"Intrepido, fendo lo spazio con le mie ali e la fama non mi fa urtare contro mondi tratti da falsi principi, secondo i quali rimarremmo rinchiusi in una prigione immaginaria come se tutto fosse cinto da muraglie di ferro... ma fendo i cieli e all’infinito m’ergo." (Giordano Bruno)
sabato 26 aprile 2008
Socrate nel villaggio globale
Qualche giorno fa mi sono imbattuta in una citazione di Ivan Illich (1926-2002), il grande pensatore eretico, oggi ingiustamente dimenticato. Si legge nel sito web “L’altra officina” a lui dedicato: “Era un libero pensatore, fuori da ogni schema. Aveva una grande dote: sapeva levarsi in volo e guardare il mondo dall'alto, al di fuori delle mura che ci fanno ombra. Illich era capace di smontare pezzo per pezzo le nostre "certezze", ogni suo libro ha la capacità di "alleggerire il lettore, di farlo sentire più libero, più umano, più vivo. I suoi scritti "eretici" hanno sollevato grandi polemiche e si sono attirati le dure critiche degli intellettuali organici" della sinistra. Ma non è mai diventato famoso. Eppure Ivan Illich può dare a questo secolo e alle nuove generazioni ancor più di di quanto abbia dato alla generazione degli anni settanta. L'opera di Illich è più che mai attuale. Il buio di questi tempi ha più che mai bisogno di quel raggio di sole.”
E’ stato considerato il padre dell’ecologia moderna e si può a buon diritto considerare il precursore del pensiero no global. La sua figura è assolutamente straordinaria già a livello biografico; è stato teologo, storico, sociologo, linguista, economista. Era laureato in teologia, filosofia e filosofia della storia e conosceva ben 13 lingue. Già dall’infanzia la madre gli parlava italiano, tedesco e francese, e lui le padroneggiava pienamente a 6 anni. Chi lo ha conosciuto racconta della sua capacità di passare contemporaneamente da una lingua all’altra e di conversare in simultanea in più lingue. Ascoltarlo conversare era come vedere fare uno slalom linguistico. Non volle aderire a nessun partito e rimase sempre immune da ogni adesione ideologica e la portata del suo pensiero esercitò un’azione travolgente, non solo sulla cultura provinciale ed ottusa del pensiero occidentale moderno, ma anche sulle ideologie falsamente progressiste ed avanguardiste delle sinistre. Fu scomodo per il suo pensiero originale, eclettico ed aperto e per la visione profetica e reale del mondo che sarebbe venuto e che lui prevedeva già 30 anni fa. Il destino di Illich è veramente cinico e baro, e lo ha rimosso dalla coscienza perché pericoloso in un momento storico in cui la difesa strenua dei pregiudizi consolidati è affidata all’ignoranza, alla obnubilazione delle coscienze e al rifiuto a ricominciare da capo a ritessere i fili del nostro sapere e del nostro fare. La sua critica istituzionale è ancora lucidissima e pienamente convalidata dai tempi nostri. L’istituzione – lui dice - è la risposta organizzata ai bisogni, cioè alle domande che l’individuo rivolge alla società, nella convinzione che essa possa supplire alla sua impotenza ad esercitare un diritto. Così la necessità soggettiva si trasferisce ad un meccanismo oggettivo, che si rinforza e diventa pretesa esclusiva di disporre degli strumenti necessari per la soddisfazione di quei bisogni. Il diritto soggettivo diviene dovere e nasce l’obbligo sociale di rivolgersi all’erogatore unico ed unico autorizzato alla fornitura di quei servizi. Nasce così il monopolio istituzionale. E’ la società organizzata che tende a conservare la propria figura, ad imporre le sue regole e le sue convinzioni, cioè i suoi valori e, quindi oggettivizza i bisogni soggettivi, espropriando il singolo della sua libertà. L’istituzione diviene così autoreferenziale ed il potere viene esercitato con la forza o con il consenso, con la pretesa di esercitare un bene e un servizio per la collettività. Si crea così un monopolio espropriante che mantiene gli individui in uno stato di inferiorità e di dipendenza, costretti ad obbedire a chi comanda con delle giustificazioni che poco differenziano i metodi coercitivi dai metodi democratici, laddove gli ultimi si avvalgono di metodi di persuasione che fanno del consenso una vera e propria abdicazione alla libertà di giudizio e di coscienza.
La società dei consumi interiorizza le costrizioni sociali e trasforma la paura della repressione dei regimi autoritari, in vergogna dell’emarginazione sociale. Il risultato è controllo assoluto dei singoli. La scuola è la prima istituzione autoritaria, infatti la costruzione di una progettualità pedagogica esprime la natura tecnica e burocratica della scuola stessa, per cui essa non serve ad educare, ma serve a ben altro. La scuola - afferma Illich - nasce per istituzionalizzare la costruzione di rituali mitopoietici, cioè dei miti sociali. Max Gluckman afferma che i rituali sono forme di comportamento che rendono coloro che vi prendono parte, ciechi di fronte alla discrepanza esistente tra lo scopo per cui viene eseguito e le effettive conseguenze. La scuola è il rituale di una società impegnata nel progresso e nello sviluppo. Essa crea dei miti che per la società consumistica sono una necessità, e li crea tramite il processo educativo in cui vi è un consumatore e vi è qualcun altro che è l’organizzatore. L’allievo collabora producendo la cosa che consuma e che interiorizza. La scuola è la prima istituzione autoritaria in cui l’individuo viene sottoposto ad indottinamento istruttivo, essa trasforma ogni alfabetizzato in un tecnico a vari livelli in cui viene estromessa ogni competenza particolare ed ogni coscienza di sé. La scuola insegna in modo statico, mancando assolutamente di condizioni concrete, cioè del confronto con le esigenze personali dell’allievo e con le sue necessità formative.
Nel saggio “Per una storia dei bisogni” del 1981, Illich sostiene che l’età moderna crea dei falsi bisogni e trascura i veri problemi che ci affliggono, producendo una elite di nuovi professionisti la cui funzione consiste proprio nell’inculcare alla gente dei bisogni fasulli. Più aumenta la tecnologia e maggiore è la riduzione delle libertà umane nei riguardi di ciò che può analizzare e controllare. La liberazione dell’uomo dipende dalla padronanza che egli ha del suo corpo e dei suoi bisogni, indipendentemente dalle tecniche disponibili, in modo tale che i suoi bisogni non siano indotti da qualcun altro.
Per questo le istituzioni che fagocitano l’uomo sono: la chiesa, la scuola, la medicina, le società di gestione dei trasporti e la tecnologia. In questi contesti, gli “utensili” cioè le istituzioni divengono improduttive per il soggetto e dannose per la libertà umana, ma estremamente utili a sè stesse e alla loro esistenza. Esse collaborano all’invenzione dei bisogni, che è basilare nella cultura occidentale. La cultura consumistica ha inventato il concetto di “consumatore neutro” togliendo ogni valore alle differenze di genere, entrando così, anche nel campo privato dei vissuti sessuali ed intimi. Lo stesso lavoro è divenuto il principale tempo vissuto e la necessità di velocizzare il tempo degli spostamenti ci fa vivere per molte ore in mezzi di trasporto rendendo onore, per assurdo, al compito opposto a quello per cui era stata creata. Il progresso tecnologico viene legittimato dalla necessità di soddisfare dei bisogni presunti, per cui la crescita industriale, lo sviluppo non aumenta la ricchezza ma si limita a modernizzare la povertà. La sua critica alla mondializzazione proviene dall’instancabile difesa dell’immanenza della capacità umana di non essere inquadrato in ideologie del progresso ed in categorie costruite a tavolino dai poteri forti: i famosi exit poll gestiti dagli esperti. Negli ultimi anni si dedicava alla “filosofia della prevenzione” che trasforma il consumatore in decision makers. Per mantenere la distanza da tutte le certezze a proposito dei bisogni, aveva costruito uno stile di vita errante, accettando una mancanza di casa che tradizionalmente viene accolto nelle società nomadi con la cultura dell’ospitalità. Alla sua cultura mitteleuropea, nato da un padre padre croato e cattolico, proprietario di terre che appartenevano da secoli alla famiglia nell'isola dalmata di Brazza, e da una madre ebrea sefardita, aveva mischiato suggestioni latino-americane. Era esule dall’adolescenza a causa delle persecuzioni razziste e fu per tutta la vita in giro nel mondo, dividendosi tra Brema, l’Italia, l’Università della Pennsylvania e Cuernavaca in Messico. A Cuernava aveva fondato il Cidoc un centro di interdocumentazione dove vengono raccolti da un lato enormi quantità di lavori sulle tradizioni popolari latino-americane e dall’altro dati e materiali sullo sviluppo delle grandi istituzioni mondiali nel campo dell’educazione, della salute e dell’economia. Parlando di sé diceva di essere “un alienato”, cioè costretto a guardare il presente ma capace di acquisirne la necessaria distanza. Si riteneva fortunato ad essere sempre stato in contatto con una dozzina di ottimi amici, come lui capaci di “disciplinata stravaganza” e per avere ospitato, negli anni, “molte belle persone estremiste.”
Il filosofo francese Jacques Dufresne lo definì il “Socrate del villaggio globale”.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami
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