Gli uomini vengono sempre feriti dalle cose che trovano inspiegabili della loro vita; tutti siamo feriti perciò dobbiamo lavorare per riparare le ferite più profonde. Le persone ferite e spaventate non riescono a connettersi con la fonte divina perché non riescono a stare in pace nel loro interno, soprattutto quando sono in meditazione.
Ma se non riusciamo a connetterci con il nostro sé più profondo, non possiamo divenire delle persone autentiche in grado di offrire quei doni unici che giacciono in fondo ad ognuno di noi: non li godiamo e non li possiamo offrire neppure agli altri. E’ per questo che il processo di guarigione della nostra coscienza è sempre collegato e intrecciato con l’acquisizione di una maggiore consapevolezza.
Ma ancor più avviene, che in questo processo di guarigione attiriamo a noi tutti coloro che sono affini al nostro livello di evoluzione e di consapevolezza, anche se tali compagnie possono apparirci stravaganti o inconsuete per quello che reputiamo sia l’essenza del nostro essere. Negli insegnamenti di saggezza vediamo chiaramente il perché di questo processo interno, infatti Yogananda osserva: “le persone di natura devozionale che appartengono a differenti religioni si assomigliano tra loro più di quanto somiglino ai membri della stessa religione che seguono sentieri diversi.”
Nelle varie religioni vi è perciò un’assonanza di sentimento che Yogananda chiama “romanticismo” della religione e rappresenta quello spirito impetuoso con cui un devoto cerca di vivere le verità divine, anche senza conoscere alcun tipo di verità. In questo l’induismo è una religione somma poiché riesce a proclamare l’assoluta correttezza di ogni modo di vivere universale che aspira a raggiungere le altezze dello Spirito, aldilà di ogni aspetto formale.
Gesù in Matteo 13,31-35 dice: “Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senape, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami”. Un’altra parabola disse loro: “Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti.”
Con questa parabola si indica il lavoro necessario per innalzare il proprio livello di coscienza, nel deserto del nostro silenzio interiore, ma si indica anche la necessità di un guru (il lievito, il granello di senape) che riesca a far vibrare l’intelletto tramite la parola scritta o orale, e che sappia aprire il cuore alla devozione divina. La sintonia di un guru che sia allineato con Dio e che, perciò, riesca a magnetizzare i suoi discepoli, diviene la necessità di un punto di connessione e scambio tra la divinità e l’adepto, che poi costituisce l’atto di ogni vera iniziazione.
Ma questo spiega anche perché ognuno dei discepoli sia consapevole di avere avuto una iniziazione privilegiata. Ogni discepolo sente, sa e testimonia la verità che percepisce, egli rinasce con il suo risveglio al nuovo uomo, all’uomo migliore che noi tutti siamo, perché il ruolo del guru non è quello di modellare i suoi discepoli a sua immagine, ma quello di elevare la loro coscienza condividendo il suo magnetismo personale. Questo è il potere del vero Satguru o Salvatore di cui, scrive Yogananda, non si può fare a meno perché ci apre al dialogo e allo scambio con le forze superiori, che coltiviamo poi con le preghiere e con le pratiche yogiche.
E’ evidente che il discepolo deve essere collaborativo e permettere l’elevazione della propria consapevolezza, poiché essa lo condurrà all’ampliamento di coscienza che eleverà l’uomo alla comprensione delle verità divine: l’iniziazione può assomigliare ad un addestramento dell’orecchio per affinarlo all’ascolto delle musiche divine, sublimi come inni cosmici dei Veda.
In questi inni l’uomo viene affermato come tempo, ma non come tempo vuoto, ma come tempo che segue le stagioni e perciò nasce, cresce e muore poiché è in connessione cosmica con l’ordine delle cose da cui dipendono gli stessi dei, l’uomo e gli animali. Se vogliamo trascendere il tempo, afferma il pensiero vedantino, lo possiamo fare solo nel tempo e attraverso di esso, perciò i maestri vedantini giungono alla conclusione che l’Uomo può cogliere la realtà solo trascendendo la ragione raziocinante.
Questo approccio alla realtà ci è concesso solo se abbandoniamo la preferenza di una maggiore importanza dell’impulso interiore piuttosto che per l’impulso esteriore, ma invece ci allarghiamo ad una consapevolezza atipica che sappia integrare sia le unità che le differenze delle cose, trascendendo le definizioni. Non stupisce se le sapienze induiste rifuggano dalla creazione di concezioni filosofiche, poiché ben conoscono le insidie delle definizioni e delle concezioni, le quali tendono a divenire loro stesse padrone piuttosto che strumenti della conoscenza.
Chiaro che gli occidentali si troverebbero maggiormente a loro agio se potessero avere una concezione pratica chiara e ben definita, mentre invece gli induisti riescono a scorgere nella meditazione e nella preghiera una giusta e adeguata pratica di evoluzione spirituale: è un atteggiamento dialogico quello a cui ci spinge la dottrina vedanta, perché la relazione tra Dio e Uomo è un dialogo con le forze superiori.
In forza e in virtù della reciproca essenza, sebbene goduta con livelli di incommensurabile gradazione, l’uomo che attiva questo dialogo, riattiva il filo che lo unisce alla divinità, si riconnette al cosmo intero e inizia a vibrare su livelli di ottave crescenti, come in una scala musicale ascendente: lui stesso diventa uno strumento celestiale. Da questo dialogo superiore non ci si può astenere, perciò non si deve trascurare mai la pratica della meditazione e dalla preghiera, proprio per tenersi connessi con queste forze.
Tali forse energetiche universali sono energie risananti che hanno un divino potere di trasmutazione. A queste energie si attinge e di loro si fruisce solo tramite l’evoluzione e l’elevazione della nostra natura interna, del midollo dell’uomo che ha essenza divina.
Nell’induismo non vi è divisione assoluta tra materiale e spirituale, così che “io” e “tu” non esiste come scissione, ma piuttosto come una interdipendenza che salvaguardia la reciproca indipendenza: in questo consiste il dialogo con la divinità che i Veda insegnano. Questo è il tipo di approccio migliore per comprendere il potere della preghiera che inviamo alla Divinità.
Questo dialogo dovrebbe fare parte della vita intera e non dovrebbe essere trascurato pensando che Dio conosca già ogni nostra necessità, perché nell’induismo è necessario chiedere sempre e pregare, e chiedere anche con audacia, e così coltivare ininterrottamente il nostro dialogo con Dio.
Ma ci dovrebbe colpire un’implicazione pratica, tramite la quale possiamo giungere ad una valutazione estremamente concreta di questa, che appare come una prescrizione assai sentimentale e di stampo spiritualistico ed irrazionale, trasformandola in una concezione assai concreta. Se valutiamo l’implicazione concreta, la vediamo infatti nel risultato concreto realizzabile tramite delle preghiere e degli atti meditativi, poiché essi sono in grado di attivare le forme energetiche potenti e universali che scorrono lungo le vene dell’Uomo Celeste come riflesso della manifestazione divina.
In concreto diciamo che, nell’attivazione di forze che orientiamo e che direzioniamo con potente determinazione e deciso intento, possiamo riuscire a plasmare la materia. Si dice che ciò avvenga perché impariamo a manifestare in potenza un oggetto, ma poi lo sappiamo indirizzare verso la dimensione reale finchè avvenga la sua concreta realizzazione materiale, cioè in atto. Così l’uomo riesce a risanare il karma, può riparare torti, lenisce le sue ferite, elimina le sue carenze e accresce i meriti, così impara a suonare la melodia divina.
Buona erranza
Sharatan
Ma se non riusciamo a connetterci con il nostro sé più profondo, non possiamo divenire delle persone autentiche in grado di offrire quei doni unici che giacciono in fondo ad ognuno di noi: non li godiamo e non li possiamo offrire neppure agli altri. E’ per questo che il processo di guarigione della nostra coscienza è sempre collegato e intrecciato con l’acquisizione di una maggiore consapevolezza.
Ma ancor più avviene, che in questo processo di guarigione attiriamo a noi tutti coloro che sono affini al nostro livello di evoluzione e di consapevolezza, anche se tali compagnie possono apparirci stravaganti o inconsuete per quello che reputiamo sia l’essenza del nostro essere. Negli insegnamenti di saggezza vediamo chiaramente il perché di questo processo interno, infatti Yogananda osserva: “le persone di natura devozionale che appartengono a differenti religioni si assomigliano tra loro più di quanto somiglino ai membri della stessa religione che seguono sentieri diversi.”
Nelle varie religioni vi è perciò un’assonanza di sentimento che Yogananda chiama “romanticismo” della religione e rappresenta quello spirito impetuoso con cui un devoto cerca di vivere le verità divine, anche senza conoscere alcun tipo di verità. In questo l’induismo è una religione somma poiché riesce a proclamare l’assoluta correttezza di ogni modo di vivere universale che aspira a raggiungere le altezze dello Spirito, aldilà di ogni aspetto formale.
Gesù in Matteo 13,31-35 dice: “Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senape, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami”. Un’altra parabola disse loro: “Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti.”
Con questa parabola si indica il lavoro necessario per innalzare il proprio livello di coscienza, nel deserto del nostro silenzio interiore, ma si indica anche la necessità di un guru (il lievito, il granello di senape) che riesca a far vibrare l’intelletto tramite la parola scritta o orale, e che sappia aprire il cuore alla devozione divina. La sintonia di un guru che sia allineato con Dio e che, perciò, riesca a magnetizzare i suoi discepoli, diviene la necessità di un punto di connessione e scambio tra la divinità e l’adepto, che poi costituisce l’atto di ogni vera iniziazione.
Ma questo spiega anche perché ognuno dei discepoli sia consapevole di avere avuto una iniziazione privilegiata. Ogni discepolo sente, sa e testimonia la verità che percepisce, egli rinasce con il suo risveglio al nuovo uomo, all’uomo migliore che noi tutti siamo, perché il ruolo del guru non è quello di modellare i suoi discepoli a sua immagine, ma quello di elevare la loro coscienza condividendo il suo magnetismo personale. Questo è il potere del vero Satguru o Salvatore di cui, scrive Yogananda, non si può fare a meno perché ci apre al dialogo e allo scambio con le forze superiori, che coltiviamo poi con le preghiere e con le pratiche yogiche.
E’ evidente che il discepolo deve essere collaborativo e permettere l’elevazione della propria consapevolezza, poiché essa lo condurrà all’ampliamento di coscienza che eleverà l’uomo alla comprensione delle verità divine: l’iniziazione può assomigliare ad un addestramento dell’orecchio per affinarlo all’ascolto delle musiche divine, sublimi come inni cosmici dei Veda.
In questi inni l’uomo viene affermato come tempo, ma non come tempo vuoto, ma come tempo che segue le stagioni e perciò nasce, cresce e muore poiché è in connessione cosmica con l’ordine delle cose da cui dipendono gli stessi dei, l’uomo e gli animali. Se vogliamo trascendere il tempo, afferma il pensiero vedantino, lo possiamo fare solo nel tempo e attraverso di esso, perciò i maestri vedantini giungono alla conclusione che l’Uomo può cogliere la realtà solo trascendendo la ragione raziocinante.
Questo approccio alla realtà ci è concesso solo se abbandoniamo la preferenza di una maggiore importanza dell’impulso interiore piuttosto che per l’impulso esteriore, ma invece ci allarghiamo ad una consapevolezza atipica che sappia integrare sia le unità che le differenze delle cose, trascendendo le definizioni. Non stupisce se le sapienze induiste rifuggano dalla creazione di concezioni filosofiche, poiché ben conoscono le insidie delle definizioni e delle concezioni, le quali tendono a divenire loro stesse padrone piuttosto che strumenti della conoscenza.
Chiaro che gli occidentali si troverebbero maggiormente a loro agio se potessero avere una concezione pratica chiara e ben definita, mentre invece gli induisti riescono a scorgere nella meditazione e nella preghiera una giusta e adeguata pratica di evoluzione spirituale: è un atteggiamento dialogico quello a cui ci spinge la dottrina vedanta, perché la relazione tra Dio e Uomo è un dialogo con le forze superiori.
In forza e in virtù della reciproca essenza, sebbene goduta con livelli di incommensurabile gradazione, l’uomo che attiva questo dialogo, riattiva il filo che lo unisce alla divinità, si riconnette al cosmo intero e inizia a vibrare su livelli di ottave crescenti, come in una scala musicale ascendente: lui stesso diventa uno strumento celestiale. Da questo dialogo superiore non ci si può astenere, perciò non si deve trascurare mai la pratica della meditazione e dalla preghiera, proprio per tenersi connessi con queste forze.
Tali forse energetiche universali sono energie risananti che hanno un divino potere di trasmutazione. A queste energie si attinge e di loro si fruisce solo tramite l’evoluzione e l’elevazione della nostra natura interna, del midollo dell’uomo che ha essenza divina.
Nell’induismo non vi è divisione assoluta tra materiale e spirituale, così che “io” e “tu” non esiste come scissione, ma piuttosto come una interdipendenza che salvaguardia la reciproca indipendenza: in questo consiste il dialogo con la divinità che i Veda insegnano. Questo è il tipo di approccio migliore per comprendere il potere della preghiera che inviamo alla Divinità.
Questo dialogo dovrebbe fare parte della vita intera e non dovrebbe essere trascurato pensando che Dio conosca già ogni nostra necessità, perché nell’induismo è necessario chiedere sempre e pregare, e chiedere anche con audacia, e così coltivare ininterrottamente il nostro dialogo con Dio.
Ma ci dovrebbe colpire un’implicazione pratica, tramite la quale possiamo giungere ad una valutazione estremamente concreta di questa, che appare come una prescrizione assai sentimentale e di stampo spiritualistico ed irrazionale, trasformandola in una concezione assai concreta. Se valutiamo l’implicazione concreta, la vediamo infatti nel risultato concreto realizzabile tramite delle preghiere e degli atti meditativi, poiché essi sono in grado di attivare le forme energetiche potenti e universali che scorrono lungo le vene dell’Uomo Celeste come riflesso della manifestazione divina.
In concreto diciamo che, nell’attivazione di forze che orientiamo e che direzioniamo con potente determinazione e deciso intento, possiamo riuscire a plasmare la materia. Si dice che ciò avvenga perché impariamo a manifestare in potenza un oggetto, ma poi lo sappiamo indirizzare verso la dimensione reale finchè avvenga la sua concreta realizzazione materiale, cioè in atto. Così l’uomo riesce a risanare il karma, può riparare torti, lenisce le sue ferite, elimina le sue carenze e accresce i meriti, così impara a suonare la melodia divina.
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