martedì 29 settembre 2009

Imparare la verità


“Il mio silenzio canta, la mia pienezza è colma, non mi manca niente.
Non puoi conoscere la mia terra finché non ci sei dentro”.
(Sri Nisargadatta Maharaj)


L’inerzia mentale e la nostra scarsa preparazione all’auto-analisi determinano l’ignoranza di noi stessi, che è alla fonte di tutti i conflitti di cui soffriamo, perché sappiamo molto di noi ma non riusciamo ad armonizzare il nostro essere e il modo di pensare con il nostro agire. Sarebbe invece opportuno saper fare una corretta analisi della nostra natura per poter creare un conseguente armonioso agire. La capacità di saper distinguere tra la storia personale e la verità oggettiva, è l’essenza della saggezza discriminante o prajña, che è l’effetto collaterale dell’auto-analisi.

Ma vi è anche una naturale tendenza umana che vuole sempre dagli altri che essi mettano in pratica i principi superiori, senza mai tentare di conoscerli e di praticarli personalmente. Vi è un "scarico a catena delle responsabilità" che continua all’infinito, senza avere assolutamente realizzato alcun tipo di principio superiore. Insomma vogliamo che gli altri pratichino l’amore, la comprensione, l’umiltà e la sensibilità senza capire che questi principi sono prima per noi e poi per gli altri.

Ma praticare questi principi vuol significare l’armonizzazione della nostra natura e per farlo dobbiamo operare una rivoluzione psicologica di noi stessi. Senza la rivoluzione dell’individuo non si potrà realizzare nessuna rivoluzione sociale, perché la società è una somma di individui e, queste singole unità devono sapersi conoscere e realizzare per eliminare i conflitti, le disarmonie e le alienazioni. Il Mahatma Gandhi affermava che la rivoluzione interiore deve avvenire prima della rivoluzione politica, perché conoscerci ed armonizzarci ci permetterà di diffondere conoscenza ed armonia anche nel mondo esterno: diventando Armonia si diffonde Armonia.

Molte persone usano delle verità relative quando affermano di essere felici o arrabbiati o insoddisfatti. Queste verità sono relative perché noi sentiamo felicità, rabbia o insoddisfazione, ma il nostro sentire non corrisponde affatto al nostro essere. Le nostre parole esprimono solo i sentimenti che percepiamo per cui, noi sperimentiamo delle verità apparenti e transitorie, ma poi le reputiamo delle verità assolute.

E’ la nostra erronea identificazione con il corpo fisico, con il corpo emotivo o con il corpo mentale, che ci impedisce di analizzare quello che vi è di più profondo, ciò che è celato sotto le apparenze di quei sentimenti, di quelle emozioni o di quelle concezioni: questa nostra abitudine a proclamare la sola realtà dei sentimenti perpetua il ciclo della sofferenza, cioè il ciclo del Samsara. I nostri sentimenti, come pure le nostre emozioni, sicuramente fanno parte della nostra storia personale che è intessuta di gioia e di dolore, di esaltazioni e di cadute, di successi e di sconfitte, ma esse non sono l’essenza del nostro essere, esse non sono la verità.

E’ l’ignoranza della nostra vera essenza unita alla volontà di prolungare i sentimenti positivi e di accorciare quelli negativi, che ci impedisce di intraprendere la via del cambiamento, e che ci impedisce di comprendere la legge della trasformazione che governa la vita umana e le dimensioni di tempo e spazio. Abbandonarsi al cambiamento significa ammettere che il sentimento di infelicità è un sentimento di infelicità, ma che esso non è tutta la nostra intima essenza. Tutto si trasforma tranne la nostra vera natura, infatti, indipendentemente da ciò che noi crediamo di essere, in realtà, noi siamo quello che siamo.

Dice Sri Nisargadatta Maharaj: “E’ la mente, basata sulla memoria, che ti impedisce di riconoscere che sei tutto e al di là di tutto. Ma essa esercita questo potere su di te solo finchè lo credi; tu però non entrarci in conflitto, e limitati a non prenderla in considerazione. Privata della tua attenzione, rallenterà e svelerà i suoi meccanismi. Quando conoscerai le sue caratteristiche e i suoi scopi, non le permetterai di crearti problemi immaginari.”

Cosa non cambia quando il corpo cambia? Cosa non cambia quando tutto il mondo interno a noi si trasforma e si rivoluziona? Cosa non cambia quando cambiano i nostri sentimenti? Chi non muta è l’io sono. Dice ancora Sri Nisargadatta Maharaj: “Dopotutto l’io sono è sempre con te, solo che gli hai attribuito ogni genere di cose: corpo, sentimenti, pensieri, idee, possessi, eccetera. Ma sono tutte identificazioni fuorvianti, ed è a causa loro che credi di essere ciò che sei. […] Sei tu che osservi il cuore che prova sentimenti, la mente che pensa e il corpo che agisce. L’atto stesso di percepire dimostra che tu non sei ciò che percepisci. Può esserci percezione, esperienza, senza di te?”

Nel messaggio di Sri Nisargadatta Maharaj si afferma che nell’uomo manca la saggezza discriminante, quindi la capacità e la determinazione ma anche il coraggio di saperci dire la verità. Infatti dire la verità deve divenire la cosa più importante, deve divenire più importante dell’illuminazione e ancora più importante della felicità. E la verità che sapremo proclamare sarà la più autentica e la più implacabile, ma solo se avremo il coraggio di amarla e perseguirla. E’ solo la devozione assoluta per la verità, per la verità più profonda, che ci farà scoprire che le nostre storie personali e le nostre sensazioni sono solo una conoscenza parziale e non sono la verità ultima.

Essere distaccati e vedere lo spettacolo delle cose che scorrono, e non aggrapparci al corso dell’eterno fluire, poichè questo è solo un fenomeno passeggero, tutto questo ci offre la capacità di non preoccuparci di tutto ciò che non siamo noi, e di ciò che non è in nostro possesso. Le persone non prestano attenzione a loro stesse perché la loro mente è sempre con gli oggetti, con le persone e con le idee, e mai con loro stesse. Se ci mettiamo al centro dell’attenzione e diventiamo consapevoli della nostra esistenza, potremo vedere come funzioniamo, potremo osservare le motivazioni e anche le conseguenze delle nostre azioni.

Potremo vedere la prigione che ci siamo costruiti intorno, per nostra inadempienza o per nostra inavvertenza. Intanto iniziamo con il capire cosa non siamo, magari poi avremo molto più chiaro il profilo di ciò che siamo. E’ possibile così iniziare a sbarazzarci della tendenza a definire noi stessi, perché ognuna di questa definizione si basa sul corpo e sulle sue espressioni, perciò è falsa. Ma questo lo scopriamo se siamo seri, lo scopriamo solo se indaghiamo e se conosciamo, lo scopriamo solo cercandolo, solo interrogandoci e dedicando poi la vita a lavorare sulla nostra scoperta. Ma per farlo è necessaria la chiarezza, il coraggio e la determinazione di credere che la verità e l’amore sono la natura dell’essere umano, mentre la mente e il cuore sono solo i mezzi della sua espressione.

La verità è nascosta dietro il velo delle nostre storie e la verità che dobbiamo scoprire è che siamo radiosa e libera coscienza. Quando la radiosa coscienza si oscura calandosi ed identificandosi con il corpo, con il pensiero, con l'emozione o con le circostanze in cui viviamo, allora viviamo nella menzogna, e alla menzogna si accompagna sempre la sofferenza. Molti vivono superficialmente e soffrono le conseguenze della loro superficialità perchè nella parte più profonda del loro animo si trova un prigioniero che vuole solo potersi esprimere e che desidera essere riconosciuto ed onorato. Noi trattiamo questo essere come un prigioniero messo a marcire nelle secrete, ristretto in prigioni in cui l'accusato non ha diritto a comunicare con nessuno, condannato alle peggiori prigioni interiori, quelle in cui è racchiuso tutto l'Inconfessabile di noi stessi.

Quando ci accontentiamo e viviamo di verità relative e superficiali, uccidiamo tragicamente questo prigioniero che è la parte più profonda e l'essenza intima di noi stessi. Oggi il nostro pianeta è arrivato ad un livello incredibile di sofferenza perchè sono stati uccisi molti di questi esseri, ma in ogni momento possiamo arrestare il vortice di dolore. In ogni momento ognuno di noi ha la possibilità di distogliere l'interesse dal passato e dal futuro e di orientare la sua consapevolezza discriminante sul momento presente, così da riconoscere la realtà permanente e mutevole differenziandola da ciò che è sempre valido e presente. In ogni momento è possibile concedere la grazia al nostro prigioniero.

Buona erranza
Sharatan

domenica 27 settembre 2009

E ora raccontati una storia!


Raccontare storie è il trucco che da sempre, l’essere umano usa per sopravvivere al dramma della condizione umana. E allora si narrano storie che servono per insegnare, per divertire, per sedurre, per consolare o per spaventare gli esseri umani che vogliono esplorare tutti gli aspetti dell’essere. In queste storie ci sono le cose che noi ci raccontiamo, ma ci sono anche le storie che gli altri ci raccontano su come ci vedono essere o su ciò che dovremmo essere.

In queste storie sono raccontati i nostri sentimenti personali, ma anche tutte le concezioni che gli individui, le coppie, le famiglie, le tribù, le società, le nazioni e gli universi vogliono perpetuare. Ogni civiltà, ogni cultura e ogni individuo si costruisce una storia, un’epopea o un mito in cui parla delle sue paure, delle sue speranze, delle sue divinità e dei suoi demoni. Ma queste storie sono vere? Esse sono certamente vere in quanto narrano la realtà dell’esperienza, ma sono anche false per quanto riguarda la totalità dell’essere, poiché non riescono a narrare la totalità nell’insieme.

In questo senso anche noi ci raccontiamo la nostra bella storia, anche noi ci impegniamo a costruire una storia su cosa siamo, su cosa sono gli altri, su quello che è più giusto e su quello che è sbagliato. Ma siamo veramente disposti a smettere di raccontarci la nostra storia personale? In questa storia abbiamo impegnato così tanta fatica e tanto ingegno che, per molti, smettere di raccontarsi storie diventa impossibile, perciò essi preferiscono vivere immobili e immersi nella loro storia, completamente ciechi e sordi alle smentite che possano giungere dall’esterno: si preferisce vivere nell’illusione piuttosto che affrontare la realtà.

Per molti che non hanno il coraggio di dichiararsi ignoranti, per molti che preferiscono affermare che loro “Lo sanno già” che la realtà non ha nulla da insegnare e che non c’è eterno fluire, per loro, qualsiasi narrazione fittizia diventa preferibile al duro impatto con la legge del cambiamento. Diceva Osho che “Il sapere è l’inganno più grande che la società crea nella mente delle persone.”

Molti non sanno rendersi disponibili all’apprendimento che è essenzialmente un approccio non egoico con la realtà, perché apprendere significa rendersi innocente, aperto e ricettivo, significa dire ”Non conosco ma vorrei sapere, sono pronto ad imparare.” Colui che crede di sapere tutto dice “Lo so già! E’ inutile che mi racconti quello che conosco meglio di te!” Ecco, questa è la faccia peggiore dell’ignoranza: la supponenza che è l’infelice unione di sdegno ed arroganza, che è la volgare amalgama di megalomania e superbia.

Quando nella Bibbia si parla della caduta degli angeli ribelli, si dice che il peccato di Lucifero fu la superbia: il suo peccato è costituito dalla presunzione di essere superiore a Dio, dalla sua incredibile supponenza. E’ questo atteggiamento luciferino, che non ha nulla a che spartire con la dignità e con l’intelligenza di colui che ammette che è necessario comprendere sempre più e conoscere sempre di più, che è il vero nemico dell’uomo.

Solo coloro che non vogliono imitare l’imbecillità luciferina possono concepire che un distillato di esperienza non è una verità assoluta ma è solo una verità relativa, assolutamente relativa, sia per quanto riguarda la completezza che la durata temporale: è così per il momento ed è così per adesso! Le storie come le esperienze possono cambiare, perché si basano su aspetti intimi di noi che sono destinati a scomparire o semplicemente a trasformarsi. Allora, quando la smettiamo di raccontarci storie avremo istantaneamente la verità, quando la smettiamo di dirci come dovremmo essere, solo allora sperimentiamo quell’essere e sperimentiamo chi siamo veramente.

Arrenderci a noi stessi significa smettere di raccontarci cosa siamo, significa smettere di sognare la notte e risvegliarsi nel godimento della realtà e della profondità della notte: così ci risvegliamo dal sogno della vita. Ma raccontarsi una storia personale è la religione primaria dell’essere umano, ed essa è rassicurante perchè ci colloca in un contesto ben preciso di chi siamo, del nostro vero posto giusto, della nostra migliore società, del nostro pianeta e dell’intero universo: questo è il motivo per cui l’uomo è sempre in guerra con se stesso. La guerra di dover impersonare la menzogna mentre si ospita la verità.

Se riconosciamo qual’è la nostra storia, allora diventiamo pienamente consapevoli e la storia cessa di manovrarci a nostra insaputa. Possiamo vedere con consapevolezza qual è la storia che ci stiamo raccontando e smettere di permettere che la sua influenza diriga la nostra vita. E’ questo l’arrendersi a noi stessi! Ci arrendiamo quando iniziamo a vedere che tutte le storie che ci siamo raccontate solo soltanto delle storie, anche se profonde.

Esse sono storie parziali del nostro essere, anche se ben radicate nella nostra mente sono fittizie: la verità è che noi non siamo le storie che ci raccontiamo su noi stessi. Ma noi sottovalutiamo la profondità del nostro essere e la sua intima verità e, per rimanere fedele alla storia che ci siamo inventatati, perdiamo l’opportunità di conoscere quello che veramente siamo.

Il modo migliore è prendere coscienza di questo meccanismo, vedere consapevolmente quale storia ci stiamo raccontando, ma non per liberarcene, solo per poter capire il senso della storia della nostra vita. Qualsiasi sia la risposta, non è necessario che la storia sia bella o brutta, è essenziale capire che essa non è reale, e che è solo una storia. Che la storia è costruita con i pensieri che non sono l’essenza profonda di ciò che siamo, ma solo le rappresentazioni soggettive di ciò che ci accade e perciò offrono solo verità relative.

I pensieri possono costruirci un’identità relativa su noi, ma essa può diventare la verità assoluta del nostro essere, della nostra individualità. Quando vogliamo liberarci della nostra storia personale, in realtà siamo ammaliati ed ingannati da un altro meccanismo della capacità di raccontare storie: cercare di uccidere la nostra storia è un altro aspetto del controllo della mente, che trova la via per divenire ancora più profonda e ingannevole, e si trasforma in un guastatore.

Molti spiritualisti cercano di uccidere le storie personali degli adepti pensando così di annullare i condizionamenti, ma questo è un errore perché l’esame delle storie personali aiuta a fare un profondo esame delle storie stesse. Se le facciamo parlare, esse saranno disposte a raccontarci delle verità molto profonde su noi, se le attacchiamo per ucciderle, esse diventano dei nemici implacabili perchè in possesso dei nostri più intimi segreti. Ma allora qual è il modo giusto di trattarle?

Non dobbiamo rifiutarle, ma saperle accogliere e farle parlare di noi, dobbiamo accoglierle e farle sprimere, mai negarle o rinnegarle, ma ammetterle come una cosa che siamo noi, ma non come espressione di tutto su di noi.

Arrendiamoci ed ammettiamo che noi siamo anche quello, anche quello ci era necessario essere e che, in un periodo e in certi contesti siamo in quel modo, ma come esseri consapevoli e risvegliati alla coscienza, ora sappiamo essere altro.

Se vogliamo uccidere le storie personali stiamo sbagliando perché, apparentemente, con l’eliminazione penseremo di avere risolto la partita e ci sembrerà che la storia sia stata rimossa, ma in realtà essa resterà attiva in sottofondo, come un guastatore interiore che si aggira furtivo all’interno del sistema e ne demolisce rabbiosamente le strutture, implacabile e pronto a prendersi la sua rivalsa, pronto a riprendere il controllo alla prima favorevole occasione.

Così non solo non abbiamo perso ogni forma di condizionamento, ma avremo solo sostituito un condizionamento spirituale a quello materiale e avremo creato un nemico nel nostro animo, perciò non godremo di nessuna pace interiore. Se non la smettiamo di vedere la sofferenza come una condizione negativa non sapremo mai vedere in cosa consista la nostra storia personale, perché la sofferenza è il chiaro sintomo che ci stiamo ancora una volta raccontando un’ennesima storia, e che il guastatore interno è ancora vivo ed insidioso.

Buona erranza
Sharatan


giovedì 24 settembre 2009

L'uomo che piantava gli alberi



“Qualsiasi stupido è capace di distruggere gli alberi”
(John Muir)


Quest’estate un mio amico che vende libri mi ha detto che dovevo leggere un racconto e mi ha consegnato un piccolo volume: “Prendilo, te lo consiglio. Lo finisci in 1 ora. Ti piacerà!” Così mi ha consegnato “L’uomo che piantava gli alberi” di Jean Giono, che dimostra “come gli uomini potrebbero essere altrettanto efficaci di Dio in altri campi oltre alla distruzione.”

Nell’estate del 1913 Jean Giono peregrinava in una zona solitaria della Provenza nel dipartimento delle Basse Alpi. Camminava da circa 3 giorni su di un altopiano a circa 1.300 metri. Aveva percorso un paesaggio di lande desolate, con ampie distese aspre e deserte su cui crescevano solo arbusti di lavanda, sotto la sferza di un vento feroce e implacabile. In un luogo desolato arrivò, assetato, allo scheletro di un paese di poche case diroccate, sperando di trovare acqua.

Era una bella giornata di giugno molto assolata, e il vento sferzava il paesaggio desertico e desolato, facendo risuonare il suo ululato furioso tra le rovine di quello che era stato un vecchio paesino con le macerie di un vecchio campanile, al fianco della chiesa. Dappertutto vi era desolazione e nessuna traccia di acqua, e così Giono riprese il cammino, disperando di trovare anima viva. All’improvviso vide in lontananza una macchia nera che assomigliava ad un tronco di albero ma, quando fu più vicino, si accorse che era un pastore solitario con un gregge di circa 30 pecore e il suo cane, che si riposavano sul prato arido. Il pastore gli offrì acqua dalla sua borraccia e poi lo portò ad una pozza profonda che aveva scavato a fianco di casa sua, da cui trasse un’acqua purissima ed ottima.

Il pastore abitava in una vera casa di pietra, una delle vecchie case del paese che aveva ristrutturato con pazienza. L’uomo, che era molto silenzioso come tutti i solitari, viveva nella casetta risistemata ad arte e tirata a lucido, con il pavimento spazzato e lavato, il fucile perfettamente oleato e la minestra calda che bolliva sul fuoco. Era rasato e pulitissimo, con gli abiti perfettamente rassettati e rammendati e silenziosamente divise con Giono la sua cena. Anche il suo cane era “affettuoso senza bassezza” e si mise seduto al fianco del suo padrone, dignitoso e muto: la presenza dell’uomo aveva il potere di infondere grande pace.

Era inteso che Giono fosse ospite per la notte, perché il villaggio più vicino era a un giorno e mezzo di cammino e poi gli abitanti di quei luoghi erano aspri e selvatici come le terre in cui vivevano, niente affatto ospitali. Erano rudi e grossolani boscaioli che facevano carbone, e che vivevano duramente facendosi una concorrenza spietata per i loro poveri commerci. C’era rancore e ostilità su tutto, causata dalle loro ambizioni frustrate dalla misera vita. L’ululato del vento spietato irritava i nervi degli abitanti sia il giorno che la notte, e la zona aveva vere e proprie epidemie di suicidio e una sinistra fama di numerosi casi di follia, quasi sempre assassina.

Dopo cena il pastore prese un sacco e rovesciò sul tavolo un mucchio di ghiande. Si mise ad esaminarle con attenzione e si mise a dividerle in mucchi di buone e di guaste. Giono si offrì di aiutarlo, ma il pastore rifiutò e continuò in silenzio a fare i suoi mucchi, dividendoli con una cura maniacale. Quando ebbe solo ghiande buone, le divise in mucchietti da dieci, eliminando ancora quelle più piccole ed imperfette fin quando ottenne cento ghiande perfette e poi andò a dormire.

Il giorno dopo Giono chiese di poter restare ancora un giorno per riposare ma, in realtà, era intrigato e curioso di sapere altro del misterioso pastore. Al mattino presto l’uomo uscì di casa con il suo cane e il gregge e andò al pascolo, seguito da Giono. Giono notò che portava come bastone un’asta di ferro di circa un pollice e lunga un metro e mezzo. Lasciato il suo gregge in custodia al cane, il pastore si spinse ancora più a monte e iniziò a piantare la sua asta di ferro nel terreno, facendo dei buchi in cui iniziò a depositare le ghiande e continuò così a piantare quercie finchè non ebbe finito tutte le ghiande.

Allora Giono gli chiese se quella terra fosse la sua e l’uomo rispose di no. Quindi Giono chiese se ne conoscesse il padrone, ma ancora un no fu la risposta. Riteneva che fosse una terra dello stato? Il pastore disse che non ne sapeva nulla e non si curava di saperlo. Piantò le sue ghiande con grande cura e, dopo il pranzo, ripetè la selezione di ghiande, finchè Giono insistette per sapere che cosa facesse. Seppe allora che l’uomo erano tre anni che piantava alberi in solitudine. Ne aveva piantati centomila, ma di centomila ne sarebbero nati solo ventimila. Dei ventimila ne avrebbe certamente persi la metà per colpa degli animali e delle intemperie, ma alla fine ne sarebbero restati diecimila, che nel giro di trenta anni sarebbero divenute diecimila splendide quercie, in un posto in cui prima non c’era nulla.

L’uomo disse di avere 55 anni e di chiamarsi Elzeard Bouffier. Aveva avuto una fattoria, ma era restato solo dopo la morte della moglie e del figlio, perciò si era ritirato in solitudine dove trovava piacere nel vivere con lentezza con la sola compagnia del suo cane e delle pecore. Aveva raggiunto quel paese, e si era convinto che quel posto sarebbe morto per mancanza di alberi e, siccome non aveva occupazioni più importanti, aveva deciso di rimediare a quello stato di cose. Ora stava studiando la riproduzione dei faggi che aveva avviato a piantare in una faggina dietro la casa, protetta da una rete per impedire lo scempio delle pecore, ed erano piante veramente splendide. Aveva anche trovato un posto in cui avrebbe messo delle betulle, perché “una certa umidità dormiva a qualche metro dalla superficie del suolo” ma non escludeva di piantare anche altri tipi di piante.

Il giorno dopo Giono ripartì e fu occupato per 5 anni per la guerra del 1914, ma volle poi tornare a respirare un poco d’aria pura. Allora volle tornare nelle contrade deserte in cui aveva conosciuto Elzeard Bouffier. Il villaggio era sempre abbandonato, ma le quercie erano cresciute molto. Elzeard si era disfatto delle pecore perché danneggiavano gli alberi più giovani ma, in cambio, aveva allestito circa 100 alveari con api operose e aveva continuato imperturbabile a piantare alberi, senza curarsi della guerra. Le quercie del 1910 era alte più di un uomo e si stendevano per 11 chilometri in una grande foresta, frutto del lavoro e dell’anima di quell’uomo infaticabile.

I faggi era stati una buona idea e facevano la loro bella figura in una rigogliosa faggeta. Anche le betulle del 1915 che Elzeard aveva messo in un terreno che aveva ritenuto umido e fecondo, ormai crescevano tenere e decise: il processo di rimboscimento funzionava a meraviglia, ma lui non se ne curava perché non si guardava mai indietro, e continuava la sua opera con animo indomabile. Scendendo verso il villaggio, Giono notò che ora scorrevano dei ruscelli dove prima c’erano stati dei letti disseccati, perché quei torrenti erano già presenti in tempi antichissimi. I tristi villaggi sorgevano su luoghi che erano stati insediamenti gallo-romano e gli archeologi avevano provato che, a quei tempi erano stati pescosissimi, ora stavano rinascendo.

Anche il vento aveva diffuso i semi, e nelle acque erano ricomparsi i salici e i giunchi. Erano rifioriti i prati, i campi e i giardini e gli abitanti che avevano notato gli alberi che ricrescevano, avevano creduto che fossero il prodotto di uno scherzo della natura. Se avessero sospettato di Elzeard Bouffier, lo avrebbero ostacolato, ma Elzeard era insospettabile e poteva continuare indisturbato il suo lavoro. Chi poteva pensare a tanta ostinata generosità umana?

A partire dal 1920 tutti gli anni, Giono tornò a trovare Elzeard, e in un anno gli vide piantare più di diecimila aceri. Morirono tutti. Allora lui si mise a piantare i faggi che avevano una migliore riuscita delle quercie. Tutto questo nella solitudine più assoluta, tanto che alla fine della sua vita arrivò a disimparare a parlare, forse per mancanza di abitudine o forse per mancanza di necessità. Nel 1933 Elzeard ebbe la visita di una guardia forestale che gli vietò di accendere fuochi nella foresta naturale per non mettere a rischio la crescita degli alberi: era la prima volta, spiegò la guardia, che si vedeva una foresta spontanea. E nel 1935 arrivò una delegazione forestale per esaminare la “foresta naturale” e fu deciso di fare qualcosa, ma per fortuna non si fece nulla se non vincolare l’intera zona mettendola sotto la tutela dello stato, e proibendo il taglio degli alberi.

Fu così che la foresta e la felicità di Elzeard Bouffier furono protette. Ma anche il villaggio ed il paese tornarono a vivere, con le casette perfettamente ristrutturate e circondate da campi e giardini fiorenti. Le ortiche non divoravano più le pietre diroccate e anche il vento non sferzava più il pianoro, ma scorreva e sussurrava come una brezza leggera. Ora mormorava perché era il vento della foresta, gentile e odoroso scorreva tra le case intonacate di fresco e gli orti dove crescevano verdure e fiori, cavoli e rose, porri e bocche di leone, sedani e anemoni. Quel posto era divenuto un posto dove si aveva voglia di abitare. Conclude Giono: “Ma, se metto in conto quanto c’è voluto di costanza nella grandezza d’animo e d’accanimento nella generosità per ottenere questo risultato, l’anima mi si riempie d’un enorme rispetto per quel vecchio contadino senza cultura che ha saputo portare a buon fine un’opera degna di Dio.”
Buona erranza
Sharatan

martedì 22 settembre 2009

Gli sciamani tuvani contro la ferrovia


Leggo sui giornali che gli sciamani tuvani sono scesi in guerra contro la ferrovia, perché nella repubblica di Tuva della Siberia meridionale, appena a nord della Mongolia, il governo sovietico ha previsto la costruzione della grande linea ferroviaria Kuragino-Kyzyl di 415 chilometri, progettata da alcuni anni per collegare la capitale (Kyzyl) con la vicina regione di Krasnoyarsk. Il problema è che la ferrovia passerebbe presso Arzhaan, un’antica necropoli di inestimabile valore archeologico. E’ qui infatti che dal 7. sec. a. C. sono seppellite generazioni di Sciti, popolazioni di origine mongolica e antenati dei tuvani, una delle prime popolazioni nomadiche dell’Eurasia. Il luogo detto “Valle dei Re”, è conosciuto dagli archeologi fin dal 1916, quando il ricercatore siberiano, A.V. Adrianov, cominciò gli scavi.

Gli scavi portarono alla luce una colossale struttura sotterranea lunga circa 120 metri e profonda quattro, e nelle camere mortuarie furono scoperti gioielli e ornamenti di straordinaria raffinatezza e bellezza. Già negli anni ‘70, i lavori di costruzione di una strada danneggiarono alcune tombe e nel 2001, un’altra necropoli simile venne scoperta da una spedizione inviata dall’Ermitage, e ribattezzata con il nome di Arzhaan 2. Oggi non pochi tuvani temono che il passaggio di un treno possa rompere l’armonia storico-culturale di cui la popolazione si sente custode.

Tra le popolazioni delle steppe, costituite da tribù nomadi, vi erano i Sarmati e i Sauromati dalle origini misteriose, che - fin dal 7. secolo a.C. - vengono attestati nell’area tra il basso Volga e il fiume Don. Alcuni archeologi russi avevano definito questi popoli come delle tribù a dominazione femminile, per la numerosa presenza di scheletri femminili di sacerdotesse e guerriere, ma il concetto prevalente era di attribuire le sepolture con armi e oggetti rituali, a personaggi maschili.

Erodoto affermava che i Sauromati discendevano dalle Amazzoni della Cappadocia (Turchia), che si erano accoppiate con gli Sciti. Come afferma la leggenda più famosa, le Amazzoni furono catturate in battaglia dai Greci e caricate come prigioniere a bordo di tre navi che salparono sul Mar Nero. Le donne si ammutinarono e uccisero quelli che le avevano catturate. Ma non sapendo navigare, furono trasportate dai venti sulle rive del lago di Meotis (il mare di Azov) in una località chiamata “ le Scogliere” cioè il paese degli Sciti. Appena sbarcate, catturarono dei cavalli e saccheggiarono il territorio. Gli Sciti non riconobbero le attaccanti e le combatterono fino a quando, visti i loro corpi, si resero conto che stavano lottavano contro delle donne.

A quel punto elaborarono una stratagemma per incontrarle e accoppiarsi con loro “perché volevano avere dei figli da queste donne”. I giovani uomini si accamparono vicino alle Amazzoni e quando le donne videro che gli uomini non erano pericolosi, lasciarono che restassero lì vicino dove “iniziarono a condurre lo stesso tipo di vita delle donne, cacciando e depredando”. A mezzogiorno, le donne si “riposavano” da sole o in coppia e gli Sciti fecero altrettanto. Uno dei giovani si avvicinò a una delle donne che si erano allontanate e, secondo Erodoto “l’Amazzone non lo respinse, ma lasciò che lui facesse con lei quello che voleva”. Sebbene non parlassero lo stesso linguaggio, l’Amazzone fece capire a segni al giovane che sarebbe potuto tornare il giorno successivo con un amico e che lei avrebbe fatto altrettanto. Siccome la cosa funzionò, tutti i giovani sciti vennero a incontrare le Amazzoni e “poterono godere” anche delle altre.

Secondo Erodoto, le donne dissero agli uomini che non potevano vivere con loro alla maniera degli Sciti, “perché noi e loro non abbiamo gli stessi usi. Noi tiriamo le frecce e il giavellotto e cavalchiamo i cavalli, ma per quel che riguarda “i compiti delle donne” non ne sappiamo nulla. Le vostre donne non fanno nessuna delle cose che abbiamo detto. Stanno nei loro carri e fanno “lavori da donne” e non vanno mai a cacciare o cose simili. Non potremmo andare d’accordo con donne così”. Insistettero che se volevano avere loro come compagne e nello stesso tempo essere uomini onorevoli, allora dovevano andare dai loro genitori, prendere le quote spettanti delle proprietà, ritornare indietro e vivere con le Amazzoni.

I giovani sciti accettarono e insieme si misero in viaggio verso il paese dove, al tempo in cui Erodoto scriveva di loro, vivevano i Sauromati. Egli descrive come le “donne dei Sauromati” seguissero il loro antico stile di vita, cavalcando, “cacciando con e senza i loro uomini”, partecipando alla guerra e indossando gli stessi abiti degli uomini. In seguito egli narra che il linguaggio sauromata si distinse da quello degli Sciti “poiché le Amazzoni non riuscirono mai a impararlo bene” e che nessuna ragazza poteva sposarsi se prima non aveva ucciso un uomo fra i nemici. “Alcune di loro morirono in tarda età senza prima sposarsi, perché non poterono adempiere a questa legge.”

Tutte le tribù dell’Età del Ferro come i Sauro-Sarmati, gli Sciti e i Saka, sono completamente privi di fonti scritte per cui sono studiati solo analizzando le loro città dei morti, studiando gli arredi funerari e l’aspetto del kurgan (tumulo funebre). Le fonti classiche greche, persiane e romane riguardo a queste popolazioni, vi testimoniano la presa di potere da parte di donne vedove di capi nomadi uccisi, che prendevano il posto del marito fino alle nuove elezioni. Erodoto narra di Tomyris, una guerriera della tribù dei Saka Massageti, che guidò la sua gente contro il re persiano Ciro il Grande nel 530 a.C., ed il medico e storico greco Ctesia testimonia le imprese di Zarina, un’altra regina dei Saka amatissima dal suo popolo, che in suo onore eressero un enorme kurgan funebre coronato da una statua d’oro.

Molti antichi popoli della steppa ebbero delle donne di potere, e gli stessi guerrieri sciti erano soliti giurare fedeltà alla tribù davanti al focolare del re, tradizionale dominio femminile, come pure era abituale che i capi sauro-sarmati e sciti includessero le donne nella cerchia dei più fidati consiglieri; poichè le donne sarmate godevano di posizioni così elevate, le altre tribù le chiamavano “governate dalle donne” e l’antropologo Anatoly Khazanov specializzato nello studio delle popolazioni nomadi dell’Età del Ferro, ha affermato (1994) che esistono molte prove che tali culture fossero matrilineari.

Alcuni scavi compiuti negli anni ’50 e ’60 del Novecento dall’archeologo Sergei Rudenko, nella zona dei monti Altai in Siberia, avevano riportato alla luce 5 grandi kurgans con un’arte aurea sontuosa e raffinatissima detta “scito-siberiana.” Nei kurgans erano sepolte donne riccamente adornate, ma Rudenko le aveva ritenute mogli di sovrani, sepolte a scopo sacrificale.

Tra il 1992 e il 1995, Jeannine Davis-Kimball, direttrice del Centro di Studi delle Civiltà Nomade Euroasiatiche dell’Università di Berkley in California, scava un sito Neolitico di kurgans (tumuli sepolcrali) nei pressi di Pokrovka, al confine della Russia con il Kazakistan. Mentre la Davis-Kimball studia i ritrovamenti delle kurgans, si convince che le donne di queste tribù nomadi, che combattevano con coraggio a cavallo, che divinavano il futuro in specchi di bronzo e tiravano d’arco con maestria, godessero di grande prestigio nelle loro società, perciò venivano sepolte con ricchi manufatti al centro del kurgan, nel posto d’onore delle tombe, “prestando ulteriore credito alle congetture che quelle sauro-sarmate potrebbero essere state società matriarcali”. Gli archeologi maschi che hanno scavato per anni delle sepolture militari di caste alte, le hanno descritte come maschili ma in effetti, scrive Jeannine Davis-Kimball, esse sono spesso femminili, e sono tombe di donne di potere, di guerriere-sciamane.

Afferma Vicki Noble, che nelle società matriarcali le donne erano libere di scegliersi gli amanti, e i bambini nati dalle loro unioni appartenevano alla madre e ne prendevano il nome. Il matrimonio, inteso come strategia di controllo sulla proprietà privata che si tramanda per linea maschile, era impossibile perché il padre del bambino era sempre incerto mentre solo la maternità era sicura. Fin dagli anni ‘60, il russo K.F. Smirnov aveva scavato altri siti sepolcrali sauro-sarmati, nella regione meridionale del Volga, ed aveva attribuito nel 1982, alle donne di quelle sepolture, un ruolo predominante che faceva presumere fossero le donne sauro-sarmate, le “amazzoni” di cui parlano gli autori classici greci.

Nel 1974 l’archeologa lituana Marija Gimbutas aveva pubblicato “Le Dee e gli Dei dell’Europa Antica” in cui espose la sua teoria: “L’Europa antica è stata abitata da una cultura che fu matrilocale (consuetudine per cui le coppie sposate vivono con il gruppo della madre della sposa) e, probabilmente, matrilineare (vale a dire, in cui discendenza ed eredità si tramandano per via materna), agricola e sedentaria, egualitaria e pacifica”. Questa forma sociale di paradiso terrestre fu completamente distrutta intorno al 4.000 a.C. da nomadi Indoeuropei violenti, chiamati dalla Gimbutas “popolo dei kurgans” per analogia con i tumuli sepolcrali, che è tutto ciò che rimane di loro.

Ironicamente, questi kurgans appartenevano alla stessa cultura delle donne guerriere di Davis-Kimball benché Gimbutas vedesse una presa di potere di villani patriarcali nella violenta invasione dei kurgans infatti, nel cuore del sistema degli invasori si riconosceva il valore più grande nel potere di togliere la vita piuttosto che in quello di darla. Questo fu il simbolismo della Spada “maschile” illustrato nelle incisioni trovate nelle prime caverne kurgan che mostrano come questi invasori Indoeuropei venissero letteralmente venerati poiché, nella loro società di dominio controllata da dei e da uomini della guerra, questo era il potere supremo.

Per molti studiosi, gli scavi delle donne guerriere di Pokrovka sono la negazione delle teorie di Gimbutas, mettendo per sempre a tacere la sua teoria dei maschi saccheggiatori. “Abbiamo questo mito circa i così detti nomadi kurgan, che fossero stati dei gerarchici guerrafondai e così via - dice Claudia Chang, un’archeologa del Sweet Briar College che lavora nelle sepolture kurgan nell’Asia Centrale - Di fatto, come dimostrano questi recenti scavi, il loro sistema di consanguineità ha spesso favorito le donne e gli consentiva l’ingresso nell’elite sociale e militare”.

I tumoli sepolcrali di Pokrovka sono datati dal 500 a.C. al 200 a.d., perciò sono approssimativamente contemporenei alla cultura greca e maschilista di Atene. Il patriarcato greco era il risultato dell’ossessione per la purezza della razza e del controllo delle ricchezze della città nelle mani dei suoi cittadini, perciò i greci erano ossessionati dalla stirpe patrilineare, e per controllarla dovettero controllare direttamente le donne, dovevano sapere chi erano i padri dei loro figli, perciò le trattavano come prigioniere. Questo è stato il modello con cui si è sviluppata la nostra cultura.

Il quadro sociale che viene dedotto dagli scavi di Davis-Kimball nei kurgan di Pokrovka dove vigeva una società in cui donne e uomini avevano stesso potere militare e sociale, cioè l’esistenza simultanea di guerriere scito-sarmate nomadi e di schiave spose ateniesi, suggerisce invece che 2500 anni fa, i rapporti tra i sessi erano molto diversi da una popolazione all’altra, e che non tutte le donne erano prigioniere. Tutte queste notizie sono state ricavate dagli scavi archeologici che riguardano un’area di interesse eccezionale e che riguarda anche i territori di cui stiamo parlando.

Nel territorio tuvano restano ormai solo 300.000 abitanti, discendenti di una cultura nomadica millenaria che crede nello sciamanesimo e nel buddismo tibetano. Essi sono i sopravvissuti del secolo 20., che è stato segnato da un violento attacco del regime sovietico che ha cercato di “civilizzarli” in ogni modo.

Pur avendo chiesto l’indipendenza dopo il crollo dell’URSS, i tuvani non riescono ad ottenerla, ma non si arrendono allo sviluppo e alla globalizzazione, a differenza di molte altre zone dell’ex impero, perché i tuvani sono sempre stati gelosi della propria storia e cultura. Ancora oggi non hanno aeroporti e ferrovie, nonostante le ricchezze del sottosuolo come oro, cobalto e carbone, potrebbero portare più benessere e sviluppo a questa terra e ai suoi abitanti. Hanno paura che la loro terra venga deturpata in maniera irreversibile, e che la linea ferroviaria sia l’inizio della fine.

Buona erranza
Sharatan

sabato 19 settembre 2009

Nella cappa del cuore



“Quello che vedi non esiste
e per quello che esiste, tu non hai parole”
(Kabir)


Kabir (1440-1518) non è tra le figure più conosciute del misticismo orientale ed è un peccato, perché i suoi versi sono una pietra miliare della poesia indiana. Kabir è il padre della letteratura indi, ma è anche un grande santo e mistico che sia per il pensiero che per le sue vicende biografiche è degno della massima notorietà ed ammirazione. La sua vita è particolare e sulla sua nascita possediamo due diverse versioni, una musulmana e una brāhmaṇa.

Secondo la fonte islamica, un giorno il tessitore musulmano Nuri e sua moglie Nima tornando da un banchetto di nozze, videro in un laghetto vicino a Benares, un bellissimo fiore di loto su cui era dormiente un bimbo appena nato. L’uomo prese in braccio il bimbo, che si destò sorridendo amabilmente e gli domandò con grazia, quale fosse la via più breve per Benares. L’uomo terrorizzato dal neonato parlante pensò di essersi imbattuto in una entità diabolica, perciò posò il neonato a terra e si diede velocemente alla fuga correndo per un buon miglio.

Ma quando lo stremato Nuri si fermò per riprendere fiato, si accorse che il bimbo era seduto davanti a lui e lo guardava con infinita dolcezza. Fissandolo nei suoi occhi splendenti, Nuri si convinse di avere incontrato un bambino prodigioso, per cui lo adottò chiamandolo Kabir (Il Bene informato, il Molto istruito, Colui che conosce le cose per il loro vero essere) e lo amò ancor più di un figlio.

Secondo la fonte brāhmaṇa, che troviamo nella Bhakta Mala la vita dei senti induisti, a Benares viveva un sant’uomo seguace di Ramananda che aveva una figlia vergine, vedova di un brāhmaṇo. Essendo il maestro Ramananda giunto in visita a Benares, la fanciulla chiese al padre di poter incontrare il grande guru. Quando fu giunta davanti al maestro, egli la benedì augurandole la nascita di un bimbo dotato di mille virtù, trascurandone la condizione di vedova vergine di un sommo sacerdote della tradizione vedica.

Siccome gli antichi induisti credevano all’irrevocabilità sia delle benedizioni, come pure delle maledizioni dei grandi taumaturghi, inutile fu la disperazione della fanciulla che pianse e pregò che l'augurio fosse revocato, ma neppure Ramananda potè annullare le conseguenze della sua benedizione. Così il bimbo nacque e la madre dovette abbandonarlo, perciò il piccolo Kabir fu adottato da due umili tessitori musulmani che lo educarono alla loro religione.

Questa versione viene accettata dai seguaci brāhmaṇi che venerano Kabir come avatar di Vishnu. Come Krishna, che è sempre rincarnazione dello stesso dio e figlio della vergine principessa Devaki, dissero che Kabir era figlio di una vergine brāhmaṇa e quindi nato in una casta superiore.

Molte religioni ammettono la nascita da origine superiore, anche la nostra, ma per noi il concetto di sublime è collegato alla nascita umile di un Figlio di Dio mentre nell’induismo una divinità incarnata non può che essere di casta superiore ed elevata.

Kabir trascorse la sua infanzia nella casa dei laboriosi tessitori musulmani, finchè a Benares ritornò il maestro Ramananda, che girava predicando una dottrina di dolcezza contrapposta al rigido monismo vedico che soggiogava l’anima dei fedeli. Ramananda predicava la fratellanza, la pietà, la rettitudine, e soprattutto l’unione di tutte le dottrine religiose. La sua parola sembrava placare le aspre dispute che avvenivano tra i Sufi e i Brāhmiṇi, perciò tutti accorrevano a lui per essere illuminati.

Kabir capì che quello era il vero maestro che gli era destinato, ma il suo essere musulmano gli impediva di poter divenire discepolo di un guru induista, così decise di ricorrere ad uno stratagemma. Sapendo che Ramananda andava all’alba sulle rive del Gange, Kabir si nascose sulla scalinata che il maestro usava per scendere sulle sponde del fiume sacro, e aspettò pazientemente che egli giungesse.

Ramananda arrivò e scese la scalinata per bagnarsi nel sacro fiume, ma lungo la discesa, nella penombra del mattino, andò a urtare il corpo disteso di Kabir ed esclamò: ”Rāma! Rāma!” che è il nome di un’altra incarnazione del dio Vishnu che lui adorava. Immediatamente Kabir si gettò ai suoi piedi con le mani giunte e disse: “Oh maestro, tu mi hai dato il mantra Rāma e mi hai fatto diventare il tuo discepolo malgrado io fossi soltanto un umile tessitore musulmano.”

Disse questo perchè nella tradizione induista il guru nomina il discepolo con la consegna di un mantra su cui deditare, quindi Kabir forzò la sua iniziazione, ma il grande Ramananda pur avendo compreso lo stratagemma del giovane, fu commosso dal suo ardore e dalla sua devozione e lo accettò come discepolo.

Il mantra Rāma ricevuto da Kabir, simboleggia un suono mistico e potente, che nasce dall’ombelico, sale fino alla lingua e su essa danza. La dichiarazione dei Veda: Tat tvam asi, cioè “Tu sei Quello” è racchiusa nella parola Râma, la quale consiste di tre suoni: ra, ā e ma; di questi “ra” è il simbolo di tat (Quello, Brahman, Dio) “ma” è il simbolo di tvam (il tu, il jîvi, l’individuo) e la “ā” che unisce i due è il simbolo della loro identità, della loro sublime sintesi.

Rāma è come l’ape che sugge il miele della devozione dal Loto del cuore, egli è come il sole ed è l’incarnazione del Dharma. Il mantra “Rāma- Rāma-Rāma” è uno dei più potenti, semplici ed efficaci della religione induista e fu lo stesso usato da Gandhi, che lo ripeteva perchè questo “mantra diventa il sostegno della propria vita e fa superare ogni prova”.

Kabir divenne l’emblema dell’uomo che Ramananda sognava si realizzasse, dell’ideale che aveva predicato tutta la vita, infatti Kabir che fu insieme brāhmaṇo e sufi, lottò sempre per unire queste due religioni. Pur continuando a condurre la sua vita di tessitore di tappeti, Kabir albergò nel suo cuore la piena fratellanza con i mistici sufi come Jalaluddin Rumi, mentre nella vita sociale si comportò sempre come un adepto della setta vaishnava che predica la filosofia della non violenza e della assoluta tolleranza.

Sappiamo che visse di una vita laboriosa ed amorevole, che ebbe in moglie una donna con la quale adottò due fratellini orfani, e che amò teneramente la sua famiglia, fu poeta e musicista, fu grande maestro spirituale ed insegnò sia a discepoli islamici che brāhmaṇici. Mentre tesseva i suoi tappeti, Kabir cantava le sue strofe e allietava l'animo di coloro che giungevano per assorbire la sua Luce: tutti lo venerarono per la sua impeccabile probità, per il sincero misticismo e per la purezza del suo animo.

Kabir è anche il primo poeta indiano di lingua musulmana ed è il padre della letteratura indi che è la lingua nazionale dell’India.Seppure abbia scritto in lingua indi, che è la lingua del popolo, comunque ci lascia una poesia mistica di una musicalità unica, volontariamente rivestita di un umile linguaggio popolano contrapposto all'aristocratico sanscrito, che era il linguaggio delle caste superiori e l’unico ritenuto degno di esprimere la meditazione filosofica elevata.

Ma il sanscrito, diceva il grande poeta, è come l’acqua di un pozzo mentre la lingua del popolo è come un ruscello che scorre, perciò quest'ultimo è il più adatto per una “danza continua senza mani, e senza piedi” che “viene suonata senza le dita e udita senza le orecchie.”

Con questo Kabir provò una rivoluzionaria sintesi di pensiero e cultura, pari a quella che Gandhi avrebbe fatto nel secolo 20., solo che anticipò la mossa di 550 anni. Non stupisce che fosse costretto a spostarsi dalla nativa Benares a Magahar, dove finì i suoi giorni perchè, seppure inebriato da Dio apparteneva pur sempre ad una casta umile, perchè si permetteva di avere una mentalità iconoclasta ed avversa ad ogni ritualismo e superstizione, e perchè era un pensatore libero e appassionato.

Kabir condannava nell’induismo, la vuota idolatria, il filo sacro simbolo un ideale che non a tutti è dato realizzare mentre lui lottava per affermare una salvezza accessibile a tutti. Kabir si opponeva alla divisione in caste e si ribellava alle oppressioni e alle limitazioni religiose dogmatiche. Di contro accettava la concezione induista di reincarnazione e la legge del Karma, ma comunque era un pensatore troppo irregolare ed incontrollabile perché una mediazione fosse possibile.

Non stupisce che Kabir venga oggi considerato un vaishnava per gli induisti, un sukhi dai musulmani, ed un precursore e interlocutore privilegiato di Nanak dai sikh, ma resta certo che in vita fu odiato e perseguitato dalla mentalità ortodossa sia induista che islamica. Del pensiero islamico accoglieva l’idea di monoteismo (proclamato anche nelle Upanishad) e condannava invece la circoncisione e le ripetizioni meccaniche delle preghiere nelle moschee. Sia Rāma che Allah sono la stessa entità, affermava, sono dei nomi che raffiguravano lo stesso Essere Supremo universale che governa il creato.

E’ perciò fatale che venisse odiato perché la sua religiosità era troppo superiore ed elevata, e fuori dalla portata dei suoi tempi, quindi ostica ed ostile per la mente dei suoi contemporanei. Naturale che fosse costretto ad emigrare a Magahar, dove morì ormai vecchio e “così debole che le sue mani non gli permettevano di dedicarsi alla musica che amava tanto.”

L’opera poetica di Kabir ha esercitato un’enorme influenza sul pensiero di Guru Nanak (1469-1538) il fondatore del movimento sikh. Il credo del sikhismo si basa sulla evoluzione della coscienza e sull’eliminazione dell’Ego che ci schiavizza tramite la lussuria, l’ira, l’avidità, l’attaccamento agli amori materiali e l’orgoglio che è il sommo rappresentante dell’Ego.

Per i sikh, l’essere condizionati dal proprio Ego costituisce la più grande malattia umana, e vanno eliminate ogni tipo di barriere che opprimono l'individuo perciò, nel pensiero di Guru Nanak che è assai avanzato, la donna non viene oppressa ma gode di piena eguaglianza sociale e di piena libertà religiosa. Essa non è ritenuta una cosa sporca perchè la tentazione incarnata, ma viene considerata “la coscienza dell’uomo.”

Kabir morì serenamente ormai vecchio e molto amato, e che anche la sua morte ha una leggenda. Si racconta che, morto il grande Maestro, i suoi discepoli iniziarono a litigare per le sue spoglie mortali perché i musulmani volevano seppellirlo, mentre gli induisti volevano cremarlo: così continuavano a litigare di fronte al feretro, senza arrivare ad un pacifico accordo.

Nel corso della disputa, tra i litiganti apparve lo stesso Kabir che invitò tutti a smettere la discussione e ordinò di guardare il suo corpo mortale, quindi scomparve. Quando i discepoli andarono a sollevare il lenzuolo funerario, per fare come gli era stato detto, sotto non trovarono altro che un enorme mazzo di fiori. Una metà di quei fiori fu dunque presa dai musulmani che la seppellirono a Magahar, mentre l’altra fu presa dai seguaci brāhmaṇi che la bruciarono a Benares, e ne dispersero le ceneri nel sacro Gange.

Kabir ignorava le ragnatele dei credo e dei dogmi, ed era certamente meno condizionato dal pensiero vedanta di quanto non lo fosse il suo maestro Ramananda,avendo avuta una formazione di tipo eclettico ma in lui, la ricerca del Gioiello del Signore dell’Universo, che è nascosto nel cuore dell’uomo, viene indicata con parole talmente belle da stregare il cuore dei devoti da centinaia di anni.

Se conosciamo le poesie di Kabir in occidente dobbiamo rendere grazie al grande poeta Rabindranath Tagore anche lui mistico e poeta, ed assonante a Kabir in tanti altri aspetti. La poesia di Kabir indica il modo con cui ricercare il Gioiello ma, soprattutto ci indica il luogo dove si nasconde, cioè dentro noi stessi. Egli usa uno stile ed una tecnica assai semplici, ma la sua poesia ci appare assoluta:

“Il gioiello si è perso nel fango ed ognuno lo cerca.
Qualcuno si volge ad Est, altri verso Ovest,
qualcuno lo cerca nell’acqua, altri fra le pietre,
ma l’umile Kabir ha compreso il suo vero valore
e lo conserva avvolto nella cappa del suo cuore.”

Buona erranza
Sharatan


martedì 15 settembre 2009

La terapia chiamata compassione


Sì, solo la compassione è terapeutica, perché tutto ciò che è malato nell’uomo nasce dalla mancanza d’amore. Tutto ciò che non va nell’uomo è in qualche maniera collegato con l’amore: o non è stato capace d'amare oppure non è stato capace di ricevere amore. Non è riuscito a condividere il suo essere. Da qui la sofferenza che crea complessi d'ogni genere.

Queste ferite interne possono venire a galla in molti modi: possono diventare disturbi fisici o malattie mentali – ma, di base, ciò di cui l’uomo soffre è la mancanza d’amore. Proprio come il cibo è necessario per il corpo, l’amore lo è per l’anima. Il corpo non può vivere senza nutrimento e l’anima non può vivere senza amore. In realtà, senza amore l’anima non nasce nemmeno – non arrivi nemmeno al punto di pensare alla sopravvivenza.

Tu credi di avere un’anima perché hai paura della morte. In realtà, se non hai amato, non hai mai conosciuto la tua anima. Solo nell’amore arrivi a comprendere che sei più del corpo, più della mente.

Ecco perché sostengo che la compassione è terapeutica. Ma che cos’è la compassione? È la forma più pura d’amore. Il sesso è la forma più bassa dell’amore, la compassione la più alta. Nel sesso il contatto è soprattutto fisico, nella compassione è soprattutto spirituale. Nell’amore, sesso e compassione sono mescolati, fisico e spirituale sono mescolati. L’amore è a metà strada tra il sesso e la compassione.

Puoi anche chiamare la compassione preghiera, oppure meditazione. È in ogni caso la forma più alta dell’energia. La parola compassione è molto bella: comprende in sé passione — la passione dev’essere raffinata al punto da non essere più passione ma diventare compassione.

Nel sesso, usi l’altro, lo riduci a un mezzo, a un oggetto. Ecco perché nella relazione sessuale ti senti in colpa. Questo senso di colpa non ha nulla a che fare con gli insegnamenti religiosi; va molto più in profondità di questo. In una relazione puramente sessuale ti senti in colpa perché stai riducendo la persona a oggetto, a un qualcosa che puoi usare e poi gettare via.

Ecco perché nel sesso percepisci una sorta di schiavitù; anche tu sei stato ridotto a una cosa. E quando sei una cosa, non sei più libero, perché la libertà esiste solo per una persona. Più sei una persona, e più sei libero; più sei un oggetto e meno sei libero. I mobili della tua stanza non sono liberi. Se chiudi a chiave la stanza e torni solo dopo molti anni, i mobili saranno ancora allo stesso posto, non si saranno spostati; non hanno alcuna libertà. Ma se lasci una persona nella stanza, non la ritroverai uguale – nemmeno il giorno dopo o persino un istante dopo. Non puoi rincontrare la stessa persona.

Eraclito diceva anticamente: non puoi bagnarti due volte nello stesso fiume. Non puoi imbatterti due volte nello stesso uomo, è impossibile, perché l’uomo è un fiume, che fluisce continuamente. Non sai mai cosa potrà accadere; il futuro resta aperto. Per un oggetto, il futuro è prefissato. Un sasso rimarrà un sasso, per sempre. Non ha alcuna potenzialità di crescita, non può cambiare, non può evolversi. Una persona non rimane mai la stessa. Può tornare indietro o andare avanti; può andare all’inferno o in paradiso, ma non sarà mai lo stesso. Continua a muoversi, in una direzione o nell’altra.

Quando hai una relazione sessuale con qualcuno, lo riduci a un oggetto. E, nel far questo, riduci anche te stesso a un oggetto; è un compromesso reciproco: “Io ti permetto di ridurmi a una cosa e tu permetti a me di ridurti a una cosa. Io ti permetto di usarmi e tu mi permetti di usare te. Ci usiamo a vicenda; siamo entrambi diventati oggetti”.

Osserva due amanti: quando ancora la situazione non è stabile, quando il romanticismo è ancora vivo e la luna di miele non è finita, vedrai due persone vibranti di vita, pronte a esplorare l’ignoto. Poi osserva una coppia sposata, marito e moglie, e vedrai due cose morte, due cimiteri, fianco a fianco – che si aiutano a rimanere morti, che si costringono a vicenda a rimanere morti. Questo è il conflitto costante del matrimonio: nessuno vuole essere ridotto a un oggetto.

Il sesso è la forma più bassa dell’energia “X.” Se sei religioso, la chiami “Dio”; se sei scientifico, la chiami semplicemente “X.” Quest’energia, X, può diventare amore. Quando diventa amore, inizi a rispettare l’altra persona. Certo, a volte la usi, ma le sei riconoscente per questo. A un oggetto non dici mai grazie. Quando ami una donna e fai l’amore con lei, la ringrazi.

Ma quando fai l’amore con tua moglie, le dici mai grazie? No, lo dai per scontato. E tua moglie ti dice mai grazie? Magari tanti anni fa, quando vi facevate la corte, cercavate di sedurvi a vicenda – forse allora l’avete fatto. Ma una volta che la situazione è diventata stabile, ti ha mai ringraziato? Tu hai fatto tante cose per lei, lei ne ha fatte tante per te, vivete l’uno per l’altro, ma la gratitudine è scomparsa.

Nell’amore c’è gratitudine, una riconoscenza profonda. Sai che l’altro non è una cosa, sai che possiede una sua grandezza, una personalità, un’anima, una sua individualità. Nell’amore dai totale libertà all’altro. Certo, dai e prendi; è una relazione di dare e ricevere, ma sempre con rispetto.

Nel sesso è una relazione di dare e ricevere, ma senza rispetto. Nella compassione, dai solamente; nella tua mente non hai l'idea di ricevere qualcosa in cambio - condividi. Non che non ti arrivi nulla in cambio! Ricevi milioni di volte ciò che hai dato, ma solo come effetto collaterale, come conseguenza naturale. Non è una cosa che desideri e che insegui.

Nell’amore, se dai qualcosa, nel profondo ti aspetti anche che ti venga reso qualcosa. Se non accade, ti lamenti. Puoi anche non esprimerlo a parole, ma si potrà capire da mille dettagli che stai brontolando, che senti di essere stato imbrogliato. L’amore sembra essere una sottile contrattazione.

Nella compassione dai solamente; nell’amore sei grato perché l’altro ti ha dato qualcosa. Nella compassione, sei grato che l’altro abbia accettato qualcosa da te; sei grato perché l’altro non ti ha rifiutato. Eri venuto con dell’energia da dare, con tanti fiori da condividere, e l’altro te l’ha permesso, è stato ricettivo. Sei grato perché l’altro è stato ricettivo.

La compassione è la forma più alta dell’amore. Riceverai in cambio moltissimo – ti dico, milioni di volte quello che hai dato – ma non è quello il punto, non sei lì ad aspettare. Se non ricevi nulla, non ti lamenti. Se ricevi, ne rimani sorpreso! Se arriva qualcosa, è un fatto quasi incredibile. Se non ricevi nulla, non è un problema – non avevi dato il tuo cuore a qualcuno con l’idea di fare un baratto. Elargisci ciò che hai perché ce l’hai, perché possiedi così tanto che se non ne dai un po’ ti sentirai oppresso, proprio come una nuvola carica d’acqua deve esprimersi nella pioggia. La prossima volta, quando una nuvola ha distribuito la sua pioggia e la terra l’ha assorbita, osserva in silenzio, e sentirai la nuvola che dice alla terra: “Grazie”. La terra l’ha aiutata a scaricarsi del suo fardello.

Quando un fiore sboccia, deve condividere la sua fragranza con i venti. È naturale! Non è una contrattazione, un affare; è naturale! Il fiore è colmo di fragranza, cosa può farne? Se tenesse per sé tutto il suo profumo si sentirebbe molto teso e angosciato. L’angoscia più grande nella vita è quella di non riuscire a comunicare, a condividere. L’uomo più povero è colui che non ha nulla da condividere, o che, pur avendo qualcosa, ha perso la capacità, l’arte di condividerla – allora è veramente povero.

L’uomo sessuale è veramente povero; al confronto l’uomo che ama è più ricco. L’uomo di compassione è il più ricco di tutti: è in cima al mondo. Non ha né confini, né limiti. Dà, e poi va per la sua strada. Non aspetta neppure che tu gli dica grazie; condivide la sua energia con grandissimo amore. Questo è ciò che chiamo terapeutico.

Buddha diceva ai suoi discepoli: “Dopo ogni meditazione, sii compassionevole – immediatamente dopo – perché, quando mediti, l’amore cresce e il cuore è colmo. Dopo ogni meditazione, prova compassione per il mondo intero; in questo modo potrai condividere il tuo amore e irradiare quest’energia nell’atmosfera dove potrà essere usata da altri”.

Anch’io vorrei dirvi: dopo ogni meditazione, mentre celebri, prova compassione. Senti che la tua energia sta andando ad aiutare la gente, in qualunque modo ne abbia bisogno. Esprimila! Ti sentirai più leggero, rilassato, molto più calmo e tranquillo, e le vibrazioni che hai espresso saranno di aiuto a molti. Termina la tua meditazione sempre con la compassione.

La compassione è incondizionata. Non puoi avere compassione solo per chi è amichevole con te, o solo per chi è in relazione con te. La compassione, di per sé, è onnicomprensiva. Se non riesci a provare compassione per il tuo vicino, la tua meditazione non ha alcun senso, perché la compassione non ha nulla a che fare con una persona in particolare, ma piuttosto con il tuo stato interiore. Devi diventare tu stesso compassione! Una compassione incondizionata, non indirizzata a qualcuno in particolare. Allora potrai essere una forza di guarigione in questo mondo così tribolato.

Osho

lunedì 14 settembre 2009

Pazza d'amore



È vero, sono pazza d'amore,
e cosa importa
l'accuratezza o la noncuranza?

Chi, anche morendo o vagando nella selva,
può sentirsi diviso
da colui che gli è più caro?

Ciò non mi angoscia; egli è in me,
nemmeno un istante diviso da me,
come io non sono divisa da lui.

Il mio amore lo abbraccia, lo circonda.
Chi vede irrequietezza in me?
La mia mente danza di gioia,
quasi folle, impazzita.

Si suona giorno e notte
tutti i motivi dell'amore,
e tutti li stanno ad ascoltare.

Rahu l'eclisse, Ketu il Capo dei Dragoni
e i nuovi pianeti danzano
e anche la nascita e la morte danzano,
follemente rapiti in estasi.

Danzano così anche la montagna,
la terra e il cielo.

Il Grande Ornamento danza
con risa, lacrime e sorrisi.

Perchè lasci il mondo,
tu con il segno di Tilak sulla fronte?

Mentre la mia mente danza,
attraverso le innumeri fasi della sua luna,
il Re dell'Universo
gradisce questa mia danza

Kabir


sabato 12 settembre 2009

Donne e uomini “pensanti” per rompere il muro del silenzio


Pubblicato nel sito de: “L’Unità” il 12 settembre 2009:

“Donne e uomini “pensanti” per rompere il muro del silenzio

Da snob mi consento diverse cose, ormai è “facile” si è snob nel confidare nella ricchezza culturale piuttosto che in quella anti-culturale, e/o nel nutrire disinteresse per lo “scambio tra corpo e carriera”, e/o nell’esprimersi contro il cinismo. Mi consento di guardare poca Tv orwelliana, sfogliare quotidiani inglesi, indignarmi: è evidente anche a me che le donne (ma non tutte le donne) stiano impiegando ogni risorsa per esibirsi con fare sguaiato, valorizzare un corpo porno–soft (o hard), concepirsi alla stregua di effettivi oggetti sessuali (in quanto oggetti, si vendono e acquistano a “prezzo di mercato”), vivere la propria sessualità in funzione della gratificazione maschile (non di tutti i maschi), agognare denari e successi facili.

Già le donne (ma non tutte le donne) aspirano all’uggiosa omogeneità delle letterine, modelle, troniste, veline e, recentemente, escort. Recentemente? Dai tempi di Eva? Senza trascurare che, banalmente, benché spogliarmi sia un mio diritto (si badi bene: non un mio dovere), rimane vero che vi sono nudità e nudità: alcune belle, pure, non strumentali, altre orribilmente pornografizzate. Il privato si è trasformato in pubblico e il pubblico in privato. C’è privacy e privacy, pubblico e pubblico.

Si promuove la lotta contro la violenza sulle donne, ma si promuovono anche le escort. Il denominatore comune: esternare. Eppure rido con Roberto Begnini a radio Rtl: “Parleremo anche di cose leggere, escort, mignotte e ballerine, tutte cose pubbliche. Non vorrei, Silvio, toccare temi privati come la crisi e la disoccupazione”. Rido perché Begnini è un comico, e non un comico riciclato in un politico, né un politico camuffato da comico (le troppe gaffe di George Bush non mi facevano affatto ridere).

Un riso amaro perché permane il dubbio che tutto questo si connetta (come?) a un vecchio slogan femminista: il privato è politico, è pubblico. Nella nostra presente società, scurrile e volgare, gli interpreti e le interpreti dello slogan ormai eccedono: non vorrei discettare con loro di Kate Millett (chi era costei?), meglio qualche “gossip” sui modelli femminili assoluti della contemporaneità: Victoria Beckhman, Paris Hilton, e via dicendo, quando va bene.

Perché non reagire? Reagire a cosa? Non reagiamo a noi stesse che sbeffeggiamo la democrazia, astenendoci dal votare per la fecondazione assistita, la diagnosi preimpianto, la ricerca sulle cellule staminali embrionali. Non reagiamo quando gli intellettuali tessono le lodi dell’irrazionalità, col risultano che la dicotomia femmina/maschio, donna/uomo (dicotomia sessista) viene a rafforzarsi nell’immaginario collettivo, con i maschi/uomini che permangono nell’essere giudicati non solo animali umani razionali, ma anche attivi e oggettivi, in opposizione a donne che risultano non solo animali non umani (in quanto oggetti sessuali) ma anche irrazionali, emotive, passive, soggettive. Non reagiamo di fronte ai sinonimi di «uomo» e di «donna» che troviamo nella versione 2007 di Microsoft Office Word.

Sinonimi di “uomo”: “essere umano, persona, individuo, genere umano, il prossimo, umanità, gente, maschio, adulto, addetto, operaio, tecnico, giocatore, atleta, soldato, militare, elemento, unità, un tizio, un tale, uno, qualcuno”. Sinonimi di “donna”: “femmina, gentil sesso, bel sesso, sesso debole, signora, signorina, donna di servizio, domestica, cameriera, collaboratrice familiare, colf, governante, dama, regina”. Manca “escort”: peccato!

Il referendum, il fascino dell’irrazionalità, i sinonimi Microsoft appaiono innocui rispetto a “culi, fighe, peni, tette” sbattuti ovunque, oltre che in prima pagina. Apparentemente innocui. Perché se irrazionali, emotive, passive, soggettive, le donne non riescono a nutrire fiducia nelle proprie capacità intellettive, ad aspirare, per merito comprovato, non per “gnoccheria”, a posizioni scientifico-culturali di spicco, ove il corpo non debba venir mercificato.

Per di più, prima di reagire in quanto donne, e non in quanto donne e uomini consapevoli nonché pensanti, occorre sollevare qualche semplice domanda: cosa abbiamo in comune noi donne, oltre il sesso d’appartenenza – sempre che con “sesso” ci si riferisca a qualcosa di univoco?; l’appartenenza a un sesso e/o a un genere è «naturale», nel senso che, se sei femmina (o maschio), donna (o uomo), rimani tale per la tua intera esistenza?

Sostenendo che tutte le donne appartengono al medesimo sesso femminile e tutti gli uomini al medesimo sesso maschile non risultiamo ciechi nei confronti delle tante differenze che sussistono tra le stesse femmine/ donne e tra gli stessi maschi/uomini, rischiando di sottolineare e condizionare indebitamente comportamenti e competenze declinate al “maschile” e al “femminile”?

Perché ingabbiare le nostre individualità, le nostre singole peculiarità? In Italia domina la cosiddetta filosofia della differenza sessuale, su un piano anche socio–politico e religioso: le donne sono essenzialmente simili, e da ciò ne deriva, volente o nolente, che tutte le donne sono (o debbono essere?), più o meno, dolci, empatiche, sensibili; adatte a compiti di cura, e non a quelli dirigenziali, intellettuali, militari, politici, scientifici; umili e deferenti; poco assertive; fisicamente e psichicamente deboli.

E perché non anche necessariamente provocanti, con una nuova ermeneutica inconsapevole del “questo corpo è mio e me lo gestisco io”, o forse solo un’estrosa interpretazione del “my body is my own business”? È l’essenzialismo, non solo gli uomini di potere e le loro escort, a trasmetterci, almeno a livello teorico, la convinzione che ciò che è virtuoso nel femminile è patologico nel maschile, e viceversa.

È virtuoso l’uomo con le rughe, che si circonda di escort, mentre è patologica la donna con le rughe che si circonda di escort; è virtuoso l’uomo duro, patologica la donna dura - fortuna che le realtà ogni tanto smentiscono le fantasie: per esempio, alla fine le rughe di Hillary Clinton hanno prevalso su quelle di John McCain, mentre a capo degli istruttori dell’US Army vi è il sergente maggiore Teresa King.

In verità, apparteniamo in modo fluido al mondo, in quanto donne e uomini in carne e ossa; non possiamo esentarci dalle nostre responsabilità individuali, schermandoci dietro la schematicità delle essenze. Responsabilità che concernono anche la preferenza sessuale: desideri, sogni, fantasie, identità, atti, scelte, riconoscimenti privati e pubblici, non invariabilmente eterosessuali, anzi, nonostante l’imperante eterosessismo e la crescente irragionevole omofobia.

Se il silenzio deve essere violato, non potrà, in fondo, esserlo che da donne e uomini, consapevoli e pensanti. La donna non è che pura apparenza, al pari de l’uomo, uno strumento coercitivo per imporre a singoli individui determinati comportamenti, legittimare determinate pratiche e delegittimarne altre. Ruoli culturali, professionali, sessuali e sociali distinti? Se rispondi in senso negativo, non sei una “vera donna” o un “vero uomo”? La disapprovazione contenuta nel “Tu non sei una vera donna” ci interessa sul serio?

Le “vere” donne ormai (escort o madonne, che siano, nella vecchia classificazione, non affatto desueta) non risultano, forse, donne solo a causa di desideri sessuali, che corrispondono a quelli che la donna deve avere, donne che frequentano certi palazzi e certi uomini? Come reagire? Con una comunicazione, fisico-verbale, ove non sussiste equivalenza tra sessualità e genialità, con una corrispondenza in cui si esplora se stessi/e e l’amato/a in un’eroticità anticonformistica, in cui le donne(almeno alcune) travalicano, anche da tempo, lo stereotipo logorato dell’oggetto da assoggettare, consumare.

Donne e uomini, consapevoli e pensanti, possono relazionarsi tra loro da veri e propri individui, rispettarsi, per evidenziare le molteplici differenze che corrono tra donne, al di là di quelle insulse omogeneizzazioni che le desiderano comunque silenti. Pur ricordando che anche il silenzio è una forma di comunicazione, rompiamo il silenzio, sì, insieme agli uomini pensanti, seguendo la stupenda mente androgina di Virginia Woolf (chi era costei?) nelle Tre ghinee:

“Ci troviamo qui… per porci delle domande. E sono domande molto importanti; e abbiamo pochissimo tempo per trovare la risposta. Le domande che dobbiamo porci… e a cui dobbiamo trovare una risposta in questo momento di transizione sono così importanti da cambiare, forse, la vita di tutti gli uomini e di tutte le donne, per sempre… È nostro dovere, ora, continuare a pensare… Pensare, pensare, dobbiamo... Non dobbiamo mai smettere di pensare: che “civiltà” è questa in cui ci troviamo a vivere?”.

Difficile accusare Virginia Woolf e la sottoscritta di bigottaggine; per quanto mi riguarda, sono solo una vecchia signora posata, di quarantasei anni, che cerca di adempiere al proprio dovere.”

L’articolo porta la firma di Nicla Vassallo, e mi sorge il dubbio di Don Abbondio: Vassallo, Vassallo, chi era costei? Allora indago. Ho scoperto sul suo sito web, che Nicla Vassallo è una filosofa italiana. Ha studiato all’Università di Genova e al King’s College dell’Università di Londra, specializzandosi in epistemologia. Dopo aver conseguito il dottorato di ricerca in Filosofia della Scienza, ha lavorato prima come Research Fellow e poi come Ricercatore. Risale al 2002 la sua idoneità da Professore Associato in Logica e Filosofia della Scienza presso l’Università di Catania e al 2004 la sua idoneità da Professore Ordinario in Filosofia Teoretica presso l’Università di Bergamo.

Dal 2003 al 2008 è stata Visiting Professor nella Facoltà di Psicologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, dove ha tenuto il corso di Epistemologia. Dal 2005 è Professore Ordinario presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Genova dove ha insegnato Propedeutica Filosofia, Filosofia della Conoscenza ed Epistemologia. Attualmente insegna Filosofia Teoretica e fa parte del corpo docente del Dottorato in Filosofia.

E’ stata responsabile in passato di sette progetti di ricerca del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche), membro del Board della SIFA (Società Italiana di Filosofia Analitica), è professore ordinario di filosofia teoretica all’Università di Genova, è Book review editor della rivista “Epistemologia”, membro dell'Advisory Board dell’”European Journal of Analytic Philosophy”, dell’”Institute for Scientific Methodology”, di “L&PS: Logic and Philosophy of Science”, della rivista “Iride: Filosofia e discussione pubblica.”

E’ membro del “Board of Directors” della “Fondazione per la Cultura”, membro dell’”Editorial Board” di “Gender” e di “Iris”, fa parte del Consiglio scientifico del “Festival della scienza”, del “Festival per l'Economia Interculturale”, dell’”Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna”, della rivista “Estetica”, di “Scienza & Filosofia”. Scrive regolarmente su Domenica, il supplemento culturale del Sole 24 Ore. Ha praticato nuoto e giocato a basket a livello agonistico per anni, ed è istruttrice di vela.

Meno male, ora che la inquadro meglio, si dimostra che Nicla Vassallo è “una vecchia signora posata, di quarantasei anni, che cerca di adempiere al proprio dovere” una di quelle donnine tranquille e posate che piacciono a me! Del suo pensiero condivido ogni virgola, solo che lei è più brava a scrivere e ad insegnare come "andare per mare." Io navigo da troppo poco e sono un nocchiero reticente!
Buona erranza
Sharatan


venerdì 11 settembre 2009

Un Moloch senza anima


Mi sento indignata, mi sento indignata per il modo con cui è stata trattata Caster Semenya. L’atleta sudafricana vincitrice dell’oro a Berlino per gli 800 metri, è un ermafrodito, così scrive oggi il quotidiano australiano Sydney Morning Herald, ma la Iaaf ha rifiutato di confermare la notizia: la giovane sudafricana di 18 anni ha organi sessuali maschili e femminili, non ha le ovaie ma dei testicoli interni, che producono quantità di testosterone tre volte maggiore di quello delle donne. L'Iaaf ha già detto che Caster Semenya probabilmente conserverebbe la medaglia d'oro, perchè in questo caso non si tratterebbe di doping, lei “è naturalmente fatta così”.

Subito dopo la gara, Elisa Cusma aveva dichiarato: “Io quella che ha vinto, la sudafricana Semenya, nemmeno la considero, per me non è una donna, e mi dispiace anche per le altre. Test della femminilità? Era già successo con la Jelimo, ma intanto a questa gente fanno vincere medaglie. È inutile giocare con queste cose, e non è giusto.” Semenya ha stravinto correndo in 1'55"45. Argento alla keniota Janet Jepkosgei Busienei con 1'57"90, bronzo alla britannica Jennifer Meadows con 1'57"93. Elisa Cusma è solo sesta con il tempo di 1'58"81. Neppure se la Cusma fosse stata la seconda arrivata, avrei forse giustificato la caduta di stile, ma era la sesta e prima di lei c’erano ben 4 donne, seppure la Semenya fosse “uomo” come lei dice. Insomma la battuta se la doveva evitare perché appare meschina e di cattivo gusto, tanto contro l’atleta erano già state richieste indagini mediche.

Le atlete virilizzate dell’ ex Germania dell’Est erano un’altra cosa, e la federazione sudafricana ha fatto sapere che non avrebbe mai mandato al Mondiale un’atleta senza essere sicura del sesso, ma il caso ormai è aperto. “Capiamo che la gente possa farsi delle domande perché sembra un uomo, la curiosità è umana” aveva ammesso il suo allenatore Semè, che ha raccontato di come una volta, mentre si trovavano in una stazione di servizio a Città del Capo, l'atleta venne fermata da un impiegato del posto mentre si stava dirigendo verso la toilette riservata alle donne. “Forse vuoi che ti mostri il mio sesso?” fu allora la replica della Semenya.

Forse siamo in presenza del “terzo sesso”, di quello che gli esperti definiscono ambiguità di genere, quello che chiamavano pseudoermafroditismo, e che riguarda individui che hanno l'aspetto di donna (o di uomo), ma che da un punto di vista genetico sono una mescolanza di cromosomi X e Y, mentre comunemente la donna ha due cromosomi X e l'uomo un X e un Y.

Nella donna, l'aspetto fisico è in tutto e per tutto femminile, compresi i genitali esterni, ma i cromosomi sono da maschio come nella Sindrome di Morris, altre volte gli organi genitali sono prevalentemente femminili, ma la clitoride, per esempio, assomiglia a un piccolo pene (è la sindrome adrenogenitale e anche in questo caso i cromosomi sono XY), altre volte ancora le caratteristiche sessuali fisiche sono così indefinite da rendere problematica l'assegnazione a un genere. La Sindrome di Morris è una malattia rara, è un difetto di differenziazione sessuale. Oggi si conosce la causa di questa sindrome e si preferisce definirla più correttamente Sindrome da insensibilità agli androgeni.

In genere gli individui portatori di questa sindrome sono longilinei, con un bacino stretto. I peli pubici e ascellari sono diminuiti, la mammella è incompleta. La vagina, se presente, è corta, ma ritenuti nell'addome e, a maggiore rischio di carcinoma sono presenti i testicoli, che possono essere asportati chirurgicamente. Psicologicamente e socialmente, se il soggetto si ritiene ed è ritenuto donna, ai fini legali è da considerarsi di sesso femminile a tutti gli effetti, anche se non può avere figli. Alcuni soggetti risultano particolarmente attraenti, e sono molto richiesti nel mondo della moda e dello spettacolo.

Insomma questa ragazza nasce come la vediamo e noi la vediamo con il fisico di un uomo, perché è vero che lineamenti, voce, fattezze e muscolatura dell'atleta sudafrica sono da uomo. Le foto che la vedono con un abitino nero e con i tacchi a spillo per il magazine sudafricano You, mostrano che non è a suo agio con quei vestiti. Lei ha detto che vorrebbe indossare più spesso vestiti glamour, ma che non ne ha occasione. Ma anche fosse così, che ci sarebbe di male? Chi decide, chi valuta e chi misura come deve essere una persona, soprattutto quando la persona nasce così, soprattutto quando questa persona non è stata costruita da stimolazioni artificiali, non è stata “pompata” con gli steroidi e con gli ormoni?

Si vedrà per la Semenya, ma tanti sono coloro che stanno in mezzo ai due sessi. Nel sito dell'Associazione AISIA, cioè del gruppo di supporto per la sindrome di Morris (o AIS) ho letto delle storie personali incredibili. Non ne sapevo niente prima di leggere della Semenya, ero ignorante. Adesso mi sento meno ignorante e sono contenta di avere conosciuto delle storie umanissime e dolorose, ma anche storie felici. Ci sono storie come quelle di Giulia: “Ero alta, bella, affascinante. Il mio corpo mi permise di fare l’indossatrice. L’unica cosa che mi affliggeva era il seno poco sviluppato. Per il resto, esteriormente, madre natura non mi aveva fatto mancare niente.

A venti anni, conosciuto l’amore della mia vita, mi sono sposata. A mio marito ho spiegato il mio stato, che forse non avrei potuto avere figli, ma a lui non importava. Mi amava, voleva me e il resto non contava. […] Sono rinata a 26 anni. Ho dovuto affrontare un periodo in cui non sapevo più realmente chi fossi. Mi chiedevo come potessi avere un cariotipo maschile, io che mi ero sempre sentita una perfetta donna! Io un uomo?! Pura follia! Ho affrontato tutto da sola. Ho risalito la china dell’equilibrio. La mia famiglia, un po’ per ignoranza, un po’ per mia reticenza, non ha mai saputo – o forse non ha mai voluto capire – quale fosse di fondo la causa del mio dramma.”
Giulia è stata fortunata ad avere incontrato un uomo che non ha avuto paura, perché la nostra società è un Moloch senza anima che non possiede nessuna sensibilità e delicatezza.

Giuseppe Chiumello, direttore del Centro di Endocrinologia pediatrica all'Ospedale San Raffaele di Milano, dichiara al Corriere della Sera che nella “sindrome di Morris: la persona che ne è colpita ha caratteristiche fisiche e psicologiche femminili, anche se non ha l'utero e ha abbozzi di testicoli nell'addome. Curata con farmaci e con piccoli interventi chirurgici può avere una vita sessuale normale, ed è registrata all'anagrafe come persona di sesso femminile. Del resto per la legge italiana, fra sesso somatico, cromosomico o psicologico, quello che prevale è quello psicologico. “

Se fosse vero che Caster Semenya rientra in questa categoria di persone, lei mi sembra più fortunata perché ha grinta, infatti dopo aver superato lo scoraggiamento iniziale ha dichiarato: “Dio mi ha fatta così, mi accetto e sono fiera di come sono.” Avrà bisogno di tutta la grinta e la determinazione perché il suo caso sarà analizzato da un'équipe di specialisti composta da un endocrinologo, un ginecologo, un internista, un esperto di medicina di genere e uno psicologo che dovranno analizzare la carta di identità cromosomica e genetica dell'atleta, il profilo ormonale e anche quello psicologico. Insomma la sua vita verrà messa alla gogna mediatica, comunque vada.

Moloch gode perché l'indagine della Iaaf è diventata un caso politico, i bookmaker inglesi scommettono sull'esito dei test, e le indagini a cui si dovrà sottoporre saranno rigorosamente pubblici. Insomma la Semenya sarà messa sotto una lente d’ingrandimento e sarà pubblicamente sezionata perché il suo caso ormai è scoppiato e il Moloch vuole le sue soddisfazioni. Sul Corriere della Sera leggo che dopo la sua amara vittoria, la Semenya ha telefonato a casa: “Nonna, tutti pensano che io sia un uomo” e che sua nonna Maphuti Segkala l'ha consolata al telefono. L’atleta viene da un villaggio senza luce e acqua corrente, che si sentiva fiero di avere prodotto una campionessa del mondo, ora sono sul piede di guerra.

La famiglia Semenya fa scudo. La nonna Maphuti: “È una donna. Cosa posso farci se la trattano da maschio? È Dio che l'ha fatta così”. Il padre Jacob: “È la mia bambina. L'ho cresciuta io e non c'è alcun dubbio sul sesso di Caster”. La madre Dorcus: “Chiedete ai vicini: mi hanno aiutato a partorirla”. La cugina Evelyn: “Agli sguardi indagatori è abituata da sempre. Ha imparato a non prendersela”. La squadra sudafricana la difende. Il coach, Michael Seme: “È tutta la stagione che Caster risponde a domande imbarazzanti solo perché ha un timbro di voce grave”. Il team manager Phiwe Mlangeni-Tsholetsane: “È un talento unico, la gente è invidiosa”. Il presidente del comitato olimpico, Gideon Sam: “Certe allusioni sono indegne: il Paese è fiero di lei.”

E' sicuro che, anche nel caso in cui la Semenya fallisse il test sulla sessualità, la Iaaf non la priverà automaticamente della medaglia: “Da un punto di vista legale, essere un ermafrodito non è barare. Doparsi sì, è un tentativo di frode sportiva. Ma avere un sesso incerto è un caso molto, molto delicato”. L'African National Congress, perno dell'esecutivo, ha subito dichiarato: “Invitiamo tutti i sudafricani a schierarsi in difesa della nostra ragazza”. Anche l'azzurro Alex Schwazer sta dalla parte della Semenya: “Mettetevi nei panni di questa ragazza, ha lavorato tantissimo, ha vinto, poi le hanno detto che è un uomo: come vi sentireste? Io credo che bisognerebbe portarle più rispetto”. Sono d’accordo con Alex, bisognerebbe portarle maggiore rispetto!
Buona erranza
Sharatan

mercoledì 9 settembre 2009

La spiritualità e il vecchio maestro


In un mattino del settembre 1927, Ludwig Binswanger si affrettava a raggiungere Freud, dopo il convegno dei neurologi e psichiatri tedeschi di Vienna. Era ansioso di contraccambiare la gentile visita che Freud gli aveva fatto in momenti difficili e, dovendo ripartire per Kreuzlingen subito dopo il convegno, non si sarebbero rivisti a breve termine e lui voleva cogliere l'occasione di vedere il grande psicoanalista. Binswanger era stato presentato a Sigmund Freud dal suo maestro Carl Gustav Jung, e sebbene da sempre fossero “in palese divergenza d’opinione” la stima e l'affetto che Binswanger nutriva per il geniale vecchio e per la sua “grande opera” era rimasta invariata.

Chiacchierando, vennero a ragionare su un caso concreto di gravissima nevrosi ossessiva, e Binswnager chiese a Freud la sua opinione su come mai in tali pazienti, ma anche in altri, non si riuscisse ad avere il classico "insight" psicanalitico, cioè quella intuizione del paziente, quel momento di apertura alla completa consapevolezza di sé, di cui necessita il processo di cura. Sia pure tentando ogni artificio tecnico e ogni sforzo, perché tanti soggetti non riuscivano a fare quella ridefinizione, quella riconfigurazione dello spazio del problema e il conseguente salto verso la soluzione? Perché tanti non avevano quella intuizione improvvisa, quell’input, quell’illuminazione che li potesse colpire come uno schiaffo in pieno viso, ma che li potesse scuotere e che fosse capace di aiutare il risanamento dell’anima?

Binswanger confessò a Freud, che era giunto "alla conclusione che la cosa mancante fosse una “carenza di spiritualità” che impediva a costoro di innalzarsi fino al livello di “comunicazione spirituale” con il medico, a quello stesso piano che “permetterebbe loro di rendersi conto delle proprie “tendenze pulsionali incosce,” di operare l’autosuperamento e insieme quest’ultimo passo definitivo. Non credetti ai miei stessi orecchi quando sentii la risposta di Freud: “Si, lo spirito è tutto.” Per quanto fossi propenso a ritenere che in quella sede per spirito egli intendesse qualcosa come intelligenza. Ma subito Freud riprese:”L’umanità ha sempre saputo di possedere lo spirito; io dovevo mostrarle che esistono anche degli istinti. Ma gli uomini sono sempre scontenti, non sanno aspettare, vogliono sempre qualcosa di totale e di compiuto; e tuttavia bisogna cominciare da qualche parte, e poi procedere lentamente in avanti.”

Quando Binswanger provò ad approfondire il concetto di religiosità umana, Freud lo interruppe deciso e disse: “La religione nasce dal desiderio di aiuto e dall’angoscia del bambino e dell’umanità ai suoi inizi; su questo punto non c’è niente da fare.” Poi andò alla sua scrivania e ne trasse il manoscritto “L’avvenire di un’illusione” di cui Binswanger intuì facilmente il contenuto. Quando Freud lo accompagnò alla porta, lo salutò con un leggero sorriso, saggio e ironico insieme e gli disse:"Purtroppo non sono in grado di rispondere alle sue esigenze religiose.” Binswanger conclude: “Mai il commiato da quel venerato amico, da quella grande personalità, mi fu difficile come in quel momento in cui, pienamente cosciente del “grande pensiero” che riempiva di sé la sua lotta titanica e che era diventato il destino del suo genio, mi tese la mano.”

Freud, da sempre critico sulle istituzioni religiose e non certo ostile alla spiritualità umana, come Binswanger ci testimonia in maniera inconfutabile, in “L’avvenire di un’illusione” del 1927, ha scritto: “Le rappresentazioni religiose sono scaturite dallo stesso bisogno che ha generato tutte le altre acquisizioni della civiltà, ossia dalla necessità di difendersi contro lo schiacciante strapotere della natura. Dobbiamo credere perché i nostri antenati remoti hanno creduto. Ma questi nostri avi erano di gran lunga più ignoranti di noi, hanno creduto cose che oggi ci sarebbe impossibile accettare. Le rappresentazioni religiose, che si presentano come dogmi, non sono precipitati dell'esperienza o risultati finali del pensiero, sono illusioni, appagamenti dei desideri più antichi, più forti, più pressanti dell'umanità; il segreto della loro forza è la forza di questi desideri.

La terribile impressione d'impotenza del bambino ha fatto sorgere il bisogno di protezione − protezione tramite l'amore − cui il padre ha provveduto; il riconoscimento del perdurare di tale impotenza nel corso dell'intera vita ha causato il mantenimento dell'esistenza di un padre, questa volta tuttavia più potente. Mediante il benigno governo della Provvidenza divina, l'angoscia di fronte ai pericoli della vita viene calmata.

Le dottrine religiose [...] possiamo dire che sono tutte illusioni indimostrabili e che nessuno può essere costretto a tenerle per vere, a crederci. Alcune di esse sono a tal punto inverosimili, talmente antitetiche a tutto ciò che faticosamente abbiamo appreso circa la realtà dell'universo, che, tenuto il debito conto delle differenze psicologiche, possono essere paragonate ai deliri. Se qualcuno giunge al punto di accettare acriticamente tutte le assurdità che le dottrine religiose gli trasmettono, e perfino di ignorarne le contraddizioni vicendevoli, la sua debolezza intellettuale non deve stupirci oltremodo. No, la nostra scienza non è un'illusione. Sarebbe invece un'illusione credere di poter ricevere altronde ciò che essa non può darci.”

La testimonianza di Binswanger è riportata nel suo libro “Per una antropologia fenomenologica” e mi è capitata sotto gli occhi qualche giorno fa, mentre rimettevo in ordine i miei libri. Le pagine da cui ho trascritto i passi citati mi si sono aperte quasi per caso, se vogliamo considerare il caso come un avvenimento occasionale e senza senso. Le sue idee mi confortano, come conforta sapere che lo spirito, e non la cieca fede spiritualistica, possa divenire una ulteriore arma a nostro favore, una chance in più di cui possiamo avvalerci per costruire un senso integrale di ciò che ci accade nella nostra vita.

Sia Freud che Binswnager credevano che guardare alla vita e ai suoi avvenimenti con un punto di vista di maggiore ampiezza fosse opportuno e necessario, ma credevano anche che fosse un requisito essenziale per poterci riconciliare con tutto quello che ci ha offeso, e per saper guarire dalle ferite della vita. In questo seguirono le affermazioni di tutti i più grandi maestri spirituali, i quali dicono che guarire il corpo senza guarire la mente, e guarire la mente senza avere pace nell'anima sia una via priva di senso.
Buona erranza
Sharatan

domenica 6 settembre 2009

Le rovine del cuore


Io sono uno scultore, un modellatore di forme.
Ad ogni istante io plasmo un idolo:
ma poi, innanzi a te, lo fondo di nuovo.

Posso suscitare centinaia di forme e riempirle di spirito,
ma quando guardo il tuo volto
voglio gettarle nel fuoco.

Riempi soltanto il bicchiere di questo ubriacone
o combatti davvero il sobrio?
Sei tu che abbatti
ogni casa che io costruisco?

La mia anima si riversa e si fonde nella tua.
Poiché la mia anima ha assorbito la tua fragranza,
mi è cara.

Ogni goccia di sangue che verso intride la terra.
“Mi fondo con l’amato quando partecipo all’amore”.

In questa casa di fango e acqua
il mio cuore è caduto in rovina.
Entra in questa casa, mio amore, o lascia che io vada.


Maulānā Gialāl al-Dīn Rūmī