martedì 30 ottobre 2018

Un piccolo seme



I vasi vuoti fanno molto rumore.
(Confucio)

Guardando un piccolo seme siamo subito propensi a giudicarlo dalle sue dimensioni e, se veramente troppo minuscolo, a ignorarlo. La nostra vita è infatti condizionata in larga parte dalle apparenze. Ci siamo abituati a dare valore solo a quello che vediamo o sentiamo, e su questo basiamo il nostro giudizio.

Se incontri una persona timida, che parla a stento e si comporta in modo schivo, non sei forse portato a giudicarla un essere insignificante, senza personalità, qualcuno a cui non vale la pena di prestare attenzione, di cui non ti importa di essere amico?

Quando hai invece a che fare con una persona sicura di sé, capace di parlare con eloquenza e che sembra avere una risposta a tutto, consideri la sua, una compagnia da ricercare, la vedi come un esempio da imitare. Facendo questo commetti non di rado il più grave errore degli errori.

Se ti sforzassi di penetrare al di là del velo di timidezza, della barriera che separa l’introverso dal mondo esterno, è probabile che troveresti una mente profonda, uno spirito generoso, un cuore pieno d’amore che aspetta solo di essere aiutato a manifestarsi.

Se, d’altra parte, fai attenzione alle parole altisonanti, se scruti al di là della risata contagiosa o dell’atteggiamento eccessivamente amichevole o disinvolto, è possibile che tu trovi una persona timorosa della solitudine, che cerca di nascondere la propria insicurezza, aridità spirituale o mancanza di autentico interesse per gli altri, ammantandosi di qualità che non possiede. Potresti avere a che fare con un corvo travestito da pavone.

Ciò non significa che ogni introverso sia una persona meravigliosa e ogni estroverso un ipocrita, però vale la pena di non fermarsi a quello che appare esteriormente, se non si vogliono commettere grossolani errori di valutazione.

Ascoltando le parole di una persona autenticamente spirituale e semplice, queste ti possono sembrare delle parole normali, senza niente di edificante. Ma se riesci ad andare oltre l’apparente mancanza di profondità, potrei intuire il vero illuminante messaggio che può celarsi dietro l’ovvio.

Un saggio consigliò ai suoi allievi:«Guardate un fiore.» Alcuni pensarono:«Ho cose più importanti da fare. Devo leggere, devo studiare, devo discutere.» Altri, in numero minore, capirono il messaggio e si misero ad osservare un fiore. Andando oltre le apparenze, intuirono verità profonde e progredirono sulla strada della spiritualità più velocemente degli altri. Tu, a chi credi di assomigliare di più? (Le parabole di Anthony De Mello, Piemme ed.)

domenica 28 ottobre 2018

La coesione



“Puoi capire che tipo di persona sia,
in base alla creatura che compare più spesso davanti.”
(George MacDonald)

Gli esseri umani sono animali sociali. Ci riuniamo in gruppi: anche questo fa parte della nostra realtà biologica. Qual è il collante che unisce un gruppo di animali? Nel caso di insetti sociali il collante è puramente biochimico: la formica regina, vespa o ape secerne una sostanza chimica chiamata “feromone” che regola tutte le funzioni sociali e sessuali.

Una funzione primaria è l’identificazione di tutti i membri di quella colonia, di quel particolare nido o alveare. Ogni individuo viene marcato con questa sostanza, perciò è possibile riconoscere la sua appartenenza al gruppo. È l’equivalente biochimico di un cartellino identificativo. I roditori, oltre al feromone, usano un segnale olfattivo.

Gli animali che vivono in branco, come pecore, bovini e cervi, sono legati al cosiddetto “istinto del branco” che non è stato realmente compreso, al di là del fatto di riconoscere il ruolo dell’olfatto e il bisogno di un numero ottimale. I mammiferi predatori, come i lupi e i leoni, usano i segnali olfattivi come strumento primario per riconoscere i membri del proprio branco o le proprie prede.

Nei primati l’olfatto è ridotto, e viene utilizzato poco anche il feromone, quindi per identificarsi e comunicare il proprio stato d’animo e le proprie intenzioni, fanno affidamento principalmente sulla vista, il linguaggio del corpo, la mimica, le espressioni e le posture.

Gli studi durati anni sui gruppi di scimpanzé e di gorilla condotti da esperti del calibro di Jane Goodall, Robert Yerkes e Diane Fossey hanno messo in evidenza che ciò che rende una scimmia, uno scimpanzé o un gorilla consapevoli della loro appartenenza a un particolare gruppo è strettamente correlato alla loro relazione con gli altri membri del gruppo stesso.

Proprio come nel gruppo di umani, anche all’interno di un gruppo di scimmie non regna affatto la pace assoluta: la loro quotidianità è pervasa di competizioni, litigi e lotte, nonché da cooperazione, affetto e gioco. I gruppi umani utilizzano tutte le caratteristiche essenziali degli altri gruppi animali.

Dalla nostra posizione, all’apice dell’evoluzione, mimiamo comunque i comportamenti di tutti gli altri animali sociali che vivono sulla terra. Se ti trovi sulla terrazza panoramica dell’Empire State Building e osservi, da quella altezza, le strade di Manhattan, vedrai una colonia di formiche umane. Se osservi il comportamento di bande giovanili, vedrai un branco di ratti umani.

Se osservi la folla di un centro commerciale vedrai mandrie di umani intenti a brucare. Se viaggi in classe economica vedrai esseri umani ammucchiati alla stregua di pecore o mucche. E se osservi dei gruppi di vendita o di marketing al lavoro vedrai l’equivalente umano di un branco a caccia.

Se osservi degli uomini che cercano di rimorchiare delle donne nei bar o in altri ambienti o osservi delle donne che cercano di sedurre gli uomini e di attirarli nelle loro reti, vedrai diversi tipi di predatori sociali solitari.

Ma le analogie non si esauriscono qui; noi incarniamo anche i comportamenti del mondo vegetale: alcune persone si arroccano sui principi come se fossero alberi; altre sembrano erba battuta dal vento; alcune persone hanno una scorza pungente, come i cactus; altre si abbarbicano come edera.

Ma il collante che tiene uniti i gruppi è peculiare dell’essere umano. Infatti, una volta scoperto il numero ottimale per mantenere la continuità da una generazione all’altra, i gruppi hanno bisogno di una dimensione diversa dalla pura biologia.

La forza di coesione del gruppo è la cultura del gruppo stessa, intesa come lingua, utensili, abitudini e totem. Gli uomini danno un senso alla propria vita lasciando alle generazioni successive, eredità colturali oltre che, naturalmente, eredità puramente biologiche.

Persone che condividono le stesse credenze, la stessa filosofia, religione, politica, professione, nazionalità, etnia, ecc., non sono unite da legami biologici, non riconoscono né l’odore, né il feromone dell’altro. E, per rendere chiara l’identificazione visuale non devono necessariamente avere gli stessi comportamenti o vestirsi allo stesso modo.

Ma condividere credenze permette ai gruppi umani di sperimentare la coesione e, purtroppo, anche di denigrare altri gruppi e di giustificare la violenza nei loro confronti. Per ironia della sorte, proprio lo stesso motivo che ci permette di convivere pacificamente in gruppi molto più grandi di quelli che la natura aveva in mente per noi è lo stesso che ci impedisce di convivere pacificamente con gli altri.

Ogni gruppo, infatti, tende a credere di essere il migliore e così percepisce gli altri come “inferiori” e, quindi, come potenziali nemici. Il problema centrale di un conflitto fra gruppi si riduce alla rinuncia all’identità individuale, del pensiero e dell’espressione del singolo, in favore dell’identificazione con lo stesso gruppo.

Perdendo il proprio elemento umano attraverso un’identificazione collettiva, si può fallire nel riconoscere l’elemento umano nelle altre persone che non appartengono al gruppo. Quando si scambia l’identità individuale per una di gruppo, si baratta anche una parte della propria libertà di azione e di pensiero in cambio di una parziale sottomissione alla richiesta collettiva di uniformità di azione.

Arthur Koestler ha chiamato questo fenomeno “identificazione autotrascendente” e ha scritto che: «i mali dell’umanità sono causati non dall’aggressività primaria degli individui, quanto dalla loro identificazione auto trascendente con i gruppi … la vena delirante che pervade la storia non è dovuta a forme individuali di pazzia, bensì alle delusioni collettive generate da sistemi di credenze basate sull’emozione.»

Il vantaggio immediato è la sicurezza: il gruppo ti accoglie, ti permette di esimerti dalla ricerca faticosa del tuo Io, offrendoci un’identificazione confortante e fa appello al tuo istinto di appartenenza. Il gruppo ti fa sentire desiderato e necessario: tutti vogliono sentirsi necessari, e tutti hanno bisogno di sentirsi desiderati.

Barattare l’identità personale con l’identificazione in un qualsiasi gruppo, che non sia l’intera razza umana, crea dei sottogruppi. Prima o poi - tu o qualcun altro - riterrai il tuo sottogruppo primario per la causa umana e gli altri sottogruppi, secondari.

Giungerai a considerare il mondo diviso tra “noi” e “loro”: noi stessi e gli altri; i salvati e i dannati; i fedeli e gli infedeli; i proletari e i borghesi; gli oppressori e le vittime. E sempre, purtroppo, il “noi” è considerato superiore al “loro”. Qualunque pace non potrà che essere temporanea, a meno che non consideriamo gli altri come individui uguali a noi, per il semplice fatto di essere tutti membri della razza umana.

La divisione in gruppi crea inevitabilmente diseguaglianze o l’illusione della diversità. La massima espressione della natura umana si raggiunge trovando la propria identità in quanto essere unico, e non perdendo l’identità personale in una identificazione auto trascendente con i gruppi.

Sii te stesso e sii parte dell’umanità: nessuno sarà in grado di raggirarti o di costringerti a pensare o essere violento in base a semplici differenze di appartenenze o di credenze. Se trovi la tua identità umana indipendentemente dall’identificazione collettiva, scoprirai l’elemento umano anche negli altri, ovunque tu vada e, in cambio, sarai riconosciuto come uomo. (Lou Marinoff, Le pillole di Aristotele, Piemme ed.)

giovedì 25 ottobre 2018

Avere fiducia



“Sii forte allora ed entra nel tuo stesso corpo;
dove avrai un appoggio solido per i tuoi piedi.
Pensaci attentamente!
Non allontanarti!
Kabir dice: liberati di tutti i tuoi pensieri
di cose immaginarie,
e rimani fermo in quello che sei.”
(Kabir)

La fiducia è la sensazione di certezza o convinzione che le cose possono svolgersi in un contesto affidabile di ordine e integrità. Forse non comprendiamo sempre cosa accade a noi o agli altri o la ragione di una particolare situazione; ma se abbiamo fiducia in noi stessi, in qualcun altro, o ci affidiamo a un procedimento o a un ideale, possiamo trovare un forte elemento stabilizzante che comprende sicurezza, equilibrio e franchezza che, se non sono basati sulla ingenuità, in un certo senso ci guidano e proteggono intuitivamente dal male e dall’autodistruzione.

Nella pratica della consapevolezza è importante coltivare il senso di fiducia, perché se non confidiamo nella nostra capacità personale di osservare, essere aperti e attenti, riflettere sull’esperienza, crescere e apprendere dall’osservazione e dall’applicazione, ci riuscirà molto difficile sviluppare una qualsiasi fra queste capacità, che appassiranno e rimarranno allo stato latente.

Un aspetto della pratica della consapevolezza è coltivare un atteggiamento fiducioso. Iniziamo con l’indagare profondamente sulle nostre sicurezze interiori. Se non riusciamo a stabilire immediatamente su che cosa possiamo fare affidamento dentro di noi, forse abbiamo bisogno di esaminarci più a fondo, di auto-confrontarci un po’ più a lungo in tutta tranquillità e limitarci a «essere».

Se siamo inconsapevoli per la maggior parte del tempo di ciò che facciamo e non siamo particolarmente soddisfatti di come si svolge la nostra vita, forse è il momento di prestare maggior attenzione, di essere più presenti a noi stessi, di valutare le nostre scelte e le loro conseguenze nel futuro. Forse potremmo provare a fidarci del momento presente, accettando ciò che sentiamo o pensiamo in “questo” momento perché è il presente in atto.

Se sapremo prendere posizione e ci abbandoneremo al presente in tutta la sua pienezza, forse scopriremo che il momento attuale merita la nostra fiducia. Da tali esperimenti continuamente reiterati può scaturire la sensazione nuova che nel nostro animo esiste un nucleo fondamentalmente sano e degno di fiducia e che le nostre intuizioni, quali echi profondi dell’attualità del momento presente, la meritano pienamente. (Jon Kabat-Zinn, Dovunque tu vada, ci sei già, TEA ed.)

martedì 23 ottobre 2018

I pensieri degli altri



“I pensieri sono vibrazioni sottilissime
che si muovono nell’etere.”
(Paramahansa Yogananda)

Quando una persona pensa intensamente a un’altra, emette un’energia che scorre attraverso un filo telepatico fino alla persona pensata: è come una scia che arriva alla persona, scia luminosa se in senso benefico; corrente tossica se in senso malefico. Si stabilisce così tra i due un vero collegamento che li unisce. 

Il legame si accresce e il filo diviene più grande mano a mano che il pensiero aumenta di intensità e diviene continuo. Se sono più persone a pensare e operare, le proporzioni diventano maggiori e di un’efficacia notevole. Su questo principio è fondata l’azione di aiuto che molti danno in silenzio per la guarigione di malattie morali e fisiche, di conforto a sofferenti e di fiducia a sfiduciati. 

Sullo stesso principio è fondata l’azione opposta e negativa di coloro che operano proiezioni malefiche volontarie. Quando si ha a che fare con persone dalla mente ignorante e maligna, non c’è da stupirsi che esse proiettino sentimenti di rancore e di odio. 

Le proiezioni mentali da mente a mente possono avvenire anche in maniera inconscia. È la carica interiore che agisce senza che la parte cosciente ne abbia il minimo sentore. Chi usa la telepatia per incanalare il proprio odio, la propria vendetta nei riguardi di altri, usa sistemi che hanno una carica enorme, che arriva con intensità ed efficacia. 

Le influenze della mente sono tra le più potenti fra quelle che governano la vita. Certamente, non tutti gli stati depressivi, i disturbi di origine nervosa e gli altri mali sono causati dai cattivi pensieri degli altri; troppo spesso la causa sono i cattivi pensieri nostri. 

È un fatto ormai accertato che il pensiero dell’uomo ha il potere di agire in bene o in male quando è rivolto a qualche cosa. Il pensiero ha capacità creatrici e distruttive; può operare in ogni senso, soprattutto quando è manovrato coscientemente. 

Le persone che ci sono intorno possono indurci in uno stato mentale di bene o di nocumento, di vantaggio o di danno con la loro azione mentale cosciente o inconscia, possono anche influire sul nostro stato di salute o di malattia. In altri tempi, questo era chiamato ‘fascinazione’. 

Tra coloro che hanno affinità di sangue o di sentire, il pensiero non ha barriere, si comunica con facilità. Unica barriera al pensiero è la diversità! Ma attenzione! Questa barriera è infranta in senso positivo dall’amore, e purtroppo, in senso negativo dall’odio. 

Il legame d’amore, come pure quello d’odio, unisce come una catena che non si può spezzare. Chi ama e chi odia si lega con chi ama e chi odia, reciprocamente; stabilisce un’unione che li fa vicini, anche se fisicamente lontani. 

Questa realtà deve far riflettere profondamente per i suoi effetti: mentre il legame psichico e spirituale è superiore a ogni altro legame, perché nell’unità della vita è il più elevato e salutare, il legame dell’odio è il più basso e distruttivo, con enorme danno reciproco per coloro che vi sono avvinghiati. 

Soltanto l’indifferenza libera. L’odio crea forti legami che si risolvono sempre a danno, come un nodo scorsoio che uccide. Le emanazioni di pensieri di tanti uomini formano un immenso aggregato che col tempo costituisce una vera forza di pressione, che si accresce e si potenzia fino a produrre effetti di incalcolabile potenza. 

L’immenso aggregato di amore e di sentimenti positivi opera come potenza benefica che muove la vita nel senso creativo e costruttivo, e serve a controbilanciare le forze contrarie. Se si comprendesse appieno l’immenso potere dell’amore che salva se stesso e gli altri, l’uomo avrebbe trovato l’ancora più potente nella navigazione tra le tempeste della vita. 

Siamo in un’epoca di radiazioni. Non vi sono soltanto quelle benefiche, ma purtroppo anche quelle malefiche di chi pensa e proietta i suoi pensieri dannosi contro altri. Le forme di pensiero di amore e di odio, di cupidigia, di avidità, di desiderio sono ovunque, nei luoghi che frequentiamo, negli ambienti in cui ci rechiamo, per le vie e per le piazze. 

Coloro che hanno facoltà psichiche più sviluppate sono particolarmente sensibili ad esse. Questi pensieri, concreti più di quanto si possa immaginare, tentano pure di penetrare nella nostra mente, di influenzare perfino le nostre azioni. Se non sapremo porre una salda barriera a questo assalto di ogni momento, saremo loro preda. 

Vi sono, poi, coloro che deliberatamente abusano della potenza del pensiero per dominare gli altri, e allora avviene che le creature deboli sono succubi di queste forze. L’uomo che vuole conquistare armonia e serenità, e salvaguardare anche la salute fisica deve porre un argine alla marea invadente dei pensieri altrui, controllando e quindi dominando la propria mente. 

Deve difendersi da quello che riceve fino a che non si è abituato a selezionarlo, imparando a distinguere qual è la forma astrale di luce e quale la negativa, e soprattutto qual è la forma passiva. I pensieri negativi producono nelle menti immagini distorte, che provocano confusione intellettuale e mancanza di comprensione reciproca.

Per la propria salute psichica e fisica è necessario difendersi da queste emozioni malefiche. La difesa più efficace dalle radiazioni-pensiero nocive è quella fatta con l’arma potentissima dei pensieri d’amore, dinanzi ai quali nulla può resistere, anche se è un’arma difficile da manovrare per chi non è sufficientemente allenato a manovrarla. (Amadeus Voldben, La potenza creatrice del pensiero, Mediterranee ed.)

sabato 20 ottobre 2018

La linea della fragilità



Oh, le parole prigioniere
che battono battono
furiosamente
alla porta dell’anima
e la porta dell’anima
che a palmo a palmo
spietatamente
si chiude!
Ed ogni giorno il varco si stringe
ed ogni giorno l’assedio è più duro.
(Antonia Pozzi)

La fragilità fa parte della vita, ne è una delle strutture portanti, una delle radici ontologiche. […] Ma come definire la fragilità nella sua radice fenomenologica? Fragile è una cosa (una situazione) che facilmente si rompe, e fragile è un equilibrio psichico (un equilibrio emozionale) che facilmente si frantuma, ma fragile è anche una cosa che non può essere se non fragile: questo essendo il suo destino.

La linea della fragilità è una linea oscillante e zigzagante che lambisce e unisce aree tematiche diverse: talora, almeno apparentemente, le une lontane dalle altre. Sono fragili, e si rompono facilmente, non solo quelle che sono le nostre emozioni e le nostre ragioni di vita, le nostre speranze e le nostre inquietudini, le nostre tristezze e i nostri slanci del cuore; ma sono fragili, e si dissolvono facilmente, anche le nostre parole: le parole con cui vorremmo aiutare chi sta male e le parole che desidereremmo dagli altri quando siamo noi a stare male.

Sono fragili, sono vulnerabili, esperienze di vita alle quali talora nemmeno pensiamo, come sono le esperienze della timidezza e della gioia, del sorriso e delle lacrime, del silenzio e della speranza, della vita mistica; ma ci sono umane situazioni di vita che ci rendono fragili, o ancora più fragili, dilatando in noi il male di vivere, e sono le malattie del corpo e quelle dell’anima, ma anche la condizione anziana quando sconfitti, in particolare, negli abissi della malattia estrema: la malattia di Alzheimer.

Sono situazioni di grande fragilità interiore che la vita, la noncuranza e l’indifferenza, e anche solo la distrazione e la leggerezza altrui, accrescono e straziano. Come non riconoscere (così) nell’area semantica e simbolica, espressiva ed esistenziale, della fragilità gli elementi costitutivi della condizione umana? Cosa sarebbe la ‘condition humaine’ stralciata dalla fragilità e dalla sensibilità, dalla debolezza e dalla instabilità, dalla vulnerabilità e dalla finitudine, e insieme dalla nostalgia e dall’ansia di un infinito anelato e mai raggiunto?

Come non distinguere, in particolare, la fragilità come grazia, come linea luminosa della vita, che si costituisce come il nocciolo tematico di esperienze fondamentali di ogni età della vita, dalla fragilità come ombra, come notte oscura dell’anima, che incrina le relazioni umane e le rende intermittenti e precarie, incapaci di tenuta emozionale e di fedeltà: esperienza umana anche questa, che resiste limpida e stellare al passare del tempo, e alla corrosione che il tempo rischia sempre di trascinare con sé?

La fenomenologia della fragilità non può fare a meno di una riflessione preliminare sulla sua natura di esperienza interpersonale. La fragilità è il nostro destino, certo, ma essa nasce, si svolge e si articola in una stretta correlazione con l’ambiente in cui viviamo, e cioè con gli altri da noi.

La coscienza della nostra fragilità, della nostra debolezza e della nostra vulnerabilità (sono definizioni, in fondo, intercambiabili) rende difficili e talora impossibili le relazioni umane: siamo condizionati dal timore di non essere accettati, e di non essere riconosciuti nelle nostre insicurezze e nel nostro bisogno di ascolto, e di aiuto.

La nostra fragilità è radicalmente ferita dalle relazioni che non siano gentili e umane, ma fredde e glaciali, o anche solo indifferenti e noncuranti. Non siamo nomadi chiuse, e assediate, ma siamo invece, vorremmo disperatamente essere, nomadi aperte alle parole e ai gesti di accoglienza degli altri; e quando questo non avviene, le dinamiche relazionali si fanno oscure e arrischiate: dilatando fatalmente le nostre fragilità e le nostre ferite, le nostre insicurezze e le nostre debolezze, le nostre vulnerabilità. (Eugenio Borgna, La fragilità che è in noi, Einaudi)

mercoledì 17 ottobre 2018

La corruzione



Quando le nostre coscienze cresceranno così tenere
che agiremo per evitare la miseria umana,
piuttosto che vendicarla?
(Eleanor Roosevelt)

La solitudine è una cosa, essere soli è un’altra. La solitudine può essere isolamento, fuga, una cosa non voluta; ma essere soli senza il fardello della vita, con quella libertà suprema dove il tempo-pensiero non è mai esistito significa essere con l’universo. Nella solitudine c’è malinconia disperata, la sensazione di essere abbandonati, perduti, desiderosi di un qualche tipo di rapporto, come una barca dispersa in mare.

Tutta la nostra attività quotidiana porta a questo isolamento, dove i conflitti e l’infelicità sono senza fine, e rare sono le gioie. Questo isolamento è corruzione, che si manifesta in politica, negli affari, e, naturalmente, nelle religioni istituzionalizzate. La corruzione abita in alto loco e sulla porta delle nostre case.

Essere legati a qualcosa è corruzione; qualsiasi forma di attaccamento porta alla corruzione, che si tratti dell’attaccamento ad un’opinione, ad una fede, ad un ideale, ad un’esperienza o ad una qualsiasi deduzione. La corruzione psicologica è l’elemento che accomuna tutti gli esseri umani.

Il denaro, la posizione sociale, il potere sono le reazioni superficiali della corruzione interna del crescente piacere del desiderio, l’immagine che il pensiero costruisce intorno al movimento del desiderio. La corruzione è frammentazione.In quel vasto spazio tra il cielo azzurro e terso e la bellezza della terra, la coscienza aveva cessato di esistere.

Tutti i sensi erano completamente desti e sensibili all’aria non inquinata, al profumo del deserto e dei fiori in lontananza, al movimento della lucertola sul sasso caldo e al silenzio assoluto. Non era soltanto il silenzio dell’altitudine, quello strano silenzio di quando il sole è appena tramontato, o quello che sembra scendere sulla terra alle prime luci dell’alba, lontano dal frastuono delle città e dei paesi chiassosi, ma anche quel profondo silenzio mai sfiorato dal rumore del pensiero.

È il silenzio che non ha misura, così puro e terso che va ben al di là del fluire della coscienza. Il tempo si era letteralmente fermato. Quel silenzio mi accompagnava mentre l’automobile percorreva la strada in discesa fra orti e siepi. Poi iniziò la civiltà, la volgarità incredibile, la fretta brutale e la sfrontatezza degli esseri umani, dove ognuno affermava la propria presenza, e il ricco faceva mostra del proprio potere e della propria volontà.

Anche quell’ottimo motore d’un tratto sembrava diventato silenzioso, il che naturalmente è una sciocchezza. I giornali del mattino, nei loro editoriali, parlavano di quello che sarebbe stato l’effetto se e quando una bomba atomica fosse esplosa su una grande città: milioni di persone dissolte nel nulla, la società scomparsa, ovunque un caos primordiale. E così via, orrori su orrori.

E l’umanità ripone la propria fiducia nei politici e nei governi. Qualsiasi specialista - il chirurgo, l’arcivescovo, lo chef o l’idraulico - usa soltanto una parte del cervello, riducendo in questo modo la propria attività totale. Il politico e il guru usano solo una piccola parte della capacità e dell’energia straordinarie del cervello.

Questa attività limitata, parziale, sta creando il disastro nel mondo.Questa piccola area del cervello è attiva in tutte le religioni quando esse ripetono i loro rituali, le loro parole senza senso, i loro gesti che contano due o tremila anni di tradizione, a seconda di come sono stati programmati.

Alcune lo fanno con eleganza, con bei paramenti, altre con crudeltà. Lo stesso accade nei circoli governativi, la corruzione del potere.Quella piccola area del cervello può accumulare grandi conoscenze, ma proprio quelle conoscenze non fanno che rafforzare ancor più soltanto una parte del cervello.

L’ascesa dell’uomo non potrà mai avvenire attraverso il sapere, perché il sapere non è mai completo; è sempre all’ombra dell’ignoranza.La macchina super-intelligente - il computer in rapida evoluzione, programmato dagli esperti - supererà e sconvolgerà il pensiero dell’uomo e le sue lente capacità; imparerà più rapidamente, correggerà i propri stessi errori, risolverà i propri stessi problemi.

L’essere umano non ha risolto nessuno dei suoi problemi psicologici, le questioni che sono diventate così complesse.Sembra che fin dai tempi più antichi della sua storia egli ne abbia portato il peso. Noi ce li stiamo ancora portando dietro: problemi di governo, di religione, di rapporto, di violenza, di guerre; e poi il proble¬ma dell’inquinamento della terra.

Ma rimarranno tutti insolubili fintanto che ci funzionerà solo una parte del cervello, fintanto che saremo programmati per essere americani, inglesi, francesi e così via, fintanto che saremo cattolici, induisti, musulmani. Sembra che siamo completamente ignari di quanto sia condizionata e programmata questa piccola area del cervello.

Ciò conferisce a questa programmazione un senso di sicurezza illusorio, una struttura verbale contro i barbari. Ma l’unico barbaro è l’uomo; lui solo è la causa di tutta la corruzione e di tutti gli orrori del mondo. È lui il solo e unico responsabile di quanto gli sta accadendo intorno. Questa piccola area del cervello è la nostra coscienza; è la sede del tempo, della misura, dello spazio e del pensiero.

Il tempo è evoluzione sia biologica che psicologica; è il sole che sorge e tramonta; è il senso del divenire. La misura è quel che è e quel che dovrebbe essere, l’ideale da raggiungere, il violento che diventa pacifico, realizzando il costante, il continuo divenire; è il confronto, l’imitazione, la dipendenza; il meglio e il di più.

Lo spazio è la vasta distesa della terra, i cieli, l’area angusta di cui disponiamo nelle grandi città, e quella - se ve ne è - nella coscienza. Il pensiero è il padrone. Il pensiero è il fattore predominante nella vita umana. Non esiste pensiero orientale o pensiero occidentale; esiste solo il pensiero che può esprimersi in molti modi diversi, ma che è sempre il flusso del pensiero.

Il pensiero è comune a tutta l’umanità, dall’essere più primitivo al più colto. È il pensiero che ha mandato gli uomini sulla luna; il pensiero che ha costruito la bomba atomica; il pensiero che ha edificato i templi, le grandi cattedrali che racchiudono tutto quanto è definito sacro, i rituali elaborati, i dogmi, le credenze, la fede e così via.

È il pensiero che ha costruito il computer e il programma che lo fa funzionare. È il pensiero che ha aiutato l’umanità in infiniti modi diversi, ma che ha anche alimentato le guerre e tutti gli strumenti di morte. È il pensiero che ha progettato gli ideali, la violenza immane, le torture, che ha diviso l’umanità in nazioni, in classi, in religioni innumerevoli, che ha diviso l’uomo mettendolo contro se stesso e contro il suo simile.

L’amore non è il pensiero con i suoi ricordi e le sue immagini. Il pensiero sostiene e nutre la coscienza. Il contenuto della coscienza è il movimento infinito del pensiero, i desideri, i conflitti, le paure, la rincorsa ai piaceri, il dolore, la solitudine, la tristezza. L’amore, la compassione con la sua intelligenza incorruttibile, è oltre questa coscienza limitata.

L’amore non può essere distinto in superiore o inferiore, perché l’alto e il basso sono ancora coscienza, che è sempre rumorosa, sempre chiacchierona. La coscienza è tutto il tempo, tutta la misura, tutto lo spazio, perché nasce dal pensiero.

Il pensiero non può mai e per nessuna ragione essere intero; può speculare su ciò che è intero e indulgere a parlarne e a farne esperienza, ma il pensiero non potrà mai percepirne la bellezza e l’immensità. Il pensiero infatti è il figlio sterile dell’esperienza e del sapere, e non potrà mai essere completo, intero. Per questo sarà sempre limitato, frammentato.

Il pensiero cerca invano di risolvere i problemi che ha creato all’uomo, e così facendo li perpetua a non finire. Soltanto quando il pensiero si renderà conto della propria totale incapacità psicologica a risolvere i problemi e i conflitti da lui stesso creati, la percezione e l’intuizione profonda potranno mettervi fine. (Jiddu Krishnamurti, Andare incontro alla vita, Astrolabio Ubaldini ed.)

domenica 14 ottobre 2018

Impermanenza



“Noi siamo vuoti:
la materia di cui siamo composti,
per così dire, è vuota.”
(XIV Dalai Lama)

Una volta il Buddha riunì i suoi discepoli in un luogo chiamato il Picco dell’Avvoltoio. In quell’occasione impartì alcuni insegnamenti rivoluzionari sulla natura totalmente aperta e insostanziale del nostro essere, chiamata tradizionalmente shunyata, bodhicitta incondizionato o prajnaparamita.

Il Buddha aveva già dato insegnamenti sull’insostanzialità. Molti discepoli presenti al Picco dell’Avvoltoio avevano compreso profondamente l’impermanenza e la non esistenza del sé, la verità che niente, inclusi noi, è solido o prevedibile. Avevano compreso la sofferenza che proviene dall’attaccamento e dalla fissazione.

Avevano imparato ciò dal Buddha stesso e ne avevano sperimentato la profondità in meditazione. Ma il Buddha sapeva che la nostra tendenza a cercare un terreno solido è tenacemente radicata. L’ego può utilizzare qualsiasi cosa per mantenere l’illusione della sicurezza, inclusa la credenza nell’insostanzialità e nel cambiamento.

Allora il Buddha fece qualcosa di scioccante. Con gli insegnamenti della prajnaparamita spinse la zattera completamente al largo, portando i suoi studenti ancora più nell’insostanzialità. Disse loro che dovevano lasciar andare qualsiasi cosa in cui credessero, che basarsi su qualsiasi descrizione della realtà era una trappola.

Non era una notizia confortante per loro… spazzò via tutte le loro rimanenti concezioni sulla natura della realtà. Il principale messaggio del Buddha quel giorno fu che aggrapparsi a qualsiasi cosa blocca la saggezza. Qualsiasi conclusione va abbandonata. Durante questo insegnamento, conosciuto come il Sutra del Cuore, in realtà il Buddha non disse una sola parola.

Entrò in uno stato di profonda meditazione, e lasciò che il bodhisattva della compassione, Avalokiteshvara, facesse il discorso. Questo coraggioso guerriero, conosciuto anche come Kuan-yin, espresse la sua esperienza della prajnaparamita per conto del Buddha.

La sua visione profonda non era basata sull’intelletto, ma proveniva dalla sua pratica: vedeva con chiarezza che tutto è vuoto. Uno dei principali discepoli del Buddha, Shariputra, pose domande ad Avalokiteshvara. Questo è un punto importante. Anche se era un grande bodhisattva a insegnare e il Buddha vegliava su di lui, il significato profondo emerse solo attraverso quelle domande.

Nessun insegnamento veniva accettato per compiacere o per fede cieca. Shariputra non si accontentava di accettare quello che sentiva; voleva conoscere da sé la verità. Dunque, chiese ad Avalokiteshvara:«Come posso applicare prajnaparamita in ogni parola, azione e pensiero della mia vita? Qual è la chiave per addestrarsi a questa pratica? Quale visione devo assumere?»

Avalokiteshvara rispose con uno dei più famosi paradossi buddhisti:«La forma è vacuità, la vacuità è anche forma. La vacuità non è che forma, la forma non è che vacuità.» Quando ascoltai queste parole per la prima volta, non avevo idea di che cosa si stesse parlando. La mia mente si fece completamente vuota. La sua descrizione, come la stessa prajnaparamita, è inesprimibile, indescrivibile, inconcepibile.

La forma è quello che semplicemente è prima che vi proiettiamo le nostre credenze. La prajnaparamita rappresenta un prendere le cose in modo totalmente fresco, una mente senza impedimenti dove tutto è possibile. Prajna è l’espressione non filtrata dell’orecchio aperto, dell’occhio aperto, della mente aperta che sono in ogni essere vivente.

Thich Nhat Hanh traduce questa parola con “comprensione”. È un processo fluido, non qualcosa di definito e concreto, valutabile o misurabile. L’esperienza umana è questa prajnaparamita, questa inesprimibilità. Non è da considerarsi come uno stato di pace o uno stato alterato della mente. È uno stato di intelligenza fondamentalmente aperto, investigante e libero da preconcetti.

Non è rilevante che si presenti sotto forma di curiosità, di smarrimento, di choc e rilassamento: il punto è che ci addestriamo quando siamo presi alla sprovvista e quando la nostra vita è aria. Dunque, quando Avalokiteshvara dice:«La forma è vacuità» si riferisce alla semplice, diretta relazione con l’immediatezza dell’esperienza - il contato diretto con il sangue, il sudore, i fiori, l’amore, con l’odio.

Prima di tutto togliamo di mezzo i nostri preconcetti e poi lasciamo andare anche la credenza che dovremmo vedere le cose senza preconcetti. Continuiamo a portare al largo la nostra zattera. Quando percepiamo la forma come vuota, senza barriere o veli, comprendiamo la perfezione delle cose così come sono.

Si può diventare dipendenti da questa esperienza. Può darci un senso di libertà dall’ambiguità delle emozioni e l’illusione di poter penzolare al di sopra del disordine della vita. Ma «la vacuità è anche forma» rovescia la situazione. La vacuità si manifesta continuamente come guerra e pace, come lutto, nascita, vecchiaia, malattia, morte, gioia.

Siamo sfidati a restare in contatto con il cuore vibrante che caratterizza l’essere vivi. Per questo ci addestriamo nelle pratiche di bodhicitta… che ci aiutano a impegnarci pienamente nella vividezza della vita con mente aperta, non offuscata.

Le cose sono cattive o buone così come sembrano, non c’è bisogno di aggiungerci niente di extra. È scomodo non avere la terra sotto i piedi. Ma è un processo di smascheramento: pur essendo irritati e ansiosi, ci stiamo avvicinando a vedere la vera, non fissa natura della mente. È come un koan zen.

Avalokiteshvara, dopo aver detto a Shariputra che «la forma è vacuità e la vacuità è anche forma» si spinse oltre affermando che non c’è niente, nemmeno gli insegnamenti del Buddha, a cui aggrapparsi: né i tre segni dell’esistenza, né la sofferenza, né la fine della sofferenza, né l’imprigionamento, né la liberazione.

La storia continua raccontando che molti discepoli restarono talmente scossi da questi insegnamenti da avere un attacco di cuore. Un maestro tibetano commentava che, più probabilmente, si alzarono e se ne andarono, non vollero ascoltare. Proprio come noi: non ci piace vedere sfidati i nostri assunti fondamentali: ci fa troppa paura. L’istruzione su prajnaparamita è un insegnamento su come dissolvere la paura.

Nella misura in cui smettiamo di lottare contro l’incertezza e l’ambiguità, dissolviamo la paura. La piena illuminazione è sinonimo della totale assenza di paura: l’interazione con il nostro mondo sentita con tutto il cuore e con la mente aperta. Nel frattempo, ci addestriamo a muoverci pazientemente in quella direzione.

Impariamo a rilassarci nell’insostanzialità, gradualmente ci connettiamo con la mente che conosce l’assenza di paura. Non importa dove ci troviamo sul sentiero di bodhicitta, che siamo solo all’inizio o abbiamo praticato per anni, stiamo sempre spingendoci oltre l’insostanzialità. L’illuminazione, l’essere completamente risvegliati, non è che l’inizio del pieno entrare in un non sappiamo cosa.

Quando il grande bodhisattva finì di insegnare, il Buddha uscì dallo stato meditativo e disse: «Bene, bene! L’hai espresso perfettamente, Avalokiteshvara.» E quelli che non se n’erano andati, né erano morti d'infarto, gioirono. Si rallegrarono nell’ascoltare l’insegnamento sull’andare oltre la paura. (Pema Chödröm, Consigli ad un guerriero compassionevole, Mondadori)

giovedì 11 ottobre 2018

L’artefice



“L’uomo è una creatura di riflessione,
quello su cui riflette in questa vita,
egli diventerà in avvenire.”
(Chāndogya Upaniṣad)

Nell’uomo non ancora risvegliato, che ignora le leggi della vita, dominano pensieri sensuali, di odio, di critica, di vendetta, che lo rendono schiavo, poiché non sa distinguere la propria mente e dirigerla verso pensieri migliori. Chi pensa ai difetti e ai vizi degli altri, diviene ciò che pensa, perché la sua mente si carica di quei difetti e di quei vizi.

Chi conosce le leggi per cui il pensiero costruisce e modella il corpo mentale, e lo rafforza col pensare ripetuto e paziente, può acquistare facoltà che sono gli strumenti più validi per la vita. Ciascuno può formarsi il carattere mentale che desidera, con la precisione con cui l’artefice costruisce la sua opera.

La morte non arresta il lavoro cominciato in vita, ma, liberando dall’ingombro del corpo, facilita il processo di elaborazione delle immagini mentali negli organi che noi chiamiamo facoltà, e che saranno riportate nella nuova nascita terrena. Una parte del cervello del nuovo corpo viene modellata in modo da servire come organo per le nuove capacità acquisite.

Tutte le facoltà riunite insieme formano il corpo mentale. Le immagini mentali, create in una vita, riappaiono nella seguente come caratteristiche e tendenze mentali. I pensieri che tu ospiti in te sono entità operanti e forze viventi che possono determinare la tua vita. Per la legge di attrazione e di affinità, essi attirano altri pensieri della stessa qualità.

Per questo è necessario che ti alimenti di pensieri elevati, di serenità, di fiducia e di conforto; pensieri positivi di coraggio e di forza. Occupa senza interruzione la mente con pensieri di saggezza, di amore e di bene. Pensieri di gioia e di simpatia creano gioia e simpatia anche negli altri, cacciando quelli tristi, pessimisti e di timore. Esercitati a purificare il tuo ambiente con idee di luce e di perfezione.

Irradia un flusso continuo di idee positive e di benedizioni verso tutto il creato. Che la tua mente accolga, trattenga ed emani solo pensieri di bene, e che il bene sia l’oggetto principale di ciò che pensi. Ciò ti sarà reso più facile se mantieni sempre la mente occupata, e se attingi da letture sane e da conversazioni positive rifuggendo da quelle malsane che formano l’alimento malsano dei più. Tale è la Legge: la costruzione del futuro è nelle tue mani!

I pensieri attirano le circostanze favorevoli o disgraziate della nostra esistenza. Cambiando il modo di pensare, possiamo allontanare le circostanze avverse e attirare le propizie. Sono i pensieri del passato che hanno creato la disarmonia del mondo attuale.

Oggi, come allora, chi fa cattivo uso del potere mentale lega se stesso col laccio della disarmonia a una lunga catena di incarnazioni, alla ruota delle rinascite. Bisogna rendersi conto di ciò che avviene quando si adoperano sconsideratamente espressioni errate, poiché allora si usa in modo dannoso il Principio Divino attivo che muove l’Universo.

Nessun discepolo dovrà disperdere la propria mente su troppi argomenti e su cose inutili. Peggio chi persiste nel fissare l’attenzione, anche tacendo, sull’altrui disarmonia, poiché ciò produce una grande accumulazione di forza nociva. Non fissarla sulle contrarietà, non dare forza alle condizioni esteriori, libera la mente dal senso del tempo e dello spazio.

Questa sono creazioni dell’uomo che formano una barriera fra la coscienza esteriore e l’attività interiore. Sii severo custode del tuo mondo emotivo poiché, agendo emotivamente, tu qualifichi l’energia in modo nocivo; e ciò produce altri mali. Tu divieni responsabile della disarmonia che ciò crea, e l’energia messa in moto non potrà essere arrestata.

(Amedeus Voldben, La Coppa d’Oro, Ed. Mediterranee)

martedì 9 ottobre 2018

L’idolo



Un eremita sostava in un tempio in una notte fredda e buia. Per scaldarsi un po’ aveva bruciato un idolo di legno. Vedendo la fiamma nel tempio, un sacerdote del tempio si era svegliato. Alla vista dell’immagine che bruciava era ammutolito. Sconvolto dall’ira, non riusciva a dire nulla. Era un’atrocità impensabile. Notò che l’eremita si era messo a cercare qualcosa tra le ceneri.

Il sacerdote gli chiese:«Cosa cerchi, adesso?». L’eremita rispose:«Cerco le ossa del corpo di Dio.». Agli occhi del prete fu chiara la pazzia dell’eremita. Gli disse:«Folle, come ci possono essere ossa in un’immagine di legno?». Allora l’eremita disse:«Per favore portami un altro idolo. La notte è gelida ed è ancora lunga.»

Quando penso a questa storia, mi rendo conto che quell’eremita non potevo che essere io. Vorrei che fossimo liberi dagli idoli, sì da poter avere la visione dell’anima incorporea. Colui che resta nella forma non può raggiungere ciò che è senza forma. Come può una persona che non è abituata alle forme saltare nell’oceano di ciò che è senza forma? Può una persona impegnata ad adorare un altro, rivolgersi verso se stessa?

Offri il tuo corpo. Disperdi le nuvole delle forme, che tendono a raccogliersi, per poter conoscere il cielo senza forma. Allontana le forme così che la barca possa raggiungere l’oceano dove non ci sono forme. Colui che stacca la sua barca dalle sponde del finito, di certo raggiunge l’infinità e diventa l’infinito. (Bhagwan Shree Rajneesh, Semi di saggezza, SugarCo)

lunedì 8 ottobre 2018

Uomo morde cane!



“Il vero oscurantismo non consiste
nell’impedire la diffusione di ciò che è vero, chiaro e utile,
ma nel mettere in circolazione il falso.”
(Johann Wolfgang Goethe)

Nel film “Wag the dog” incredibilmente profetico, un governo fittizio mette insieme un evento mediatico confezionandolo come episodio provocatorio, dagli interessanti aspetti umani, avvenuto in una nazione balcanica. La notizia passa e ripassa nelle televisioni locali con enorme rilievo, infiamma la cittadinanza e dà buone ragioni per scendere in guerra. E pazienza se l’episodio non è mai successo.

Di continuo vediamo che alcuni dei nostri politici sono disposti a dire e fare in pratica qualsiasi cosa per convincerci di verità che semplicemente non sono vere, magari sulla base di piccolissimi episodi o eventi che in sé avevano un significato del tutto diverso, oppure di avvenimenti che non si sono mai verificati …

A quanto pare oggi basta che chi ricopre qualche alto ruolo dica che una cosa è blu, anche se è evidente che è rossa, perché i media riferiscano che è blu. Un bel po’ di gente ci crederà perché lo ha letto nei giornali o lo ha visto in televisione, così quello diventerà per lo meno un punto su cui dibattere, come se fosse vero.

E dunque potrà essere percepito da molti come un assalto diretto alla nostra nazione, quindi occasione di sdegno e di indignazione e possibile fonte di una nostra reazione travolgente per mostrare che non ci lasciamo minacciare o intimorire da nessuno. È da un pezzo che non siamo più ritenuti attendibili, per le nostre proteste. Sembra che per noi tutto sia possibile, anche quando non è plausibile né sostenuto da prove.

Forse il rosso è davvero blu. Forse c’era davvero un collegamento fra l’Iraq e gli attacchi dell’11 settembre. Anche se le prove addotte sono minime o poco plausibili o addirittura del tutto false e fabbricate, appena lo si è detto ha assunto caratteristiche di verità per molti, specie se poi lo si dice e ridice più volte. E in un contesto che fa leva sulle nostre paure e sfrutta il nostro comprensibile senso di insicurezza …

Se non fermiamo i terroristi in Iraq saremo alla loro mercé, qui a casa nostra; ci saranno altri attacchi a gente innocente … Suona plausibile. Attacchiamoli dunque, prima che loro attacchino noi. Specialmente perché noi siamo “i buoni” e siamo pur sempre la parte lesa. Fermarci e analizzare la situazione a fondo? Lasciamo perdere, e chi se ne importa di quello che dicono i nostri amici e alleati.

Le cose, ora, sono diverse: adesso, o con noi o contro di noi. Ora il blu è rosso; e quelli che dicono che no, è ancora blu, non meritano fiducia: è evidente che sono antipatriottici, che se ne infischiano del pericolo che stanno correndo la libertà e la democrazia. E così abbiamo vinto una “guerra preventiva”, abbiamo deposto un tiranno mostruoso e sanguinario, abbiamo “liberato” il paese e abbiamo finito per impantanarci in un altro tipo di palude.

Probabilmente con la nostra arroganza, i nostri abusi di potere e il bisogno di apparire ai nostri occhi come “i buoni” e “le forze del bene” a qualunque costo e spesso per tutte le ragioni sbagliate, siamo riusciti a rimpinguare di nuove reclute le fila delle organizzazioni terroristiche di tutto il mondo. Distorcere la realtà potrà mai darci sicurezza?

George Orwell scrisse il romanzo “1984” per metterci in guardia da quello che può accadere quando ci rifiutiamo di chiamare “spada” una spada al momento giusto, quando ci lasciamo raggirare e ci mettiamo a pensare che il bianco è nero e il nero è bianco o, come scrive Orwell, che “la guerra è pace e la libertà è schiavitù”.

È già abbastanza brutto cadere nella mentalità “bianco o nero”, nelle asserzioni “o/o”, “o noi o loro” che nascono per riflesso da percezioni così distorte; ma che ci venga chiesto, come accade tanto spesso, di accettare che il nero sia bianco e che il rosso sia blu vuol dire spostare sempre più in là i limiti della creduloneria.

Sappiamo bene che la maggior parte delle situazioni è complessa, spesso ambigua, che richiede discernimento e visione profonda, e una valutazione attenta delle possibili scelte e conseguenze su uno sfondo di saggezza, se si vuole fornire una sicurezza vera e promuovere l’azione saggia nel mondo.

Eppure è fin troppo evidente: in presenza delle giuste cause e condizioni, manipolata nelle circostanze giuste dalla gente giusta che usa il linguaggio giusto e gioca sulle nostre paure e ci spinge a ignorare la nostra capacità di vedere con chiarezza e di distinguere le cose come stanno o non stanno o fino a che punto potrebbero stare così, la nostra società (ossia tutti noi collettivamente) continua a ricadere sempre nell’inconsapevolezza, e si lascia cogliere da spasmi di follia.

Sono questi attacchi di follia, loro sì, a minacciare il nostro benessere e persino la nostra integrità come nazione e come specie umana. Non sarebbe ora di svegliarci, quando abbiamo l’impressione che vengano a raccontarci che il padrone ha morso il cane? Non sarebbe ora di rifiutarci di lasciarci trascinare sulla via della passività e del sonnambulismo, di sacrificare la libertà e il buon senso sull’altare dell’inconsapevolezza, della paura e della manipolazione?

Non sarebbe ora, e da un pezzo, di cominciare a fare attenzione a quello che succede davvero sotto l’apparenza superficiale degli avvenimenti, a livello sia interiore che esteriore? Non sarebbe ora di smettere di ignorare i segni e sintomi della malattia latente? Non sarebbe tempo di agire in maniera appropriata, in base all’intero spettro di potenzialità dell’intelligenza di tutti? (Jon Kabat-Zinn, Riprendere i sensi, TEA ed.)