Lo scorso 8 maggio ho letto sul sito “LaZampa.it” la notizia che a Matrice, comune in provincia di Campobasso, il sindaco ha deciso di assegnare la cittadinanza onoraria ad un cane meticcio, su proposta dell’intera cittadinanza. Naturalmente tutti hanno pensato che l’intero paese fosse impazzito, ma gli stessi cittadini sono intervenuti per spiegare il motivo di una decisione così anomala: “Lo abbiamo fatto per amore verso di lui e non per pazzia”.
L’animale, morto di vecchiaia qualche giorno fa, si chiamava Peppino ed è stata la mascotte del paese per 15 anni. Peppino era arrivato diversi anni fa ed era diventato un cittadino a tutti gli effetti, tanto che la cerimonia funebre è stata partecipata ampiamente con manifesti funebri affissi sui muri e commozione affettuosa di tutti i cittadini. Uno dei tecnici del comune ha voluto seppellirlo personalmente nel cimitero del paese, tra il rimpianto di tutti. “Peppino è venuto al funerale di mio fratello e volevo ricambiare il gesto di cortesia” ha dichiarato uno di loro. Questa è una storia di civiltà e di amore infinito per gli animali, una storia di sensibilità, che dimostra la capacità di saper vedere un’anima nobile, nascosta dentro un involucro da cane.
Oggi leggo sui giornali, che respingere gli immigrati clandestini direttamente in Libia “è un'iniziativa molto triste” che “mina la possibilità per ogni essere umano di fuggire da repressione e violenza, ricorrendo al diritto d'asilo”. Sono le parole del Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammarberg. Dopo le critiche della Cei e dell'Agenzia Onu per i rifugiati, anche il Consiglio d'Europa boccia il respingimento di rifugiati: “l'iniziativa italiana che viola il diritto di ogni essere umano di ottenere asilo politico. Spero che l'Italia non vada avanti con questa politica. Gli stranieri che raggiungono l'Italia devono avere una chance per ottenere asilo. Ora in Italia tutto questo diventa impossibile”.
Informandomi ho scoperto che, a vietare tassativamente il respingimento di rifugiati o richiedenti asilo, sono gli obblighi internazionali che nascono dalla Convenzione sui Rifugiati del 1951 e dal Protocollo del 1967, dalla Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici, dalla Convenzione Onu contro la tortura, dalla Convenzione europea sulla protezione dei diritti umani. La Convenzione europea sui diritti umani vieta “la tortura, il trattamento disumano e degradante” e la Corte di Strasburgo per i diritti umani, applica questo divieto anche nei contesti di respingimento ed espulsione. L'obbligo di non-respingimento non comporta alcuna limitazione geografica e si applica a tutti gli agenti statali nell'esercizio delle loro funzioni all'interno o all'esterno del territorio nazionale, quindi nessun alibi di circoscrivere la questione alle acque di competenza: nessuno può essere respinto.
Invece il 10 maggio 2009 sono stati riportati nel porto di Tripoli 240 migranti. Maroni è soddisfattissimo di questa “svolta storica” ribadendo che la linea, da ora in poi, è una sola: “Chi non entra nelle acque territoriali italiane sarà rispedito da dove è venuto e si continuerà così finché gli sbarchi non cesseranno del tutto”.
Va ricordato che il rinvio diretto di un rifugiato o di un richiedente asilo verso un paese nel quale teme di essere perseguitato non rappresenta l'unica forma di respingimento, perché anche il rinvio indiretto verso un paese terzo, la Libia in questo caso, che potrebbe successivamente rimandare la persona verso il paese di temuta persecuzione, costituisce respingimento. Così facendo, entrambi i paesi sono responsabili, cioè sia la Libia che l'Italia. E non risulta che, nell'accordo bilaterale con il governo libico, l'Italia abbia preteso garanzie del rispetto dei diritti umani per le persone che vengono riportate a Tripoli, in seguito al pattugliamento delle coste libiche.
Le testimonianze di coloro che provengono dalla Libia, raccontano: “Li hanno mandati al massacro. Li uccideranno, uccideranno anche i loro bambini. Gli italiani non devono permettere tutto questo. In Libia ci hanno torturate, picchiate, stuprate, trattate come schiave per mesi. Meglio finire in fondo al mare. Morire nel deserto. Ma in Libia no”. Sono donne nigeriane, etiopi, somale, sono le “fortunate” che sono arrivate a Lampedusa nelle settimane scorse, e quelle reduci dal mercantile turco Pinar. Hanno saputo che oltre 200 disgraziati come loro sono stati raccolti in mare dalle motovedette italiane e rispediti “nell'inferno libico”. Tra di loro anche 41 donne, alcuni sono feriti con gravi ustioni, altri presentano sintomi di disidratazione, ma il peggio è che sono stati riportati in Libia, da cui “erano fuggite dopo essere state violentati e torturati. Non solo le donne, ma anche gli uomini”.
Tra i 240 extracomunitari rispediti ieri in Libia c'erano 42 donne e due neonati che sono stati trasferiti nella prigione di Zawia, a 35 chilometri da Tripoli, mentre altri sono stati spediti in altri centri di accoglienza del territorio libico. I rappresentanti delle organizzazioni umanitarie che finalmente, dopo giorni di attesa, sono stati ammessi all'interno delle prigioni, le hanno trovate sovraffollate. In quella di Zawia, la situazione è incandescente, perché sono più di 700 i rinchiusi in quella prigione, anche dei bambini. “Siamo in più di 70 per ogni camerata che ne può ospitare non più di venti, non c'è posto neanche per dormire a terra, ci sono tre donne incinte senza i mariti, mentre una terza che è con il suo uomo è al quarto mese di gravidanza e non sta molto bene perché rischia di abortire dopo questi giorni di inferno”. Sono in maggioranza nigeriani, eritrei e somali, che si rifiutano di rientrare nei loro Paesi, afflitti dalla guerra e dalla povertà e preferiscono rimanere nelle “prigioni” libiche, dove almeno possono vivere.
In questi giorni sono confusa, perché vedo cani che sono riconosciuti pari agli uomini, e questo mi rende felice, ma vedo anche uomini trattati peggio di bestie, e non riesco a vedere dov’è finita l’umanità, non vedo più le persone. Sono talmente confusa e frastornata che mi è venuto il rimpianto di non essere potuta andare al funerale di Peppino: sono convinta che a me Peppino mi sarebbe piaciuto, mi sembrava una gran brava persona.
Buona erranza
Sharatan
L’animale, morto di vecchiaia qualche giorno fa, si chiamava Peppino ed è stata la mascotte del paese per 15 anni. Peppino era arrivato diversi anni fa ed era diventato un cittadino a tutti gli effetti, tanto che la cerimonia funebre è stata partecipata ampiamente con manifesti funebri affissi sui muri e commozione affettuosa di tutti i cittadini. Uno dei tecnici del comune ha voluto seppellirlo personalmente nel cimitero del paese, tra il rimpianto di tutti. “Peppino è venuto al funerale di mio fratello e volevo ricambiare il gesto di cortesia” ha dichiarato uno di loro. Questa è una storia di civiltà e di amore infinito per gli animali, una storia di sensibilità, che dimostra la capacità di saper vedere un’anima nobile, nascosta dentro un involucro da cane.
Oggi leggo sui giornali, che respingere gli immigrati clandestini direttamente in Libia “è un'iniziativa molto triste” che “mina la possibilità per ogni essere umano di fuggire da repressione e violenza, ricorrendo al diritto d'asilo”. Sono le parole del Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammarberg. Dopo le critiche della Cei e dell'Agenzia Onu per i rifugiati, anche il Consiglio d'Europa boccia il respingimento di rifugiati: “l'iniziativa italiana che viola il diritto di ogni essere umano di ottenere asilo politico. Spero che l'Italia non vada avanti con questa politica. Gli stranieri che raggiungono l'Italia devono avere una chance per ottenere asilo. Ora in Italia tutto questo diventa impossibile”.
Informandomi ho scoperto che, a vietare tassativamente il respingimento di rifugiati o richiedenti asilo, sono gli obblighi internazionali che nascono dalla Convenzione sui Rifugiati del 1951 e dal Protocollo del 1967, dalla Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici, dalla Convenzione Onu contro la tortura, dalla Convenzione europea sulla protezione dei diritti umani. La Convenzione europea sui diritti umani vieta “la tortura, il trattamento disumano e degradante” e la Corte di Strasburgo per i diritti umani, applica questo divieto anche nei contesti di respingimento ed espulsione. L'obbligo di non-respingimento non comporta alcuna limitazione geografica e si applica a tutti gli agenti statali nell'esercizio delle loro funzioni all'interno o all'esterno del territorio nazionale, quindi nessun alibi di circoscrivere la questione alle acque di competenza: nessuno può essere respinto.
Invece il 10 maggio 2009 sono stati riportati nel porto di Tripoli 240 migranti. Maroni è soddisfattissimo di questa “svolta storica” ribadendo che la linea, da ora in poi, è una sola: “Chi non entra nelle acque territoriali italiane sarà rispedito da dove è venuto e si continuerà così finché gli sbarchi non cesseranno del tutto”.
Va ricordato che il rinvio diretto di un rifugiato o di un richiedente asilo verso un paese nel quale teme di essere perseguitato non rappresenta l'unica forma di respingimento, perché anche il rinvio indiretto verso un paese terzo, la Libia in questo caso, che potrebbe successivamente rimandare la persona verso il paese di temuta persecuzione, costituisce respingimento. Così facendo, entrambi i paesi sono responsabili, cioè sia la Libia che l'Italia. E non risulta che, nell'accordo bilaterale con il governo libico, l'Italia abbia preteso garanzie del rispetto dei diritti umani per le persone che vengono riportate a Tripoli, in seguito al pattugliamento delle coste libiche.
Le testimonianze di coloro che provengono dalla Libia, raccontano: “Li hanno mandati al massacro. Li uccideranno, uccideranno anche i loro bambini. Gli italiani non devono permettere tutto questo. In Libia ci hanno torturate, picchiate, stuprate, trattate come schiave per mesi. Meglio finire in fondo al mare. Morire nel deserto. Ma in Libia no”. Sono donne nigeriane, etiopi, somale, sono le “fortunate” che sono arrivate a Lampedusa nelle settimane scorse, e quelle reduci dal mercantile turco Pinar. Hanno saputo che oltre 200 disgraziati come loro sono stati raccolti in mare dalle motovedette italiane e rispediti “nell'inferno libico”. Tra di loro anche 41 donne, alcuni sono feriti con gravi ustioni, altri presentano sintomi di disidratazione, ma il peggio è che sono stati riportati in Libia, da cui “erano fuggite dopo essere state violentati e torturati. Non solo le donne, ma anche gli uomini”.
Tra i 240 extracomunitari rispediti ieri in Libia c'erano 42 donne e due neonati che sono stati trasferiti nella prigione di Zawia, a 35 chilometri da Tripoli, mentre altri sono stati spediti in altri centri di accoglienza del territorio libico. I rappresentanti delle organizzazioni umanitarie che finalmente, dopo giorni di attesa, sono stati ammessi all'interno delle prigioni, le hanno trovate sovraffollate. In quella di Zawia, la situazione è incandescente, perché sono più di 700 i rinchiusi in quella prigione, anche dei bambini. “Siamo in più di 70 per ogni camerata che ne può ospitare non più di venti, non c'è posto neanche per dormire a terra, ci sono tre donne incinte senza i mariti, mentre una terza che è con il suo uomo è al quarto mese di gravidanza e non sta molto bene perché rischia di abortire dopo questi giorni di inferno”. Sono in maggioranza nigeriani, eritrei e somali, che si rifiutano di rientrare nei loro Paesi, afflitti dalla guerra e dalla povertà e preferiscono rimanere nelle “prigioni” libiche, dove almeno possono vivere.
In questi giorni sono confusa, perché vedo cani che sono riconosciuti pari agli uomini, e questo mi rende felice, ma vedo anche uomini trattati peggio di bestie, e non riesco a vedere dov’è finita l’umanità, non vedo più le persone. Sono talmente confusa e frastornata che mi è venuto il rimpianto di non essere potuta andare al funerale di Peppino: sono convinta che a me Peppino mi sarebbe piaciuto, mi sembrava una gran brava persona.
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Sharatan
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