giovedì 19 maggio 2011

Nel cuore dei veggenti


“Quando lessi la Bhagavad Gita
e riflettei su come Dio creò questo universo,
tutto il resto mi è sembrato così superfluo”

(Albert Einstein)

Nella Chandogya Upanishad il saggio Aruni si interroga sull’origine del cosmo, degli dei e degli uomini, poiché il metodo dello yoga che è tipicamente indiano, rende gli ariani molto introspettivi. Praticando l’introspezione essi sono divenuti consapevoli che nel cuore dell’uomo vi è un vuoto che giace in una quiete indescrivibile che è oltre il pensiero e il sogno, perciò è oltre ogni percezione. A cosa corrisponde il vuoto interiore dell’uomo? Vi è un principio che è oltre il tempo? Vi è un substrato che è oltre la materia? E questo substrato è unico o molteplice? Nelle Upanishad sono contenute le risposte a questi quesiti cosmologici.

Gli induisti affermano che, oltre le forme e le apparenze esiste un continuum che è uno spazio causale non differenziato di cui vediamo solo l’aspetto esteriore. Il substrato più evidente, poiché è il supporto delle forme materiali è lo spazio, infatti lo spazio vuoto e assoluto è un continuum illimitato, che è indifferenziato e indivisibile detto etere, e in esso sono fissate le coordinate percepibili, e che sono relative per l’infinito. La localizzazione che facciamo dei pianeti, delle stelle e di tutti i corpi celesti crea l’illusione che vi siano delle ripartizioni ben definite, ma “lo spazio interno alla giara, non è mai separato dallo spazio esterno.”

Secondo gli induisti, lo spazio che viene delimitato dalla giara esiste finché la giara non viene infranta, poiché lo spazio che conteneva, esisteva ancor prima che la giara fosse plasmata. La delimitazione della materia in atomi è una mera illusione, poiché tutte le dimensioni esistono solo in funzione della nostra capacità di percepirle. Lo spazio che è all’interno dell’atomo è vuoto, perciò potenzialmente potrebbe contenere un’infinità di mondi, infatti non esiste alcun limite al numero dei mondi che potrebbero essere inclusi uno nell’altro.

Similmente anche il tempo è un altro continuum esistente, infatti è simile ad un bastone invisibile, poiché è solo l’eternità che è sempre presente e resta indissolubile, infatti il tempo viene sempre unito allo spazio con cui condivide le medesime caratteristiche e specificità. Il terzo substrato cosmologico è il pensiero, infatti tutto ciò che esiste ha la forma e la struttura logica che è tipica della realizzazione di un piano preciso, perciò è come un sogno ben organizzato. Nell’induismo si afferma che il mondo concreto visibile è l’idea o la forma cristallizzata del pensiero di un Essere Creatore.

Questo diventa evidente quando indaghiamo sul mondo e, nell’analisi più profonda non ritroviamo più la sostanza materiale, ma una formula e un concetto che sono simili ai prodotti di un Pensiero che progetta. Se il cosmo è visto come la manifestazione di un pensiero logico e ordinato, allora siamo spinti alla ricerca del substrato attivo e vivente, che è il fondamento di ogni continuum che può essere percepito.

Il substrato dello spazio è l'esistenza che è sat, il substrato del tempo è l’esperienza che è ananda, cioè la beatitudine, mentre il substrato del pensiero è la coscienza che è cit. Affinché un luogo possa esistere deve esistere anche l'oggetto da collocare al suo interno, perciò deve esistere una forma di esistenza a prescindere dai confini e misure della forma materiale: infatti l’esistenza dell’ente pensante precede lo spazio concreto.

Il tempo esiste se vi è la percezione di esso, perché il tempo che non è percepito non ha durata, e non può misurare nessun trascorrere: infatti la percezione precede anche il tempo. La percezione primaria è potenziale e indifferenziata, infatti è l'esperienza della perfetta beatitudine, come si afferma nella Taittiriya Upanishad (III; 6,1):

“Sappi che Brahman è beatitudine (ananda) perché dalla beatitudine nascono invero gli esseri e mediante la beatitudine, una volta che sono nati vivono, e nella beatitudine ritorneranno allorché muoiono.” Poiché la beatitudine è possibile solo con l'esperienza, non esiste l'esperienza senza l'esistenza; perciò l’induismo afferma che beatitudine è una forma di esistenza che si illumina da sé, ed è diversa dalla semplice sensazione.

Quando parliamo dell’esistenza è evidente che il vivere deve essere privo d'inerzia: la beatitudine è vita e il tempo è morte, poiché sono i due aspetti dell'entità unica, infatti il Signore del Sonno, che è Shiva è il principio della disgregazione, ma è anche il Signore della Beatitudine, il cui simbolo fonte di vita e piacere è il lingam, cioè il fallo. La fonte della vita e della morte è Shiva che è simbolo sia dell’amore che della morte, ed è l'opposizione nelle due esperienze più intense del vivere umano.

Siccome la beatitudine è la forma dell’esperienza, il continuum della beatitudine è costituito da emozione e sensazione, che è rasa. Nella Taittiriya Upanishad (2,7) è detto “Egli in verità è sensazione” rispetto all’Assoluto, poiché la più intima natura delle cose è l’esperienza della beatitudine assoluta che è vissuta nell'assoluto che si assapora solo nell’attimo presente, che è sempre concreto e reale, perciò perfetto come l’eternità. Colui che raggiunge lo stadio in cui percepisce il godimento dell’attimo presente, che è la sola realtà sempre persistente, è sempre libero dall’obbligo dell’azione, poiché il presente è la perfetta conciliazione dell'azione e dell'inerzia.

Il substrato continuum del pensiero è la coscienza che presume l'esistere solo con l'esistenza di un essere consapevole, infatti non può esistere un pensiero se non esiste il Pensatore, che è una forma di individualità. Il luogo della coscienza universale è il Sé (atman) che è l'immensità priva di forma, ed è il substrato che è sperimentato come vuoto oppure oscurità totale, ed è posto nel luogo che vive oltre la ragione e l’intelligenza. Questa regione è percepita come interna all’uomo, nell’interiorità del nostro essere, come un io profondo comune a tutti gli esseri umani, e come un Oceano privo di forma da cui emerge la struttura dell’individuo.

Il Sé Risplendente, si dice nella Mundaka Upanishad, è immenso, luminoso, inconcepibile e più sottile del sottile, più lontano del lontano, ma è anche nel luogo più vicino, infatti è “celato nel cuore dei veggenti.” Il Sé è inafferrabile e non può essere catturato, è indistruttibile e non può essere ucciso, è inattaccabile, perciò non può essere colpito: il Sé elude i vincoli di tempo e di spazio, perché il Sé dell'Anima individuale è più piccolo dell‘atomo e più vasto dell‘universo.

Infatti, “colui che conosce il vasto spazio racchiuso nella caverna del cuore realizza tutti i suoi desideri ed entra in contatto con l‘Immensità” (Taittiriya Upanishad (2,1). L’anima, che è il sé, è il continuum indivisibile che unisce tutti gli esseri, di cui ognuno è una entità pensante infatti, in ogni cosa che esiste è racchiusa una parte di anima, così come la forma circonda la porzione di spazio, così anche l’attimo avvolge la particella del tempo.

Similmente, anche la suddivisione dell’Anima Universale dà vita agli esseri individuali, perciò nessun’anima individuale può ritenersi divisa dall’anima universale come avviene con la forma della giara che racchiude una porzione di spazio, infatti avviene che la suddivisione di spazio imprima alla giara la sua forma concreta. Perciò è questo il motivo per cui l'anima è sempre inserita nel continuum della Coscienza Universale.

Tutte le esperienze provate dall’anima sono esperienze dell’identità individuale, ed il sé individuale che è l'atman che ha necessità della dualità per discriminare, infatti un sé esiste solo nella dualità, poiché l’uno ama l’altro, l’uno odora l’altro, l’uno sente l’altro, l’uno tocca l’altro, etc. Il substrato della coscienza universale è la somma di tutti gli dei, poiché è la forma di tutte le forme dell’universo, infatti il Sovrano del Cielo, in cui tutti gli dei formano l'Essere Supremo include tutto l'esistente.

Questo Sé superiore è il continuum della coscienza che diventa l’unico oggetto, la meta suprema della meditazione del saggio e che non viene mai toccato dalle azioni che vengono accumulate dall'uomo, e che forgiano l’individualità umana. Questo Sé, quando è a contatto con i caratteri dei singoli viene colorato come il vetro che sembra colorato in contatto con una superficie colorata, e può diventare rosso al contatto con la rosa.

Colui che conosce l’atman e lo rende la meta della sua felicità, si dice nella Chandogya Upanishad (VII, 25,2), può muoversi liberamente tra i mondi e diventare il maestro di sé stesso, mentre coloro che pensano altrimenti sono condannati a restare legati ai mondi transeunti e non possono uscirne quando vogliono. L’anima esiste come continuum persistente e costante, sia all’interno che all’esterno delle cose, mentre l’Io dell'individualità è il nodo temporaneo ed è il punto della coscienza particolare dove vengono legate e si manifestano solo alcune delle facoltà universali.

L’Io è il centro specifico in cui sono focalizzate le qualità del Sé indefinito universale che contiene infinite correnti e differenti linee di tendenza che si perdono nello spazio infinito. Il Sé esiste sempre perché è indefinito e senza pensiero, mentre l’io è la focalizzazione della vibrazione che diviene pensiero particolare: il Sé è il continuum di cui l’uomo fa diretta esperienza, infatti è il punto in cui l’uomo conosce l’Assoluto usando la sua medesima natura essenziale.

Il Sé è l’Assoluto che vive nell’uomo, perciò non esiste alcuna realtà che sia trascendente alla nostra coscienza, ma questo è “capito soltanto dai veggenti con gli occhi sottili dell’intelletto” (Katha Upanishad I, 3,12). Vi è un punto in cui avviene la completa fusione tra l’anima universale e l'anima personale, ed è il punto-limite che è il “bindu” nell’uomo. E’ da esso che ebbero origine tutte le cose, e cui tutto farà ritorno, perciò è il punto in cui dimora l’Uno, che è la Coscienza Universale di tutti gli esseri viventi.

L’atman è il ponte che unisce i mondi e impedisce la disgregazione, perciò superando questo ponte, i ciechi recuperano la vista, i prigionieri vengono liberati, e i malati vengono sanati. Attraversando questo ponte, si dice nella Chandogya Upanishad (VIII; 4,1-2), la notte diventa giorno, perché il mondo di Brahman è luce, perciò il Sé non è raggiunto usando delle spiegazioni tipiche dell’intelletto o della ragione, ma viene raggiunto da “colui che gli si dedica,” ed è per “costui che l’atman riveste il suo corpo.”

Chi non riesce a rinunciare all’azione, chi non trova la pace, chi non sa concentrarsi e non sa ridurre il pensiero al silenzio non può sperare di raggiungere il sé soltanto con l’ausilio dell’intelligenza (Katha Upanishad II; 22,23). Questo Sé che non si vede e non si sente non può essere percepito con i sensi, non si ottiene con le pratiche ascetiche o per merito delle buone azioni, ma è solo per grazia della conoscenza che colui che si è purificato lo può sperimentare interamente quando è in meditazione (Mundaka Upanishad III 1,8).

Per questo solo colui che è in pace, chi è calmo, chi è distaccato e paziente riesce a scorgere l’atman che vive in ogni cosa, perciò nessun male lo può bruciare, perché lui riesce a bruciare anche il male, infatti solo costui può vivere privo di ogni imperfezione e di ogni dubbio, infatti solo il saggio raggiunge lo stato in cui conosce l’Immensità, che è Turiya. (Brihad-Aranyaka Upanishad IV 4,23).

Buona erranza
Sharatan

Nessun commento: