“Sappiamo che l’amore degli uomini
è per così dire l’alimento degli dei.”
(Rudolf Steiner)
All’epoca di Atlantide l’uomo si sentiva ancora parte del mondo spirituale ma, dopo la sua distruzione, tutto è cambiato. Qualcosa è andato perduto perché è avvenuto il rischiaramento della coscienza umana, che ha causato l’oscuramento della coscienza della divinità. Durante il periodo atlantico l’uomo era vissuto insieme a entità divino-spirituali, perciò era consapevole di far parte del mondo divino. Ma quando l’uomo fu in grado di vedere chiaramente nella materia divenne incapace di vedere gli dei. Le entità che si nutrivano dell’amore che l’uomo sviluppa sulla Terra - che è il pianeta in cui s’impara ad amare - non riuscirono più a partecipare alla vita umana perciò non ebbero più quell’amore.
Steiner dice che gli dei s’immergono nell’umanità per sentire il calore dell’amore, perciò agli dei sentono che qualcosa gli manca quando gli uomini non sviluppano più l’amore. Più amore accumuliamo sulla Terra e tanto più nutrimento ricevono gli dei. Se abbiamo meno amore essi sentono più fame perché ci sarà meno cibo da offrire agli dei. L’offerta che gli uomini fanno agli dei non è l’amore che essi sanno dare e diffondere. La comunione tra uomini e dei era raggiunta all’apice nei tempi primordiali, quando sprofondò il continente di Atlantide. Sapendo queste cose, comprendiamo perché alcune divinità di Atlantide iniziarono a soffrire per non riuscire a ritrovare la via del contatto con gli uomini.
Sappiamo che avvenne una migrazione per cercare scampo dal disastro, e sappiamo anche che durante la migrazione la coscienza di quegli uomini iniziò a modificarsi. Essi si mischiavano con altri popoli indigeni, perciò smarrivano l’antica chiaroveggenza che avevano posseduto in passato. Anche se restava ancora qualcuno che conservava il ricordo del legame con il mondo dello spirito, perlopiù, il ricordo si perse. Gli uomini stavano scendendo sempre più nel piano fisico e si calavano nella materia, perciò gli dei non potevano più entrare in contatto con loro. Alcune entità non potevano scendere fino agli uomini, perciò restò un contatto solo con quelli che andavano incontro agli dei, elevandosi fino a loro.
Ai tempi di Atlantide, gli uomini sapevano che, nel sonno, essi uscivano dal corpo fisico e da quello eterico per salire fino al mondo spirituale. E si sapeva che la stessa cosa accadeva dopo la loro morte, perciò il regno degli dei era ancora conosciuto. Si sentiva che, se il mondo divino restava chiuso si era stati puniti, e che quella pena veniva inflitta per essere restati troppo uniti al mondo materiale. Si iniziò a credere che se non si amava la materia più di ciò che è non materiale, dopo la morte, si potesse entrare subito nel mondo degli dei.
Ma, mentre si diventava più adatti alla vita terrestre si diveniva anche più incapaci di percepire lo spirito. Il progresso e l’adattamento permettevano agli uomini di entrare sempre più nel mondo materiale, ma questo comportò l’abbandono progressivo del ricordo dello spirito, dice Steiner. I misteri furono coltivati per la forte volontà di ricostruire il perduto legame con il mondo divino. Ma, le popolazioni d’Europa e quelle d’Asia fecero un percorso diverso, perché in Europa si iniziò a sviluppare sempre più la coscienza del valore divino della persona umana e una forte coscienza della libertà.
Una forte coscienza del valore dell’individualità è la caratteristica più spiccata dei popoli che popolarono l’Italia e la Grecia. In particolare, secondo Steiner, gli etruschi furono gli eredi dei popoli che erano dotati di un maggiore senso di libertà su cui fondarono la loro organizzazione statale. Invece, negli uomini che erano migrati verso l’Asia, si sviluppò una concezione derivata dal residuo del ricordo del rapporto tra l’uomo e gli dei. Quei popoli svilupparono il “senso dell’io sono,” poiché essi sentivano che l’io era il centro eterno dell’essere che è derivato direttamente dal mondo spirituale.
Essi sapevano che tutte le loro più sacre figure del passato ormai erano solo un ricordo, ma che la loro forza si fondeva dentro il sacro centro interiore che era rimasto all’interno dell’uomo. Essi non avevano la certezza intellettuale di questo, ma avevano un’intima e forte convinzione della loro origine divina. La coscienza della loro origine divina era ancora vivente e sgorgava dall’intimo della loro anima. Essi credevano che, sebbene l’anima avesse dimenticato la sua origine divina, questa coscienza si può ritrovare coltivando quello che è rimasto nell’intimo dell’anima.
Credevano che si potesse ritrovare la via che porta al divino guardando al nucleo più profondo che l’anima conserva al suo interno. In realtà si venne a formare l’immagine di un dio che non ha figura, perché dio non si deve cercare all’esterno ma si deve cercare solo nel sacrario del proprio essere. E questa è un’idea molto antica nella storia perciò non stupisce se, nel progredire dell’umanità, la stessa idea si ritrovi anche più tardi trasforma nel comandamento che impone: Tu non farai l’immagine del tuo Dio. Nei tempi antichi si era fatta l’esperienza di un dio che aveva un’immagine, ma poi quella immagine si era smarrita perciò il dio si era nascosto fino a scomparire dallo sguardo. Perciò ci si persuase che si doveva fare un enorme sforzo per trarre fuori il dio che è nascosto all’interno dell’io.
Ma, all’interno dell’io, la divinità non si ancora configurata perciò era necessario portare dio nella sfera del pensiero, e afferrare l’idea divina e la forza del dio. Ma, all’inizio, non potevano farlo, perché dopo la fine di Atlantide, il dolore della perdita era ancora troppo forte. Il ricordo di ciò che si era perduto era ancora recente, e il ricordo del paradiso da cui eravamo stati cacciati dava un dolore intenso. Dalla nostalgia per la gioia perduta si sviluppò la prima civiltà che mostra una dolorosa nostalgia per il mondo spirituale.
La civiltà indiana si appoggiava a un gruppo di 7 sacri iniziati a cui chiedeva la via per ritrovare il mondo divino, e su questo si fondò la civiltà pre-vedica. Erano l’ultima risonanza e la massima reverenza per quel mondo smarrito, perciò lo scrissero nei Veda. A quei tempi, gli uomini andavano ad ascoltare gli insegnamenti dei sacri rishi e gli chiedevano la via per ritrovare ciò che avevano perduto. Volevano fuggire dal mondo sensibile in cui erano stati gettati e abbandonati. Per loro il mondo fisico come illusione e inganno perciò dicevano che il mondo è maya.
L’unica cosa che aveva valore per loro era fuggire verso il mondo che è oltre il livello del piano fisico. Sentendo disprezzo per il mondo e per la vanità del piano fisico, essi avevano necessità di fuggire dal mondo per ritrovare lo spirito. Tutto questo fu pagato con la perdita del senso della loro personalità perché volevano una via per ritornare a fondersi e annullarsi nella Divinità. La nostalgia per la divinità fece preferire l’annullamento della persona piuttosto che correre il rischio di perdere la fusione divina.
Questa civiltà ebbe un grande disagio nel mondo terreno, perciò essi cercarono di eliminare ogni legame con la realtà terrena. Nella civiltà paleo-iranica o pre-zarathustriana troviamo la prima fase della conquista del mondo fisico. I più antichi abitanti della Persia discendevano dai colonizzatori atlantidi, ma non sentivano più il piano fisico come un mondo estraneo perciò si sentivano stimolati a vincere le ostilità della realtà materiale.
Lo spirito si poteva coltivare anche sulla Terra, perciò cercarono di redimere la materia per mezzo di Ormazd. Iniziarono a lavorare la materia fisica perché il mondo non era solo maya, ma era anche una realtà che si poteva apprezzare. La civiltà caldaica e quella egizia guardavano la sfera celeste e studiavano i movimenti e le posizioni degli astri perché credevano che mostrassero la volontà degli dei. I caldei credevano che gli astri fosse la scrittura degli dei, perché anche ciò che appare all’esterno è una manifestazione degli dei.
Questo progresso non è insignificante perché la materia inizia a essere vista come una manifestazione dello spirito. La civiltà egizia misurò la terra per dominarla, perché stimava sia le conquiste materiali che le conquiste spirituali. Gli egizi avevano dei saggi che conservavano ancora il ricordo dell’antico legame con gli dei che venne unita alla conoscenza della scrittura divina nello spazio cosmico dei caldei: tra costoro si educò Mosé che guidò il popolo eletto dell’Antico Testamento.
Nell’Antico Testamento viene narrata la cacciata dell’uomo dal Paradiso, e tutte le conseguenze di quella sventura cosmica. Intanto l’io si andava maturando sebbene restasse la sensazione tragica e il rimpianto della caduta dalla condizione divina. Steiner dice che l’io era necessario affinché l’uomo avesse il luogo dove potesse accogliere la luce del Cristo. E il primo tratto di questo passo è la dichiarazione di Jehova che, alla richiesta di Mosè che chiedeva il suo nome, rispose: “Dì al tuo popolo: io sono l’Io-sono.”
Non è casuale che il Cristo nascesse nel luogo d’incontro tra i popoli che disprezzavano il mondo visto come illusione e quelli che stimavano la materia e avevano un forte senso della persona. Se l’ideale egizio-caldaico era sentire Dio nell’intimo, a esso si unì il gruppo che lo doveva afferrare in modo astratto e privo di ogni contenuto materiale. E non si trattava solo di afferrare Dio con l’anima, ma di farlo penetrare in tutto l’essere e di sentirlo come spontaneo e naturale.
Buona erranza
Sharatan
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