economico. Così l’uomo si divinizza, si trasfigura e diventa sovrumano, ma facendolo non riesce più a vedere il suo prossimo, e ad essere il prossimo di altri: si crea eccezionale e distante. Eccezionale e distante, come tante stars del mondo dello spettacolo e della televisione, il cui mito viene costruito basandosi su questo meccanismo di fragilità umana e di bisogno di identificazione.

Chiaramente le persone comuni continuano ad esistere, ma sono del tutto prive di interesse per la loro normalità ed ordinarietà, quindi non destano più la nostra curiosità perché siamo amanti del personaggio unico ed esclusivo, senza pensare che essere tanto esclusivi da divenire unici corrisponde ad essere isolati e quindi soli, alieni e lontani dal conforto dei nostri simili. La solitudine così avanza e le persone più sensibili sentono le sofferenze a cui viene dato il nome di nevrosi.

Il bisogno di intimità, la necessità di sentirsi parte di un consorzio di individui a noi simili, ha certamente un’origine arcaica e animale, ed è collegato alla difesa della specie, malgrado ciò non si può negare che la maggiore nevrosi dell’uomo metropolitano rimanga quella della solitudine e dell’isolamento. Così non sembra possibile negare che viviamo in una dimensione post-umana e che, anche la virtualità che si sostituisce alla vita normale, è una dimostrazione di questa evidenza.

L’uomo delle civiltà antiche condivideva i suoi sentimenti e le sue paure con l’ambiente esterno, per cui personalizzava e sacralizzava tutta la natura ed i suoi fenomeni, tributando riti e atteggiamenti di rispetto e di venerazione all’intero cosmo: in tutto l’universo veniva cercata e riconosciuta la massima divinità e sacralità. Queste concezioni religiose le abbiamo ritenute primitive e le abbiamo denominate animismo, ritenendole forme di religiosità imperfetta e incompleta, ed i popoli che le hanno osservate li abbiamo chiamati primitivi.

Con la creazione delle religioni istituzionalizzate, tra cui il cristianesimo, gli slanci mistici si sono ritirati dalla natura e dal corpo umano e si sono canalizzati solo verso l’alto e verso il Cielo, assommandosi in una divinità sovrumana sostenuta dalla teologia tradizionale. Quando sopraggiunge la morte di Dio, nel Novecento, si crea una nuova sacralità delle masse, ed il baricentro diventa la psiche della massa per la quale, l’ideologia politica non ha meno rigidità delle teologie tradizionali.

Il nuovo sacro creato nelle utopie sociali, ora viene messo in liquidazione, all’alba del 21. secolo, così il vuoto, il freddo e tutti i problemi interiori, non possono più essere espulsi e vengono concentrati nel corpo e nella personalità individuale. L’uomo tecnologico conosce ora degli ingorghi psichici che prima non conosceva, perché vive delle utopie e delle illusioni solo individuali e non collettive. La mente viene drogata con i concetti di cultura elitaria e di realtà virtuali, mentre il corpo viene soddisfatto con manie salutistiche e con pratiche artificiali, come la chirurgia estetica, in cui la misura tracima ai limiti del paradossale e del grottesco.

Così l’uomo cade in una profonda solitudine perché è orfano, per la prima volta nella sua storia, sia del suo Padre Divino che del fratello terreno. Ma il precetto sull’amore, di biblica memoria, era estremamente complesso e profondo perché l’invito era ad amare Dio intensamente, cioè con il cuore, con l’anima e con la mente: il prossimo era sufficiente amarlo con la stessa misura con cui amiamo noi stessi. Queste realtà spirituali non facevano altro che assecondare un’esigenza biologica, che abbiamo verificato alla luce della zoologia, dell’etologia umana, della sociologia, dell’antropologia e persino per le neuroscienze, e cioè che l’uomo è un essere sociale a cui gli altri uomini sono necessari.

Tutto quello che fa un uomo può essere fatto anche da una macchina, ma di un uomo non si potrà mai sostituire la presenza umana. Perciò la lontananza dai nostri simili può arrecarci forti danni psichici, perché l’uomo che è troppo solo cade in depressione, e chi è depresso perde sempre più la gioia di vivere, cioè la forza e la spinta per andare verso gli altri uomini.

Oggi viviamo in megalopoli in cui le persone che vediamo sono moltissime, molto simili e troppo rumorose e, di fronte all’inondazione di tanti stimoli e situazioni ripetitive, l’alienazione diviene una condizione non eccezionale ma normale; così evitare gli altri diventa una condizione essenziale per sopravvivere. Ma la repressione permanente costa energia, ci irrigidisce, e diventa per Zoja “artrite della psiche” al punto che diventiamo incapaci di provare veri sentimenti: la capacità di amare diventa allora una condizione irraggiungibile.

Buona erranza
Sharatan


domenica 3 maggio 2009

Psicopatici di successo


Si sta sempre più affermando un nuovo settore della psicologia chiamata Corporate psychology (psicologia aziendale) utilizzata per l’osservazione delle dinamiche aziendali, per la risoluzione dei conflitti interni e per la selezione del personale. Secondo queste teorie, alcuni segnali pericolosi per l’armonia aziendale (Babiak & Hare, 2006) sono rappresentati da comportamenti quali: l’incapacità a formare una squadra e ad avere spirito di condivisione, un trattamento differenziato dello staff, dall’incapacità di dire la verità, di essere modesto, di accettare reprimende e dall’incapacità di agire in maniera prevedibile e pianificata.

Il possesso di questi tratti, è in grado di farci identificare delle personalità pericolose per l’organizzazione aziendale, perché affette da tratti sociopatici. I tratti sociopatici sono modelli di attitudini e comportamenti, che sono considerati antisociali e criminali da una larga parte della società, mentre sono visti come normali e necessari dalla sottocultura o dall’ambiente sociale in cui si sviluppano. I sociopatici possono avere una coscienza ben sviluppata e una capacità normale di empatia, senso di colpa e lealtà, ma il loro concetto di “giusto” e “sbagliato” è basato sulle regole e le aspettative della loro sottocultura o gruppo.

Basandosi su uno dei suoi questionari più usati per identificare i disturbi psicopatici, lo Psichopathy Cecklist, Robert Hare ne ha prodotta una versione adattata ai profili delle organizzazioni aziendali. Sulla base di questa, ha creato due elenchi che identificano 2 fattori diversi, collegati con specifiche caratteristiche psicologiche.

Nel primo elenco si sono ricercate caratteristiche definite come fattore 1 e collegate allo spazio etico, cioè: mancanza di scrupoli e di responsabilità, assenza di sensi di colpa, tendenza alla manipolazione e alla menzogna, atteggiamento di aspro cinismo nei rapporti umani. Nel secondo elenco si sono ricercate caratteristiche definite come fattore 2, costituite da tratti comportamentali come: l’instabilità e l’irritabilità emotiva, i comportamenti apertamente devianti e gli attacchi di aggressività non controllata.

Secondo gli studiosi statunitensi, gli scandali finanziari ormai ricorrenti suggeriscono la presenza, nei grandi manager, di immoralità non occasionali ma ricorrenti. Le persone che hanno causato i più grandi crack finanziari, non sono persone che hanno occasionalmente sbagliato ma sono persone convinte della loro linea di condotta, che non si pentono ma che si rammaricano di essere stati scoperti, perché avrebbero tranquillamente continuato con i loro imbrogli.

Tutti questi tratti, secondo gli americani, rivelano una condizione di chiara psicopatia che è assai difficile da redimere perchè questi nuovi arrampicatori mostrano di possedere una perversione morale permanente, che non lascia spazio ad alcun senso di colpa. Essi così dimostrano una completa assenza di qualità umane di base come l’umanità, l’empatia, e il senso di solidarietà.

Gli studi europei sono molto più scarsi di quelli americani, ma una ricerca simile è stata condotta da Belinda Board e Katarina Fritzon dell’Università di Surrey, che hanno esaminato 39 manager di successo, raffrontandoli con un gruppo di criminali e pazienti psicopatici gravi: il loro studio si è concluso dividendo il campione studiato in: “psicopatici di successo” e “psicopatici senza successo.”

Le studiose anglosassoni hanno confermato gli studi che Hare e Babiak avevano condotto oltreoceano, tanto che sono state fatte delle comparazioni, rafforzate da ambienti culturali e politici diversi, che assimilano la personalità del manager brillante con quella dello psicopatico comune. Unico tratto distintivo è costituito dal fatto che le caratteristiche antisociali, si manifestano in modo diverso e in diversa quantità: il fattore 1 di Hare, quello dell’immoralità invisibile ed insidiosa, è presente sia nei managers che nei psicopatici criminali, mentre il fattore 2, è presente solo nei psicopatici criminali tradizionali.

I soggetti definiti di fattore 1 di Hare, che le studiose del Surrey hanno denominato come “psicopatici di successo,” spesso ricoprono alte cariche aziendali e dimostrano un'aggressività meno diretta, meno “fisica” e più lenta, che si manifesta come sottomissione del prossimo al cinismo aziendale.

Il criminale psicopatico comune, lo “psicopatico senza successo” studiato nei carceri, è invece il criminale comune dotato di mancanza di scrupoli e delle altre caratteristiche di fattore 1, ma inadeguato alle regole dei nuovi rapporti economici e tecnologici. Malgrado sia sociopatico, esso ha ancora bisogno del loro prossimo, sia pure per aggredirlo fisicamente, così come vuole il loro temperamento violento, mentre gli psicopatici di successo sono tranquillamente autosufficienti a se stessi e alla loro ambizione.

La cosa che emerge, è che l’accellerazione imposta dalla nostra società ipertecnologizzata e ipercompetitiva, sia pure globalizzata per le possibilità offerte dai nuovi mezzi informatici, ha eliminato dal mercato tutte le persone dotate di fedeltà, di cautele e di scrupoli, favorendo invece l’emergere di tipi intuitivi, cinici ed opportunistici. Questo tipo di selezione darwiniana ha finito per imporre una marea di persone che sa cogliere solo il vantaggio immediato, la convenienza personale, la disinvoltura morale; perciò mancanti di ogni scrupolo civico e politico.

Questa marea di persone, che dovrebbero essere passive e pacifiche, sono divenute un’orda di psicopatici sociali, con un maggiore o minore grado di successo. La storia ci mostra infiniti esempi di orde pacifiche che diventano pericolose maree incontrollate. Li abbiamo visti, ed erano le masse oceaniche della nascita dei grandi nazionalismi, le masse delle rivoluzioni e dei violenti ribaltamenti politici, quelle che appoggiarono il fascismo e il nazismo, quelle che hanno marciato per la rivoluzione bolscevica e per quella culturale cinese, sono le masse che appoggiano l’avvento dei nazionalismi, degli integralismi e dei totalitarismi moderni.

Ogni volta che la storia ha compiuto una strozzatura culturale, è emersa una massa di psicopatici che ha compresso la maggioranza delle personalità equilibrate. Alla rivoluzione novecentesca, più o meno riuscita delle masse, si è oggi sostituita una “rivoluzione mondiale dei super-ricchi” in cui pochissime persone si dividono le ricchezze di interi paesi. Questa tendenza si sta diffondendo in tutto il mondo moderno per cui, ai più alti livelli di potere sia politico che economico, vediamo disinvolti managers e personaggi politici che posseggono un concentrato delle più diffuse psicopatie sociali ed umane.

La Corporate psychology avverte che questa è la scioccante novità che viene offerta dalla nostra società moderna, ed è questa la spiegazione che essa offre per capire le ondate di corruzione e di immoralità di oggi. La cosa che invece fa riflettere è il fatto che questa critica viene sollecitata e sostenuta dagli stessi manager ipercapitalisti, e non da contestatori radicali e rivoluzionari.

L’allarme viene lanciato dagli stessi specialisti della gestione aziendale, da personalità come Paul Babiak, un ricercatore finanziato dall’industria newyorkese e collaboratore di Robert Hare, che è lui stesso professore all’Università della British Columbia e consulente dell’FBI per la mappatura di profili psicopatici criminali. Tali studiosi, certamente non eretici, ci invitano a riflettere sul fatto che l’alienazione favorita dall’economia capitalistica, si è ora evoluta in disumanizzazione della società del capitalismo avanzato, e che il nostro mondo rischia di essere governato da pericolosi psicopatici di successo.

Buona erranza
Sharatan