sabato 31 maggio 2008

La potenza del debole


Per il taoismo e anche per lo zen, il mondo è concepito come una realtà indivisibile, un campo di forze interrelate, un tessuto di eventi intrecciati da fili invisibili. Questi fili sono intessuti in trame che ci sembrano incomprensibili, ma nulla potrebbe esistere se, di questa trama, ne mancasse anche un piccolo filo. Per questa saggezza non ci sarebbero le stelle brillanti se non ci fossero le stelle spente e non ci sarebbe la luce se non ci fosse il buio. Gli opposti, piuttosto che farsi la guerra, sono mutualmente dipendenti l’uno dall’altro. Quando si arriva al cuore delle cose, le parti opposte sono la medesima cosa viste dal lato opposto di un cerchio che gira e fa cambiare la polarità dell’esperienza. Per la filosofia cinese il conoscente è la stessa cosa del conosciuto; egli non se ne sente separato, non percepisce la scissione soggetto pensante-oggetto pensato: essi sono un flusso, sono un tutt’uno. In concreto non vi è altro se non l’unicità delle cose di cui siamo consapevoli. Il nostro essere consistere nel vivere la vita che si vive. La qualità essenziale della vita è viverla, in modo da poterne trarre il maggior beneficio. Si esiste quando si lascia fluire la vita attraverso di noi, in modo semplice e naturale, ammettendo che la vita semplicemente è. Questa unità delle cose è una caratteristica del pensiero cinese, per cui i fenomeni sono considerati come un tutto, perché il loro significato deriva l’uno dall’altro.Ogni cosa, insieme al suo complementare, va sempre a formare un intero. Per questo la mentalità cinese può concepire l’unità assoluta di gentilezza e fermezza. Per il nostro pensiero riesce inconcepibile pensare a qualcosa di maggiormente incompatibile, ma la gentilezza è nascosta nella fermezza e la fermezza a sua volta si nasconde nella gentilezza. Il taoismo è la filosofia che vede l’unità essenziale dell’universo nel gioco della polarità degli equilibri (Yin e Yang), il ritmo degli eterni cicli, l’annullamento di tutte le differenze, la relatività di tutte le cose e il finale ritorno dell’Uno al Tutto. Da questa filosofia nasce l’assenza di desiderio dei conflitti, l’ostilità per il dominio e per la lotta per ottenere il proprio tornaconto. Il saggio taoista è un saggio pacifico, pone fondamentale importanza alla non-resistenza al corso delle cose e pratica la gentilezza.
L’idea di base è il wu wei, la non azione, che significa non compiere alcuna azione innaturale, significa spontaneità, significa sostenere tutte le cose nel loro stadio naturale, non forzare il corso delle cose. A questo proposito, Lao tze avvertiva che, per l’uomo era difficile conoscere e dominare la propria indole, ma forzare gli eventi del mondo era impossibile:
« Conoscere gli altri è saggezza;
ma conoscere se stessi è saggezza superiore.
Imporre la propria volontà agli altri, è forza;
ma imporla a se stessi, è forza superiore.
Essere sufficienti per se stessi è la vera ricchezza;
governare se stessi è il vero carattere. »
« Chi vuole governare
il mondo con la forza
finisce per non fare
quello che spera.
Il mondo è un vaso di spiriti
che non si fa forgiare. »
I taoisti non amano le formlità e le artificiosità, prediligono le vie dell’essenzialità e della schiettezza, rifuggono da formalisti privi di sostanza: colgono il nucleo delle cose: ne amano l’essenza. Tanto della letteratura taoista elogia i distillati, gli elisir, le pure essenze perché la loro è una vita di “perfezione che sembra incompleta e di pienezza che sembra vuota”. E’ una vita luminosa, di armonia, in cui si persegue la contentezza, la costanza, l’illuminazione, la pace e la longevità in buona salute. L’armonia è il principio essenziale dell’ordine del mondo, un campo cosmico in cui le forze Yin e Yang sono in perpetuo dinamismo, eternamente complementari ed eternamente in mutamento. Oggi la nuova fisica sta sempre più confermando l’ipotesi monistica del mondo, che sta alla base del pensiero taoista.
Diceva Bruce Lee che il kung fu, la più antica forma di autodifesa, era definibile come l’essenza concentrata, il distillato attivo delle arti di saggezza e di pensiero profondo dell’arte dell’autodifesa, mai superato da altre arti marziali. Kung fu significa “allenamento e disciplina per raggiungere la Via dell’obiettivo finale” per cui il termine si può applicare ad ogni cosa che si persegue, sia essa una crescita spirituale, su essa un percorso di perseguimento della salute o della fiducia in se stessi. Lo scopo del kung fu come disciplina marziale è quello di promuovere la salute e di praticare autodifesa. La sua filosofia si basa sul taoismo, sullo zen e sull’I Ching, il Libro dei mutamenti, sull’ideale di fronteggiare le avversità piegandosi delicatamente per poi tornare dritti più forti di prima, e di adattarsi ai colpi dell’avversario senza sforzo o resistenza. Il kung fu è il tentativo di scoprire i misteri della natura. Chi pratica il kung fu rinuncia a fare sfoggio di sé e di distacca dal suo orgoglio personale. Essere docile e devoto, quindi gentile, non esclude affatto la forza e la fermezza, perché la forza è necessaria alla delicatezza e le è di aiuto. Molto spesso crediamo che la vera forza consista nella capacità di restare sempre dritti ed invulnerabili, che è forte chi non cade mai e chi non ha cedimenti. In realtà è irresistibile l’acqua che scorre in mezzo alle fessure più sottili, ed è veramente forte chi, pur cadendo riesce sempre a risorgere come la fenice dalle sue ceneri.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

martedì 27 maggio 2008

Provaci ancora George!


Leggo che, secondo la televisione satellitare ‘al-Arabiya’, il leader di al-Qaeda, Osama Bin Laden, si dovrebbe nascondere alle pendici del K2, nell’estremo nord del Pakistan, proprio nel cuore dei territori controllati dai gruppi tribali pakistani. Secondo l’emittente del Dubai, nei giorni scorsi, si era svolto un vertice degli addetti alla sicurezza e dei militari americani, per fare il punto sulla caccia al capo di al-Qaeda. La zona in cui si nasconderebbe Bin Laden, sarebbe stata localizzata in un’area compresa tra Pakistan ed Afghanistan, ad ovest, tra la provincia di Konrad e la catena montuosa del Nurestan. Secondo la fonte, nascosto in quei luoghi inaccessibili tra le montagne, Bin Laden starebbe pianificando nuovi attentati terroristici. Al summit, tenutosi nella base militare di Doha, nel Qatar, ha partecipato anche l’ambasciatrice americana ad Islamabad, Anne Peterson, per valutare quali ricadute politiche potrebbe avere, in una zona così delicata, un’offensiva americana per catturarlo. L’area in oggetto, è controllata da gruppi tribali che sostengono i talebani, per cui gli equilibri politici vanno attentamente calibrati, poiché una presenza militare offensiva, potrebbe rinforzare l’integralismo anti-occidentale. Di quelle zone conosceva bene gli equilibri, il leggendario comandante dell'opposizione afghana ai talebani, Ahmad Shah Massud, ucciso il 9 settembre del 2001, due giorni prima dell’attacco alle Twin Towers. Due kamikaze si erano fatti passare per giornalisti e avevano fatto scoppiare un ordigno nascosto in una telecamera, uccidendolo a soli 48 anni, dilaniato dall’esplosione e spirato dopo due giorni di agonia. Un grande uomo, Ahmad Shah Massud, soprannominato “leone del Panshir” per il suo coraggio e per la determinazione. Non alzava mai la voce. Aveva molta cura della sua persona, sempre elegante, sempre a posto. I suoi appelli per un aiuto da parte dell’occidente nella guerra al regime talebano erano sempre caduti nel vuoto, l’assemblea di sordi seduti alle Nazioni Unite non aveva lasciato molti dubbi sulla volontà di qualcuno di aiutare la sua lotta ormai disperata. “Non capite che combatto anche per voi!” aveva detto loro, ma nessuno aveva dato l’impressione di ascoltarlo. Massud, portavoce di un Islam «moderato», aperto all'occidente, eroe «romantico» amato dalla stampa internazionale, appassionato di scacchi, uno dei giochi proibiti dai Talibani, che non rinnegava affatto la sua fede: «Per il nostro paese vogliamo un governo fondato su libere elezioni. Basato, ovviamente sulla legge islamica, l'unica riconosciuta dal nostro popolo». Massud che dichiara:“Ho una speranza. La cosa che desidero di più, veramente con il cuore, è che finisca questa guerra in Afghanistan “: ma la sua speranza resta disillusa. Lui, che era di etnia tagika, aveva combattuto contro il generale Raschid Dostom, l'uzbeko alleato dei sovietici, contro gli sciiti di etnia hazara del partito Wahdat, contro l'integralista Gulbuddin Hekmatyar, dell'etnia predominante pashtun, suo antico nemico e sospetto sostenitore di terroristi internazionali, e infine, appunto, contro i Talibani, ancora pashtun, rigidi applicatori della sharia, la legge coranica. Ma quando gli parlavano di guerra etnica, Massud si irritava «Questa è una guerra sostenuta dalle potenze straniere: il Pakistan che finanzia i Talibani ed Hekmatyar, l'Iran che sta dietro agli sciiti, l'Uzbekistan che vorrebbe controllare le frontiere attraverso Dostom». Aveva chiara l’idea, che nel suo paese si giocava un gioco molto più grande. Colto, raffinato e politicamente navigato, si teneva alla larga dagli intrighi del Pakistan, che nel frattempo aveva preso il controllo sulle fazioni della Jihad. I territori controllati da Massud, ricchi di rubini, smeraldi e lapislazzuli, gli permettevano di trovare facilmente i fondi per organizzare le sue truppe. Inattaccabile da ogni parte ed incorruttibile, lui stesso aveva dichiarato che l’avrebbero vinto solo passando sul suo corpo. L’hanno fatto! "I taleban sono sotto il controllo di Osama bin Laden e del Pakistan. Queste persone vanno sradicate una volta per tutte", dichiarò al suo funerale, Burhanuddin Rabbani, leader ufficiale dell'Alleanza del Nord, per la quale Massud rappresentava il braccio armato. L'attentato a Massud, principale ostacolo militare dei taleban per il controllo totale dell'Afghanistan, precedette di due giorni l'attacco terroristico al Worl Trade Center ed al Pentagono sembrò firmato dal miliardario saudita Osama bin Laden protetto dalle stesse milizie dei talebani. Il 9 settembre 2001 l’uccisione di Massud e poi quella successiva di Abdul Haq, di etnia pasthun ed islamico moderato, fatto prigioniero e giustiziato il 26 ottobre 2001, dimostrano l’incontrastato dominio Talebano e il prevalere dell’integralismo anti-occidentale. In Afghanistan si apre così la strada all’intervento militare terrestre Usa ed inizia Enduring Freedom, la guerra permanente e globale contro “i nemici dell’occidente”. Gli Usa sostengono inizialmente ed appoggiano l’Alleanza del Nord, precaria e ambigua aggregazione di signori della guerra, uscita perdente nel precedente scontro di potere con i Talebani. Ad oggi queste aree sembrano invece solidamente in mano ad al-Qaeda, perlomeno secondo la Cia, cha così conferma a distanza di anni, le dichiarazioni di Burhanuddin Rabbani, il leader dell'Alleanza del Nord. Sul “Il Tempo” di oggi si legge che “Osama Bin Laden si troverebbe in questa zona di confine da giugno 2004. La zona che ora i servizi americani confermano come il covo di Bin Laden. In questa area operano i guerriglieri islamici del Kashmir e molte tribù tagike. Tutti ostili verso gli stranieri e fedeli allo sceicco saudita. Qui i russi avevano costruito dei bunker sotterranei negli anni Settanta, dove erano custoditi missili a testate nucleari puntati verso il territorio della Repubblica Popolare Cinese. Il freddo e la mancanza di ossigeno, siamo tra i 5000 e gli 8000 metri del Pamir, hanno costretto i sovietici ad abbandonare la zona. Ma i bunker sono rimasti. Non solo. La vicinanza con la Cina dà a Osama bin Laden la certezza che gli Stati Uniti non bombarderanno mai la zona nel rischio che un missile «intelligente» finisca per colpire le postazioni di confine dei cinesi.”
E così ritorna in scena la figura di Bin Laden, un personaggio particolare, ambiguo, un giocatore di difficile ed incerta identificazione. Lo scorso 18 maggio, l’appello contro gli ebrei e contro lo stato di Israele, e nel tempo ogni tanto qualche breve ritorno, per diffondere tramite Internet, le sue dichiarazioni anti occidentali. La sua cattura potrebbe essere un regalo per il presidente Bush, che da lungo tempo, promette alla nazione americana la cattura del pericoloso terrorista internazionale. Nel novembre 2001, lo stesso Bush dichiarava al Newsweek che, anche se ci fossero voluti 10 anni, lo avrebbe preso. Di anni ne sono passati 7, intanto i morti della guerra preventiva sono lievitati su numeri che difficilmente si possono quantificare, i danni economici subiti dal mondo, a causa dei prezzi del petrolio che è salito a quotazioni che hanno sforato qualsiasi previsione, sono incalcolabili, gli equilibri politici dell’estremo oriente sono fortemente compromessi, e il presidente Bush è molto lontano dall’avere vinto la sua guerra, lui che non ha mai dubitato di stare facendo la cosa giusta. Ma forse gli dovremmo dire:”Provaci ancora Sam, pardon, George!”
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

domenica 25 maggio 2008

La felicità della nostra vittoria


Per il sabato pomeriggio mi trovo a scegliere tra due possibili opzioni: conferenza con presentazione di un libro oppure manifestazione di arti marziali. Senza esitazione scelgo le arti marziali. Sono stata spesso alle presentazioni dei libri e sono spessissimo grosse marchettone, cioè l’autore di turno viene a convincerti ad acquistare il suo prodotto, che in questo caso è un libro, ma potrebbero essere anche cosmetici o altra merce, dopo averti intrattenuto con una chiacchierata di circa 1 oretta. A me ricordano un po’quelle gitarelle che organizzavano con il solito gruppo di pensionati, che venivano caricati, ad ore antelucane, su pulmann da turismo dove gli venivano sincronizzate le vesciche, indi trasportati verso s. Giovanni Rotondo (o altra meta religiosa a scelta), in visita alla taumaturgica salma. Prima però, durante il percorso, una breve sosta all’area di servizio Cardo Fiorito, dove si viene intrattenuti sulle virtù della nuova batteria di puro inox, con fondo da 10 cm, su cui puoi cucinare dietetico e sicuro e che durano una vita. La nonna di un mio amico se le faceva tutte e diceva furbetta, al mio amico che la avvisava del fatto che ti volevano vendere le peggiore stronzate, che lei non sapeva scrivere (falsissimo!) e non firmava mai niente se non c’era suo figlio (il mio amico era orfano di un padre morto giovane). Intanto si era fatta una gitarella in compagnia dei suoi coetanei, pranzo al sacco e qualche distrazione, sempre lucida ed ironica, tagliente come un coltello, ma assente e confusa, anziana ed indifesa alla bisogna.
Allora, io che qualche volta faccio come la nonna del mio amico, stavolta mi sono detta che le arti marziali erano sicuramente più apprezzabili del marchettone letterario, e sono andata alla manifestazione. L’atmosfera in queste occasioni è sempre quella che mi ricordo: fuori macchine e pulmini, anche pulmann di linea, c’è gente che viene da tutto il mondo e dentro è una cacofonia di colori, di chimono colorati, pantaloncini e divise tra le più varie: quelle da Tai chi le più austere. Immancabili banchetti di mercanzia legata al mondo in oggetto, tutte le armi possibili ed immaginabili, chimono ed abbigliamenti cinesi in tutte le salse, compreso l’angolo delle specialità ed altri articoli orientali dai talismani agli incensi profumati, insomma un suk mediorientale. Già so che mi comprerò il ginseng coreano a metà prezzo rispetto all’erboristeria e una tonnellata di incensi profumati visto che la scelta è infinita.
Mi siedo in posizione centrale in modo da poter vedere almeno 4 pedane diverse, a sinistra c’è quella del Tai chi che mi interessa particolarmente. Quando arrivo stanno già esibendosi e una ragazza presenta una forma codificata con il ventaglio, la guardo rapita e penso che la presenta molto male, è rigida e scattosa, e non mi piace. Anche le forme codificate vanno interpretate e non eseguite come una litanìa. Me le guardo tutte le forme di Tai chi e non me ne piace una. C’è una ragazza slava, con la forma con la spada che esegue la sequenza con maggiore armonia, con fluidità maggiore, ma niente più. Mi sento tanto criticona, ma ho visto eseguire le forme da maestri cinesi, devo dire che è dura poi apprezzare gente che si impegna per anni in discipline anche ingrate, perché basta guardare in YouTube quello che sanno fare i cinesi nel Wushu, per capire che non hai speranza. Purtroppo!
Gli stili interni sono ingrati perché meno spettacolari, praticati da donne, frequentati da pochissimi uomini, per una nostra mentalità distorta, perché "sifu", maestre donne sono consuete in Cina. Solitamente, in Italia, gli uomini sono amanti e praticanti dei soli stili esterni, in cui la forza e la performance fisica sono essenziali. Nello stile interno, la ricerca della via del chi, porta alla consapevolezza della forza interiore e ad una via per captare l’energia universale, tramite il dominio delle vie della forza, sia la propria che quella altrui, per cui nel combattimento devi impiegare la forza dell’avversario per sconfiggerlo. La cura cinese per il corpo, diceva Bruce Lee, punta sulla conservazione dell’energia: moderazione senza mai toccare gli estremi. Lui affermava che chi pratica il kung fu si vota all’indipendenza e quindi non dipende dalla considerazione altrui per la sua felicità. Un maestro di kung fu, a differenza di un allievo, è riservato, calmo e modesto, e non nutre il benchè minimo desiderio di farsi notare. Al livello più elevato dei livelli di apprendimento taoista, il maestro torna ad essere un uomo semplice. Quando si raggiunge la perfezione finale, il corpo con le sue membra fa ciò che deve fare, senza che la mente interferisca, sono in armonia in un tutt'uno.
Nel giudicare con tanta severità quelle atlete sento tutto il mio rancore per la mancanza di quella disciplina. In me parla l’invidia e il dolore della perdita di quella pratica: è il dolore del grande e perduto amore. Me ne rendo conto quando, finito il Tai chi, mi dedico alla pedane in cui fanno sanda gli atleti “veri” e mi guardo il combattimento di un azebagiano: è più basso del suo avversario e appare decisamente sovrappeso, sebbene solido e compatto essendo un atleta. Il suo avversario è più alto per cui parte avvantaggiato sulla lunga e media distanza, perlomeno di solito è così. Se l’avversario lo pensa, e lo avrà pensato sono certa, deve cambiare idea velocemente. E’ grosso ma agile e scattoso, determinato, sembra non stancarsi facilmente perché avanza veloce per colpire e ritorna indietro con velocità pari. Arriva colpisce e rientra in guardia, saltando indietro agile come una molla, alla faccia della mole; ha la grazia di un ballerino. UAO! Bravo e determinato, veloce, grintoso e instancabile il tripponcino, finchè finisce il suo avversario. Il verdetto che lo vede vincere è scontato, se lo merita tutta la vittoria. A questo punto, visto che mi ero intrufolata nella zona riservata agli staff, ho assistito ad una scena particolare. Un tipo che assisteva il trippettino, si avvicina alla scalinata e urla una cosa in azerbagiano agli spalti più alti. Gli tirano una stoffa tutta arrotolata, che non capisco cosa sia. Lui la prende e se la porta verso la pedana dove il trippettino viene ufficialmente dichiarato vincente. L’assistente va dal trippettino e gli passa la stoffa. Lui intanto si è tolta la canottiera mostrando l’addome muscoloso e in sovrappeso che si immaginava, mette la sua bandiera sulle spalle e si fa il suo giro di ring, con un sorriso ed una gioia incredibili: i suoi compagni sono al settimo cielo e lui è felicissimo. Gli brillano gli occhi mentre scende dalla pedana, accolto come un vincitore dai suoi compagni. E’ tangibile, intensa e coinvolgente la gioia di quel gruppo che accoglie il suo atleta, e mi ricorda una soddisfazione e una gioia che conosco. Ricordo come eravamo felici dei compagni che vincevano o che erano applauditi, era una gioia anche nostra, era la gioia di tutti noi: era uno di noi e quella vittoria era di tutti.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

venerdì 23 maggio 2008

La ribellione dell'Acquario


In questi giorni vorrei tanto guidare una ribellione mondiale di tutti coloro che sono nati sotto il segno dell’Acquario, tutti gli Acquario uniti per ribellarsi all’arbitrio del destino cinico e baro e contro l’avversa sorte, con noi crudele e matrigna.
Noi Acquari siamo simbolicamente il segno che, nella triplicità di aria, esprime il legame dell’anima, il più recettivo alle emanazioni delle vibrazioni universali, siamo il segno in cui si racchiude l’anima angelica dell’uomo, per questo sono orgogliosissima di essere acquario, ma a tutto c’è un limite.
Negli ultimi 2 anni (2005-2007) gli astri ci hanno vessato con una serie di ignominie, ma con una tale massa di ingiurie, tali da desiderare una universale ribellione contro gli astri. Il padre Saturno, il Grande Vecchio con la falce, non si è risparmiato e ci ha crudelmente falcidiato in tutti i modi. Un’opposizione di Saturno non è mica cosa da poco, e la nostra è stata ancor più significativa, perché Saturno è uno dei due governatori, con Urano, del nostro segno. E’ come se tuo padre ti bastonasse per insegnarti a vivere; magari alla lunga potrai anche ammettere che aveva fatto tutto per il tuo bene, ma al momento della bastonatura, senti solo le randellate.
Per Andrè Barbault, Saturno rappresenta sempre l’insoddisfazione ed i tipi astrologici che ne vengono dominati (quindi Capricorno ed Acquario) oscillano tra l’insensibilità ed una profonda avidità, quasi bulimica, di cui la persimonia è uno degli aspetti. Il ruolo del pianeta è ingrato perché deve rescindere il cordone ombelicale che ci lega alla Madre, quindi alla materialità, all’animalità e agli istinti terreni. Rappresenta le prove necessarie per crescere, e che sono una successione di distacchi ed abbandoni, di rinuncie, di sacrifici, di perdite, di colpi di falce. Accettare le lezioni di Saturno significa affermare l’autonomia dell’essere umano ed egli conferisce, in premio, un grosso salto evolutivo in termini di maturazione. Saturno ha il compito di liberarci dalla prigione interiore delle nostre passioni e dalle catene degli istinti. E’ la grande leva della vita intellettuale, morale e spirituale. Quando si lavora con i valori saturniani in modo produttivo, si conquista una grossa forza interiore, si raggiunge un grosso senso di autodisciplina e si conquista una grossa elevazione intellettuale e spirituale. Soprattutto nel 2006, che è stato veramente annus horribilis, gli Acquario hanno provato tutti la serie delle sfumature saturnine, per cui sono avvenuti distacchi ed abbandoni, rinuncie, sacrifici, perdite, tutti i suddetti colpi di falce di cui sopra si diceva. Nel 2006, Aquario sotto stress per l’opposizione di Saturno e la quadrature di Giove che ci hanno bloccano, e con Marte a giugno opposto, che ha esacerbato conflitti e tensioni rendendoci più critici e nervosi. Saturno ostile fino a tutta l’estate, ha influenzato negativamente la vitalità, depresso il morale e abbassato le difese immunitarie. Il 2007 è stato ancora faticoso e compresso da un soggiorno di Nettuno in Acquario che non ha facilitato la razionalità, rafforzando invece le illusioni e gli abbagli. Facilmente si può essere stati vittime di illusioni o di false valutazioni pagate a duro prezzo. E’ pure vero che non per tutti sembra essere avvenuto questo, ma il padre Saturno è strano, per cui non è detto che le conquiste avute durante le opposizioni di Saturno, siano poi conquiste vantaggiose a lungo termine, in genere sono molto esose, sono guadagni a caro prezzo. Se poi Saturno non ha strappato, ha lesionato quello che non è riuscito a recidere. Un fortunato soggiorno di Chirone in Acquario ha poi tamponato e ridato il vigore per una guarigione ed un recupero dai danni del "Guardiano della Soglia" - cioè Saturno per Liz Greene - e Chirone viene considerato una chiave astrologica di Saturno e Urano, per cui attribuito e benefico per il segno dell’Acquario.
Secondo la mitologia Cronos (o Saturno) si innamorò follemente della ninfa Filira, e per sfuggire dai sospetti della moglie Era, si trasformò in un cavallo. Il centauro Chirone, metà uomo e metà cavallo, nacque dalla relazione. Quando Filira vide suo figlio, lo ripudiò e chiese a Zeus di trasformarla in un tiglio. Così abbandonato Chirone si ritirò in una grotta sul Monte Pelion, dove insegnò ai giovani eroi le arti marziali, l’arte della caccia e della musica. I suoi alunni più celebri furono Achille e Asclepio. La fine della storia contiene un messaggio simbolico: involontariamente Chirone fu ferito da una freccia velenosa del suo amico Ercole. Poiché Chirone era immortale, continuò a vivere con questa terribile ferita incurabile, soffrendo pene indicibili. Quando arrivò il momento della punizione di Prometeo, Chirone chiese di morire al suo posto. Il sacrificio della sua immortalità, lo liberò dal tormento. Chirone è una figura sia umana, sia animale ed impersona astrologicamente la saggezza, la pazienza e il dominio sugli istinti oscuri. A causa della sua ferita incurabile, il centauro ha una profonda conoscenza della sofferenza in tutte le sue forme, per questo è un guaritore misericordioso. La saggezza che acquisisce attraverso il dolore gli consente di alleviare le sofferenze altrui. Questo è il beneficio che ci è stato fornito: una guarigione che comporta forte sofferenza (Chirone), e che richiede del tempo (Saturno). In astrologia Saturno simbolizza la limitazione dell'individuo, intesa come rinuncia e solitudine, rappresenta il rigore e la perseveranza e riflette le necessità alle quali nessuno si può sottrarre. La sua posizione alla nascita è utile per capire le difficoltà che una persona dovrà superare nel corso della sua vita, la resistenza di un individuo nei confronti di crisi, le restrizioni che dovrà affrontare e la solitudine. Veniamo da un’opposizione durissima di Saturno, il che vuol dire che perlomeno buona parte di noi sventurati Acquario, è stata pesantemente provata da situazioni che hanno assunto il ruolo di “resa dei conti” finale. Il Nodo lunare che è in Acquario, e che vi resterà fino ad agosto 2009, fa pensare che gli Acquari possono ancora - e si presenteranno occasioni - per fare delle scelte esistenziali radicali. Sospetto che, fino all’ingresso di Giove in Acquario, nel 2009, le sorprese non siano ancora finite.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

martedì 20 maggio 2008

Resuscita la tigre della Tasmania


Ho letto la notizia che sono riusciti a resuscitare la tigre della Tasmania. Lo strano animale si era estinto negli anni ’30 del Novecento e da allora si erano conservati degli esemplari sotto formalina nei musei zoologici. Dopo avere recuperato il Dna, da esemplari non troppo rovinati, prendendo in prestito il corpo di alcuni topi di laboratorio, e con un intervento di ingegneria genetica, i ricercatori delle università del Texas e di Melbourne, hanno creato una chimera. Baffi di topo e scheletro di tigre. L'esperimento, pubblicato sulla rivista Plos (Public Library of Sciences) di oggi, è il primo caso di una specie estinta che torna a vivere. Andrew Pask dell'università di Melbourne, afferma che oggi abbiamo solo 1% delle specie che hanno popolato la terra, per cui la ricerca apre prospettive molto promettenti. Fino ad oggi siamo stati in grado di leggere il Dna, ma non di inserirlo in un’altra specie animale. Ogi ci sono riusciti, prelevando del dna da esemplari ben conservati ed impiantandoli nel corpo di topi di laboratorio. Il prossimo passo sarà la creazione di un cromosoma sintetico e tutto per riesumare l’unico marsupiale carnivolo che conosciamo. Di questo passo entro otto anni avremo il primo esemplare clonato di Tigre della Tasmania.
Leggevo poi una notizia, sempre su La repubblica, di fatti di violenza avvenuti in lucchesia. Nel caso non vi sono extracomunitari o minoranze criminali di qualunque sfumatura o categoria penalmente perseguibile. Ottanta adolescenti sono sospettati di aver profittato di una ragazzina di 14 anni. Citando la notizia: “I racconti degli abusi lasciano senza parole. Non è ancora Niscemi. Non ci sono ragazzine pestate ferocemente, strangolate, gettate in un pozzo. Ma anche in Toscana, sempre così orgogliosa della sua civiltà, è allarme sull'"inaridimento del cuore", sul "deserto emotivo", sul "nichilismo" dei giovani, per dirla alla Galimberti. Adolescenti con un filo di barba, a volte appena più che bambini, in branco si trasformano in stupratori, diffamatori, ricattatori. La ragazzina che cede, che è fragile, che ci sta perché altrimenti rischia di essere bandita dal gruppo o svergognata davanti ai genitori, diventa solo un oggetto da usare, una cosa da disprezzare. I magistrati minorili hanno l'impressione di trovarsi davanti a una mutazione. Le violenze che giungono alla loro attenzione sono quasi soltanto di gruppo e spesso corredate di filmini e di ricatti. Così è accaduto in lucchesia, dove all'inizio le indagini hanno coinvolto un'ottantina adolescenti, quasi tutti minorenni, e dove oggi restano sotto inchiesta in 23. L'inchiesta è partita quando, nella notte di Pasqua del 2004, i carabinieri hanno trovato una ragazzina di poco più di 14 anni seminuda in una automobile con quattro adolescenti. […]Così emergono dieci mesi di abusi e almeno quindici episodi di ammucchiate. Lei sola di fronte a quattro-cinque-sei adolescenti. Lei divenuta lo zimbello dei ragazzi del paese. Lei infamata. Dicevano che aveva l'aids, che bastava chiamarla e lei avrebbe fatto questo e quest'altro di sua spontanea volontà. Racconta ciò che è accaduto con lo sguardo fisso, si sforza di non lasciar trasparire emozioni. E' stata bocciata, non ha amici, a volte è bulimica, a volte anoressica. Soffre. Spiega che era tollerante, che perdonava. Così non è facile distinguere i rapporti in cui era o appariva consenziente dalle violenze vere e proprie. Tutto comincia nel giugno 2003, quando va con un ragazzo al fiume, dove ci sono altri ragazzi e poi ne arrivano altri ancora. Uno ha la telecamera. Le chiedono di fare l'amore con ciascuno di loro. L'assillano e la sfidano. Dicono che deve mostrare la sua abilità. Lei si sente in trappola. Sono in tanti. Si sente debole, da una parte vuole conquistare la loro simpatia, vuole soddisfarli, non le va di essere derisa, dall'altra ha paura di essere picchiata e di non tornare a casa. Cede e viene filmata. Dopo comincia il tormento. Qualche ragazzo la minaccia di far vedere la cassetta ai genitori, qualche altro si offre di aiutarla a recuperare il filmato. La spaventano oppure la ingannano. In tutti i casi le chiedono in cambio di fare sesso. E sono sempre in gruppo. Lei si spaventa, cede, diventa ogni giorno più ricattabile. A 14 anni trattata da ninfomane.
I ragazzi si fanno sotto, sono curiosi di sperimentare di persona quello che si dice in giro. Poi c'è chi si è pentito ed è stato male. Ma la maggior parte, quando è partita la denuncia e si sono mossi i carabinieri, ha risposto nel più triviale dei modi: ci stava. Alcuni, forse, ne erano convinti. Ma chi ha usato il filmino per ricattarla?”
Nessuno commento e una sola domanda: questi di quale specie sono chimera? Questi quale dna animale stanno incubando?
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

domenica 18 maggio 2008

Nell'era dei legami liquidi


Sono ormai anni che il sociologo polacco Zygmunt Bauman sta portando avanti un’analisi molto lucida della nostra società post-moderna, affermando che viviamo in una modernità liquida. Il termine “liquido” viene a contrapporsi al “solido” della modernità precedente alla nostra: nella solidità vi era la fiducia nella capacità umana di riplasmare un mondo migliore, un’affrancamento dalle necessità spazio-temporali e una convinzione che l’identità non sia un calco inciso a priori, ma una continua opera in divenire. Nella modernità liquida, la pressione dell’individualizzazione, sta facendo crollare questi argini che fornivano stabilità e riconoscimento reciproco ma, questa enfasi sull’individuo, pone il problema sul concreto diritto ad essere individuo “de facto” e non “de iure”. Individualizzazione e globalizzazione stanno riducendo tutto l’ambito politico nel versante economico, infatti il capitale può spostarsi con grande velocità, in modo che una connessione Internet ed un portatile possono far girare capitali incredibili, cosa invece che non possono fare gli umani, per cui il lavoro resta immobile come nel passato. Bauman afferma che “Alcuni degli abitanti del mondo sono in perpetuo movimento; per tutti gli altri, è il mondo che si rifiuta di stare fermo”. La flessibilità è un sinonimo di libertà creativa per una ristretta elite dedica ad occupazioni intellettuali, mentre per gli altri resta sinonimo solo di precarietà. Nel termine “unsicherheit”, si assommano tre diverse sfumature per indicare la precareità: l’insicurezza lavorativa dichiarata dalla flessibilità, l’incertezza esistenziale e l’assoluta fragilità dei rapporti umani e la vulnerabilità fisica che viene insidiata dalla criminalità. Il crescere di questo sciame di paure è l’effetto cumulato della individualizzazione e della globalizzazione. La tentazione mefistofelica della nostra modernità è quella di potere fare a meno degli altri, per cui le ansie, le angoscie e le paure sono fatte per essere patite in solitudine: la modernità ci consegna un uomo solo, ridotto a sé stesso, euforico e disperato, per questo il condizionamento maggiormente diffuso si basa sulla seduzione, in cui i molti guardano i pochi. Ed in questo guardare ad ideali di pochi, che si viene soggiogati più brutalmente che da una costrizione fisica: l’attenzione sociale e la tensione morale si spostano sull’ultimo matrimonio e scandalo della high society. “Se nell’Ottocento Marx poteva dire che: “L’uomo non aveva nulla da perdere tranne le sue catene”, oggi senza queste catene saremmo persi”, afferma Galimberti.
L’uomo ha fatto propri i due insegnamenti assiomatici della modernità:
• i giorni contano solo nella misura in cui se ne possa trarre soddisfazione, si lavora sul presente quindi godetevi il premio immediato
• qualsiasi cosa si faccia, mantenere aperte altre possibilità, non impegnarsi più del necessario, lealtà e dedizione sono out. Mantenete i vostri impegni ad un livello poco profondo, in modo da potervene liberare senza riportare ferite e cicatrici troppo dolorose.
Alla scuola di Medicina Ponce di Porto Rico si sta lavorando per alleviare il “disturbo da stress post-traumatico” (PTSD) e gli scienziati cercano di aiutare il cervello a “disimparare paure e inibizioni”, per cui si sta cercando di resettare il ricordo delle cose brutte e/o scomode della vita. Gli scienziati dichiarano l’alta eticità della loro ricerca, che vuole aiutare coloro che hanno ucciso e fatto azioni che potrebbero compromettere la loro serenità futura, in modo da non rendere questi esseri dei futuri rifiuti della società. Senza dubbio questo fa riflettere sul concetto di uomo come merce e/o consumatore e sul concetto di riciclaggio di rifiuti, siano essi alimentari o umani, ed in realtà la comparazione delle persone e dei loro rapporti, al valore economico e al campo del business si è ormai consolidata.
Sempre più i giovani occidentali, considerano i genitori che hanno fatto per una vita lo stesso lavoro e che si sono adattati alla quotidianità, come dei deterrenti, dei modelli negativi: inseguire le cose ed acciuffarle al volo, mangiarle ancora calde e fragranti è “in” mentre l’adattamento e la routine è “out”. John Kotter, professore alla Harvard Business School (1995), consiglia di non lasciarsi impelagare da impegni a lungo termine; infatti sviluppare una lealtà istituzionale e farsi assorbire troppo è controproducente, laddove la vita all’interno dell’impresa ha una durata sempre minore. Qui il detto che “il tempo è denaro” è usato all’inverso dell’intenzione: infatti per i nostri tempi il tempo è ladro. Aspettare che arrivi la nostra occasione di gioia o di piacere è un’ingenuità, per cui il passare del tempo porta solo a perdite e non a guadagni, equivale a delle opportunità sprecate, occasioni che non torneranno più. Si soffre di “sindrome dell’impazienza” in cui il messaggio è che il tempo è una seccatura ed una noia, una pena e una mortificazione per la libertà umana come pure l’aspettare che è sintomo di basso status, un sintomo di emarginazione, ed i giornali moderni sono pieni di elenchi di “in” ed “out” con cui fare tendenza.
Mentre si sogna qualcosa senza tempo, come dice il sociologo Alberto Melucci, “siamo afflitti dalla fragilità del presente che richiede solide fondamenta là dove non ne esiste alcuna” ed è l’incertezza il compagno indesiderato, l’ospite inopportuno ed invadente, oggi siamo minacciati continuamente di essere lasciati indietro, di essere messi fuori dal gioco. Ogni impegno ed accordo può essere rovesciato velocemente, ed ogni relazione può essere interrotta o tradita istantaneamente, per cui tenersi in movimento è molto più conveniente che restare o raggiungere una meta. Nella cultura moderna vi è l’emblema del disimpegno, della discontinuità e della dimenticanza. Nessuno spazio per gli ideali di perfezione, lunghi e dispendiosi da raggiungere, vera scommessa su un futuro aleatorio ed ipotetico: sogno e vaneggiamento senza senso. Siamo consumatori appassionati in una società di consumismo. L’America la fa da padrona nelle teorie del rivedibile, per cui la psicologa Elayne Savage raccomanda delle relazioni di coppia rinnovabili, accordi soggetti a ri-negoziazione annuale sul modello dei contratti estinguibili del mercato del lavoro. Qualcuno, tra cui Ray Pahl (2000) ipotizza che le relazioni amicali siano l’ancora di salvataggio della nostra epoca, il solo “veicolo sociale” del mondo tardo-moderno. Le nostre relazioni affettive invece, risentono della stressante ambivalenza moderna: vogliamo relazioni ardentissime e stravolgenti senza voler perdere, sia pure parzialmente, il controllo e l’autonomia che esse implicano.
E’ la nata così la “mania dell’appuntamento veloce” che ormai spopola sia in America che a Londra: un nastro trasportatore di incontri da tre minuti, in cui si gioca l’opzione di essere scelti e di potere concordare un’incontro: se va bene Ok, sennò fine del gioco! Una versione di corteggiamento consumer-friendly, in cui ne sei fuori subito, in cui il riciclo si avvia velocemente, in cui se anche va bene, il rischio appare molto ridotto. Iniziate velocemente, avviate e consumate con velocità, sostituiti con velocità gli inadatti, semmai si sta prospettando la “sindrome da dipendenza” che la velocità di scarico e ricarico, di verifica e ricerca di relazioni, possa invece leggersi come un continuo bisogno degli altri nella nostra vita, con senso di vuoto e di solitudine nel caso di assenza. Abbiamo il terrore di essere esclusi o abbandonati, di essere rinnegati, spogliati, devastati e scaricati perché non abbiamo il senso di noi stessi, siamo soli, senza aiuto e senza destino. Ci manca l’immunità a pensare che possiamo subire una sorte diversa da quella dei nostri rifiuti organici.
Siamo abituati a cercare sempre più soluzioni semplici, per cui di fare percorsi di lungo respiro: ricerche personali, evoluzioni o altre diavolerie, non se ne parla. Ecco allora che, mentre funzionano bene le reti e le connessioni del web, falliscono quelle umane e le relazioni sono sempre più fragili e superficiali, e sia nel lavoro che nell’amore, non si vogliono impegni troppo intimi ed obblighi troppo duraturi. Se tutto dura poco, non ha senso impelagarsi con dei rapporti umani, in cui, si deve perdere tempo per creare senso e per custodire dal logoramento.Per questo non si cercano realtà autentiche ma comunità virtuali, in cui si lavora su “fili episodici di relazioni minime”, come afferma Andy Hargreaves, ed in cui, le relazioni vere sono sostituite da appuntamenti lampo e da msm, moderne creazioni e simulazioni di veri rapporti di amicizia, fratellanza e affetto. Essendo sempre più timidi nei rapporti vis-a-vis tendiamo sempre più a digitare sui tasti di cellulari e di pc. Gli stessi linguaggi contratti e iconici della rete rendono evidente lo “speed” gradito ai nostri tempi, la fagocitazione che il mercato del consumo ha offerto alle nostre ansie, per cui appaioni seducenti molti prodotti di consumo, che puoi acquistare in modo più veloce, rispetto alle persone. La pubblicità associa sempre più i suoi oggetti alla passione, alla sensualità, all’intrigo e alla desiderabilità e noi siamo sempre più alla ricerca di nuovi oggetti del desiderio. Il consumismo ci dovrebbe consegnare le sue verità e noi dovremmo capire che:
• l’usa e getta deve farci ricercare le sicurezze del vero abbraccio umano
• i nostri bisogni di sicurezza ci spingono verso le false comunità dei centri commerciali
• i beni di consumo che compriamo in tali centri ci servono da anestetico e consolazione, riempiono le case e non il cuore e l’anima.
Ma siccome siamo tardi o pigri, comperiamo il nostro nuovo cellulare e torniamo a casa, appena in tempo per vedere l’ultima puntata di Amici o del Grande fratello, dove fanno a pugni per entrare nell’ “usa-e-getta” del divismo, dove tutti sgomitano dimostrando che per vincere, l’importante è sopravvivere a tutti gli altri.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

giovedì 15 maggio 2008

La morte di Socrate


Qualche tempo addietro, leggevo un articolo trovato in un sito di psicologia analitica. L’articolo affermava che la nostra epoca manca completamente di grandi uomini, di grandi figure che abbiano saputo riassumere e concretizzare i valori più elevati dell’essere umano. La storia ha partorito questi uomini grandi che hanno saputo impersonare e praticare la libertà di pensiero, che si sono saputi elevare oltre le meschinità, trascinando e coinvolgendo la coraggiosa visionarietà di ciascun uomo: grandi persone che hanno saputo farci sentire in grado di lottare in nome dei grandi ideali umani, capaci di sfidare il mondo in nome di valori. Al loro posto, si affermava, sono comparse delle caricature di umanità, anche caricature positive, ma caricature di piccoli sogni e di piccola caratura. Su questi umuncoli si sono basate le descrizioni delle mezze misure, del “buonismo”, che è l’apoteosi dell’incapacità di critica e di coerenza. Caricature pericolose perché capaci di minimizzare il messaggio , di rinforzare una carenza e/o debolezza di valori, trasformandolo in valore reale ed autentico. Questa epoca è orfana, affermava l’autrice, è carente di questi grandi padri.
A me è venuta in mente la morte di Socrate, che bene caratterizza come gli uomini abbiano spesso trattato questi grandi padri e maestri. Il processo a Socrate avviene nel 399 a.C. ed il clima politico non è certo secondario, ai fini dell’indagine sui motivi che resero possibile una condanna così dura contro il vecchio filosofo. Appena cinque anni prima, la guerra del Peloponneso aveva visto la sconfitta di Atene e la vittoria di Sparta, per cui in Atene era andato al governo un gruppo di oligarchi, il governo dei “Trenta tiranni”, un regime assai compiacente con i vincitori e che viene ben presto rovesciato. Viene avviata un’operazione di eliminazione dei collaborazionisti e di condanna all’esilio dei simpatizzanti degli spartani. Ben presto giunge la voce che gli esiliati preparano la riscossa, per cui il nuovo governo di Atene, fa uccidere i capi degli oligarchi e richiama gli esuli in patria, dove li sottopone ad un regime di rigido controllo. Nel 399 la città è ormai libera seppure provata dalle epurazioni, che appaiono ridotte al minimo indispensabile e non troppo cruente, ed Atene appare rientrata in un regime di democrazia dialettica. Questo clima viene disturbato dal processo a Socrate, che è essenzialmente un processo politico contro un intellettuale scomodo. Nello stesso periodo, moventi politici vi furono anche nel processo contro Andocide (400), nella mutilazione delle erme (415) imputata ad Alcibiade per frenare la vertiginosa ascesa del giovane leader democratico e nel processo ad Anassogora (448) mirante a turbare lo strapotere di Pericle.
Nel caso di Socrate, vediamo che il regime ateniese è ancora debole, per cui poco tollerante rispetto ad una personalità come quella del grande filosofo, dotata di un carisma e di una virtù eccezionali, tali da mettere in crisi anche il più stabile degli apparati. La filosofia favorisce l’affermarsi delle personalità individuali, si schiera, sempre e decisamente contro la massa facendo emergere il singolo, colui che possiede opinioni e pensieri propri, ed il livello di Socrate è gigantesco, per cui la lotta è all’ultimo sangue. Egli insegna come, a tutti gli uomini, sia dato riflettere e quindi come essi siano in grado di liberarsi, conoscersi ed elevarsi, da soli, al disopra della massa. La portata del messaggio è rivoluzionaria, e la sua filosofia è destabilizzante, perché libera, perché pensiero cosciente, perché è libertà che incita ad altra libertà, “il filosofo serve alla città, perché sveglia i cittadini dal sonno”. Socrate che gira per Atene ed istiga a ragionare, a farsi domande, ad elaborare critiche per fare nascere nuovi modi di ragionare, uno come lui mette in crisi il sistema in modo intollerabile. L’accusa dichiara nettamente un tale movente: “Accusa mossa e giurata da Meleto figlio di Meleto del demo di Pitto contro Socrate figlio di Sofronisco. Socrate commette reato non credendo negli dei in cui crede la città e cercando d’introdurre nuove divinità; commette anche reato corrompendo i giovani. Pena: la morte.” Ma potrebbe Socrate, in cambio della vita, rinunciare a quello stile di vita che tanta ostilità ha scatenato contro di lui? No! Egli non smetterà di filosofare, facendo vergognare tutti quelli che, interessati ai soli beni materiali, non perseguono la virtù. I suoi accusatori, in alcun modo possono nuocergli, giacché un uomo di un certo valore non può subire danni da uno che sia peggiore. Si accommiata dai suoi giudici dicendo: "Ormai è ora d’andare, io verso la morte, voi verso la vita. E’ ignoto a tutti, chi di noi vada verso il destino migliore, tranne che alla divinità". Così si avvia incontro al suo destino, ricordando a Critone il suo debito di un gallo con Esculapio.
Ritornando all’articolo di cui dicevo all’inizio, nello stesso si affermava che nei nostri tempi, vi è “la sfida di restare in vita senza perdere l’amore per la conoscenza, l'amore per gli altri uomini, il bisogno di cambiare e di vivere in un mondo diverso.” Dobbiamo fare una scelta di vita, se “farla vivere o lasciarla morire soffocata dall'impotenza, dalla nostalgia, dalla perdita di senso, dallo sgomento rispetto ad un mondo sempre più povero, questo è a mio avviso la posta in gioco che oggi turba i nostri animi.”
Ed io ho, dapprima condiviso quest’osservazione, ho condiviso il lamento per la mancanza di grandi uomini, di grandi persone, di intellettualità libere ed orgogliose. Ma poi, ieri l’altro, mentre leggevo un’intervista di Zygmunt Bauman, mi è tornato in mente l’articolo e ho pensato che non era vero, che l’articolo non era del tutto condivisibile. La nostra epoca ha avuto recentemente ed ha ancora grandi uomini, potrei citarne moltissimi. No! Non abbiamo bisogno di grandi uomini, abbiamo piuttosto bisogno di grande coraggio, coraggio di essere noi stessi, coraggio di vedere chi siamo, coraggio di portare avanti quello in cui crediamo, cioè i nostri ideali. Non abbiamo coraggio perché perseguire l’ideale è considerato una cosa stupida, un’ingenuità imperdonabile, una forma di “buonismo”, termine immondo che si fa equivalere a coglioneria. Allora ci si lamenta di perdite di identità o di coscienze, di assenze di buoni esempi, della morte dei grandi maestri. Spesso ci facciamo “infinocchiare” da personaggi burini e grossolani, da mezze calzette di periferia, per poi lamentarci di essere privi di grandi esempi, di dignità, di coerenze e di coraggio. In questi giorni c’è la polemica contro Marco Travaglio, attaccato da Sgarbi e querelato da Schifani. Ho visto il programma e devo dire che ho trovato ignobile il modo con cui è stato trattato. Senza dubbio qualche “Lor Signore” non tollera che un uomo sappia tenere alta la testa e ragionare con il suo cervello, che sappia ancora parlare fuori dal coro, che si permetta di rendendo noto l’operato della classe politica, bucando lo schermo con l'educazione e la pacatezza. Qualcuno dimentica che le accuse di Travaglio, sono fatti, perlopiù fatti giudiziari, fatti inclusi nei faldoni di procure e di tribunali, insomma la “carta che canta per non far dormire il villano.” Questo tempo non mi sembra che sia molto lontano dai tempi dell’antica Atene, quando Socrate fu condannato per essere un personaggio scomodo, un intellettuale troppo critico. Naturalmente auguro una lunghissima vita a Travaglio, di cui sono lettrice ed estimatrice convinta, e affermo che invece abbiamo ancora belle intelligenze. Vi sono ancora, ma noi preferiamo dire che ormai non esistono più. E’ il nostro alibi, è il nostro anestetico, è il nostro modo per restare dove siamo, un escamoutage per non divenire persone migliori.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

domenica 11 maggio 2008

Antigone ovvero la politica del ribelle


Michel Onfray è un filosofo francese, della corrente definita libertaria e antiautoritaria, è un rappresentante della sinistra alternativa, ipotizzatore di un progetto di «capitalismo libertario». Fortemente critico con l’insegnamento della filosofia nelle scuole, solo come storia della filosofia e non come apprendimento del “ragionare filosofico”, metodo logico da utilizzare come strumento di vita. Per Onfray l'onestà intellettuale e la conoscenza del mondo sono strumenti inevitabili, per cui la filosofia deve unirsi alla psicanalisi, alla sociologia e alle scienze naturali per potere fornire delle analisi che siano aderenti alla realtà. Nella sua opera “La politica del ribelle: trattato di resistenza e di insubordinazione” Onfray apre una riflessione sulla politica e sull’ipotesi di una società libertaria. Nella dedica omaggia Nietzsche “Odioso m’è seguire e far da guida” ed apre confessando onestamente “L’autorità mi è intollerabile, la dipendenza insostenibile, la sottomissione impossibile.”
Per Michel Onfray, ogni politica propone un’arte per soggiogare l’individuo e per farne un assoggettato, sfruttando i difetti ed i vantaggi che la persona concede. Il soggetto è sempre soggetto a qualcosa o a qualcuno, per cui l’autorità ama il soggetto sottomesso, tanto quanto odia, teme e detesta l’individuo combattivo. Il soggetto si definisce rispetto all’autorità, in buono o cattivo soggetto, in brillante o mediocre, distinguendo così coloro che cedono al principio di sottomissione rispetto gli altri, le pecore nere. Tenendo sempre presente la coscienza che si ribella e non accetta. Come dice Robert Antelme, il soggetto non si definisce tanto per la sua libera coscienza, quanto per il suo intelletto soggiogato, costruito per accondiscendere all’obbedienza. La figura dell’individuo, fuori da ogni riferimento sociale e culturale, afferma Onfray, appare piuttosto come unica ed indivisibile, in una sorta di solipsismo, “solus ipse” in virtù della quale ogni individualità è condannata a vivere la sua sola vita, e soltanto quella, a sentire, a sperimentare il positivo come il negativo, per sé sola e da sé sola. Tutto ciò, si conosce si sperimenta da soli, senza potere trasmettere nulla della proprie emozioni ad altri, se non sul piano partecipativo. La politica, sfruttando la debolezza a costruirsi come entità, eccelle come tecnica di integrazione dell’individualità in una logica olistica dove l’atomo perde la sua natura, la sua forza e la sua potenza. Tutti i progetti di società che hanno avuto la pretesa di ricorrere alla scienza, alla positività, all’utilitarismo, hanno posto questo assioma: l’individuo deve essere distrutto e poi riciclato, integrato in una società, in una comunità fornitrice di senso. Tutte le teorie di controllo sociale si basano su questa logica:
• Fine dell’essere indivisibile
• Abbandono del corpo proprio
• Avvento del corpo solidale il solo abilitato ad essere individualità
Una politica che scriva per la monade è ancora da inventare, avvisa Onfray, per ora la politica propone da secoli delle variazioni fatte sul tema di negazione dell’individuo. Esso è percepito come particella e frammento che invoca per essere; la sua sottomissione e la sua soggezione è in nome del tutto che si induce a farla finita con la parte, la quale comunque trionfa come un tutto a sé stante. Tutte le politiche hanno mirato a questa trasmutazione dell’individuo in soggetto: la monarchia in nome del re, i comunisti in virtù del corpo sociale, i fascisti nel nome della patria militarizzata e sana, la nazione omogenea, le chiese in nome di Dio ed il capitalismo in nome del denaro e del mercato.
Il sacrificio del diverso è sempre celebrato in nome di queste ideologie celebranti: Dio, Re, Socialismo, Comunismo, Stato, Patria, Nazione, Società, Razza, Denaro, e altri artifici. In tali mondi, in cui si celebra il culto degli universali, poco spazio resta per l’individuo, che è una quantità trascurabile. Lo si tollera e si celebra solo quando mette la sua esistenza al servizio della causa a cui tutti celebrano il culto. “Dove sono gli individualismi solari e solitari, magici e magnifici?” si chiede Onfray. Una politica libertaria – afferma - è possibile, è una politica che ribalta le prospettive e che sottomette l’economico al politico, pone la politica al servizio dell’etica, fa primeggiare l’etica della convinzione sull’etica della responsabilità; infine riduce le strutture al solo ruolo di macchine al servizio degli individui e non il contrario. La politica libertaria vuole una società aperta, in cui i flussi di circolazione siano liberi per le individualità suscettibili di andare e venire, di associarsi, poi separarsi, di non essere trattenute e contenute da una ragione di autorità che le metterebbe in pericolo; danneggerebbe la loro identità fino ad ucciderla.
L’unità della specie umana rende falso e folle ogni tentativo di scavare differenze tra gli individui, il trasformare leggere crepe in solchi incolmabili: è su questi abissi che si costruiscono i regimi di asservimento e di sfruttamento, nei quali l’unità della specie umana diviene una mostruosità ontologica, per cui gli individui vengono posti in condizione id essere sfruttati o sfruttatori. Il trionfo dell’ideologia della divisione, presuppone la negazione dell’unicità ed unità della specie umana: questo frazionamento artificiale pone la base per gli sfruttamenti ed i regimi disciplinari. Il solo modo di relazionarsi, in tali contesti, rimane la sottomissione, l’assoggettamento; la legge darwiniana della sfruttamento del più forte sul più debole. In questa volontà di gerarchia, in questo desiderio di compartimento, di ripartire e strutturare gli individui, tali regimi si impegnano per svilire, umiliare. Agiscono per trasformare, marchiare e disumanizzare per poi invitare a constatare l’animalità dell’individuo assoggetato e schiantato. Tutto ciò avviene, non solo nei regimi totalitari e nei campi di concentramento, ma anche nelle nuove “cattedrali del dolore” come le fabbriche, le aziende, le periferie, le suburre moderne, e in ogni luogo in cui il capitalismo organizza e gestisce l’esistenza umana.
“Una morale di padroni, associata alla loro potenza, incrocia i desideri, i sogni, le aspirazioni di anime erranti e senza destino. Poveri e proletari condividono con il deportato la privazione, la miseria, l’aasenza di futuro. […] Speranze vietate; diritti per i padroni, doveri per gli schiavi.” Responsabilità della società è evitare che qualcuno sia portato agli estremi nella rivendicazione del proprio bene, in virtù dei suoi diritti naturali. Quali sono questi essenziali diritti naturali? Vivere, o almeno sopravvivere, equivale alla soddisfazione dei bisogni del corpo e della mente nella misura in cui, così appagati, essi autorizzano l’esistenza di un corpo che sia e che resti lontano dalla sofferenza, come pure di un’anima nelle stesse condizioni, purchè essa sia mantenuta nella dignità. Il corpo ha diritto, secondo il principio vitalistico ed edonistico, di tutto ciò che permette il mantenimento della salute, ovvero lo sviluppo ed il recupero della stessa. Ricevere assistenza e cure appropriate e, infine, quando muore ha diritto ad una sepoltura degna di tale nome. Il capitalismo non è assolutamente civilizzato perché ha trovato più di una interdizione o un rifiuto di questi bisogni naturali essenziali, che si riconoscono come diritti naturali. Per mangiare e per bere bisogna pagare, per dormire bisogna pagare, per avere livelli di salute accettabili bisogna pagare delle quote aggiuntive e delle integrazioni, a volte dei servizi non forniti. Per la morte poi la civiltà capitalistica propone uno dei mercati più lucrosi che si immagini. Ecco la gestione sociale del capitalismo in cui i ricchi percorrono tutto il tragitto, riportando molti meno danni di chi ha poco o nulla. Figurarsi se tale società può acconsentire a bisogni spirituali! Le trasgressioni spirituali non sono visibili per cui appaioni meno gravi e spesso si lascia correre, ma se le trasgressioni sul corpo fisico portano alla morte, quelle spirituali portano alle anime morte e agli spiriti corrotti, inariditi, inaciditi, cupi. Sono questi gli abitanti delle terre desolate, afferma Onfray, in cui ritroviamo gli astenzionisti, gli elettori dei partiti protestatari simbolici, e peggio ancora tutti i sostenitori di falangi armate, di fronti nazionali, di aggregazioni fasciste che incitano a politiche di divisione ed oppressione.
Anche le politiche culturali sono divenute festivi e tribali, olistiche e gregarie, semplicistiche e triviali, non tanto provocatorie occasioni di praticare l’arte del ribelle, ma piuttosto l’occasione di assumere il ruolo del consumista soddisfatto. Resta solo l’amicizia come fortuna casuale di affinità elettive e di elezioni singolari, una virtù che manca e che invece dovrebbe celebrare la fine di un secolo che è stato tanto carente di principi comunitari. Queste intersoggettività sfolgoranti rendono ancora possibile l’incontro di opere e di saperi critici, lontani dal pensiero delle mode del tempo, che fanno della cultura un mezzo per impossessarsi del mondo e per cambiarlo, per farlo diverso e migliore. La sconfitta del pensiero non è ancora totale, ed il trionfo della barbarie non è definitivo. Il disegno del pensiero critico libertario consiste nell’opporre la cultura a tutte le forze oscure e gregarie, far rivivere in modo attualizzato lo splendore dell’epoca dei lumi. Nella sua arringa per la specie umana, Onfray richiama al coraggio alla disobbedienza di Antigone, alla definizione di vita di Bichat, per cui essa è l’insieme delle forze che resistono alla morte, in onore all’obiettivo nietzschiano di “Nuocere alla stupidità”.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

giovedì 8 maggio 2008

Il trionfo dell’apparenza


Mi sono trovata a leggere un libro veramente gradevole “Il trionfo dell’apparenza: senza più regole, senza qualità, senza pudore, indifferente al fututo. Ma davvero il Terzo Millennio è così vuoto come sembra?” di Pino Aprile, giornalista, scrittore, e ex-direttore del settimanale Gente. E’ un libretto che si legge molto bene, scritto con garbo e chiarezza, ma non per questo leggero o sciocco: è un saggio sul costume sociale della modernità, sul vizio dell’apparire come male sociale primario dei nostri tempi.
L’autore inizia affermando che tutti ci spettavamo grandi cose dal terzo millennio, ma qualcosa non è andata per il verso giusto infatti, verso la fine del Ventesimo secolo è arrivata la Bolla, intesa come una superficie che si espande per racchiudere un nulla sempre più grande. La bellissima metafora è usata per raffigurare l’irrazionale crescita delle quote azionarie delle aziende informatiche, cioè di tutte quelle attività che furono lanciate dall’esplosione del web, e che fece crescere il valore delle aziende informatiche in modo spropositato ed irreale, fino a condizionare fortemente le borse mondiali. Chiaramente fu il forte interesse del mercato, cioè della domanda, a fare lievitare il valore ed i prezzi di beni che si vedevano come preziosi strumenti per guadagni futuri: una scommessa sul domani, degenerata per eccesso di scommettitori e di fiducia.
Così, afferma Aprile “per conquistare una ricchezza a venire, venne bruciata una ricchezza che già c’era” ma poi, passato il primo entusiasmo la bolla si ridimensionò e le aziende tornarono alle quotazioni che corrispondevano al loro valore reale: così tante aziende furono travolte dal tracollo. Ma la bolla non è un fenomeno solamente economico, si afferma, la bolla è un fenomeno che ha investito anche la società e si è scatenata una generale, incontenibile supervalutazione di cose di scarsa importanza, in ogni campo, con l’esaltazione dell’apparente e del futile. Tale fenomeno è una sorta di inflazione del vuoto, a cui il buon Silvio Berlusconi ha saputo dare voce per primo, con una geniale costruzione e manutenzione di facciate mediatiche. La sua nascita in un habitat, come la televisione, che è l’industria dell’immagine lo dimostra, come pure la creazione del suo partito che sembrava “di plastica” come dissero beffardi molti commentatori, ma che ha saputo tenere ed accrescersi, anche recentemente, dopo avere cambiato sigla e immagine. Berlusconi sconcertò per le calze di nylon con cui nascondeva le rughe, per le scarpette con rialzo, per il trapianto di capelli accompagnato da bandana, per i suoi consigli di estetica e di vita ai collaboratori, per il richiamo ad una maggiore eleganza fatto ad una giornalista del TG3 e per altre facezie simili. Comunque, continua Aprile, mentre qualcuno faceva drammi per la sostanza tradita, lui faceva vedere un’apparenza vincente e, seppure molti lo incolpino di avere causato una sorta di involuzione culturale degli italiani, va pur detto che il terreno era fertile per recepire il messaggio. La berlusconiana celebrazione del nulla lucido, ha trovato terreno fertile: il vuoto giusto, al momento giusto, per le persone giuste.
Per Pino Aprile, le bolle sono state ricorrenti nella storia italiana del secondo Novecento: la prima fu quella giudiziaria del dopoguerra con cui l’attenzione isterica ai fatti di cronaca nera, fecero avvertire fortemente l’esigenza di giustizia dopo un lungo periodo che ne aveva vista ben poca. Ci fu poi la bolla degli anni ’60 con cui si cominciò a cercare il superfluo dopo avere patito la mancanza del necessario, accompagnata dalla passione per il gossip; fatti e parole leggere aiutavano a fare rilassare l’animo, una volta usciti dal bisogno. Sia pure gossip, ma autentico gossip avverte Aprile, poichè le cose erano vere come pure erano vere le vicende di Liz Taylor, Titti di Savoia, Mina o Stefania Sandrelli, mentre il gossip di oggi è tutto costruito a tavolino dai vip e dai giornali. Tutto oggi è costruito su effimere fortune e su ricostruzioni sapienti di scenari in cui i fenomeni del divismo: capricci, eccessi, lussi, scandali e spese eccessive, sono sapientemente dosati e calcolati. Mai abbiamo avuto una stagione tanto piena di esibizionismo, di sesso e di possesso, costruito con la malizia dai mercanti di immagine.
Il mito di Atteone spiega bene le insidie dell’apparenza. Atteone, andando a caccia con i suoi cani, vede la dea Diana, che a mezzogiorno, cerca sollievo dalla calura nelle fresche acque di un fiume. La vede con il sole a picco, in pieno sole, in un modo che nulla sia nascosto, ne profana il pudore di donna.
La dea punisce Atteone per avere rivelato ciò che deve restare oscuro ed umbratile della natura umana, e Diana è dea della luna, del mistero e della penombra: dell’incompiutezza dell’anima. Essa è dea del bosco, nella cui penombra germogliano colpe e desideri, e dove il dolore e la paura cercano riparo nella solitudine. Diana è dea del mistero femminile, che nell’ombra si cela e che va intuito, che va vagheggiato e perfino temuto: sensibile e terribile. Tale verità va avvicinata con delicatezza e tutta la comprensione che una tale complessità merita, non con la britalità di una visione totale e brutale. Solo perché si vede tutto si da per scontato di capirne l’intero valore, e mentre si coglie l’apparenza, sfugge il significato della intima essenza. E’ proprio con la punizione della piena apparenza che la dea punisce Atteone e lo trasforma in cervo, ma in modo che solo all’esterno lo sia, pur conservando tutta l’essenza umana. Lui vorrebbe gridare che è un uomo, ma non può farlo perché appare essere un cervo, per cui i suoi stessi cani lo braccano e lo sbranano. Lui stesso cade vittima degli animali che aveva addestrato, lui stesso è artefice della sua fine. Perché se Diana, senza l’ombra non è dea, anche Atteone senza la profondità non è uomo, è animale.
La nostra società ha costruito sulla bolla molti personaggi, ma il meccanismo è sempre lo stesso: più il valore della cosa è minimo, maggiori sono i toni con cui viene presentata, siano essi di entusiasmo, biasimo, ammirazione, dolore, sdegno, etc. Grandi rumori che lasciano poche tracce, così la Bolla di Apparenza nei primi anni del Duemila ha mostrato effetti di grandiose apparenze, per la violenza, la dimensione, il rumore, l’agitazione. Mai come oggi la famiglia viene maggiormente celebrata e mai appare tanto indefinita nella sua essenza, essendo allargata, tradizionale, omosex, di fatto, mononucleare, etc. Mai come oggi viene tanto dichiarata l’attenzione per i bambini e se ne fanno tanto pochi, mai come oggi furono creati più divi e mai ve ne furono così pochi di veri, mai come oggi vi furono così pochi cattolici con la pretesa di controllare così totalmente la vita politica del paese. Mai come oggi, la bellezza è stata tanto celebrata e mai è stata tanto falsa e costruita sui lettini dei chirurghi. Mai ci fu minore visione del futuro e si ebbe maggiore pretesa di costruire su interessi miserabili, mai si celebrarono tanti calibri politici che vediamo non esistere, mai fu a rischio la libertà di informazione come oggi che abbiamo infiniti mezzi di comunicazione, ne mai la propaganda riuscì più profondamente a costruire un’informazione tanto conformista. Ma, come la bolla informatica seppe alla fine tornare alle sue vere dimensioni, anche la Bolla delle Apparenze sembra mostrare dei segni di stanchezza che si registrano nella diffusione del volontarismo, nel bisogno di maggiore stabilità sentimentale, nella stanchezza alle smanie dello star-system, e siccome “non solo gli imbecilli sognano in grande […] alcuni visionari di genio vedono lontano e sentono cose profonde: disegnano, a partire dai nostri errori, possibili domani”.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

martedì 6 maggio 2008

I mercanti della felicità


Si chiedeva Freud “Quanta felicità barattiamo per la sicurezza?” e naturalmente questa domanda è condannata a rimanere senza risposta. Non possiamo sapere quanto saremmo stati felici se avessimo fatto una scelta piuttosta che un’altra: possiamo provare ad essere noi stessi e poi provare a costruire la nostra felicità. Nell’assumere i connotati della nostra essenza, il punto di partenza è che l’espressione della nostra personalità deve avvenire senza la paura di potere essere giudicati e condannati. Il passaggio dall’essere noi stessi all’essere quello che gli altri desiderano da noi, avviene da bambini, quando impariamo ad accontentare gli adulti in cambio della loro approvazione. Quando ci accorgiamo che la vera espressione della nostra personalità, non incontra il consenso degli adulti, impariamo a bloccare la nostra naturalezza e la nostra spontaneità e iniziamo a costruire le nostre corazze. Le corazze sono le difese che reputiamo utili per difenderci dal dorore di sentirci alienati dal nostro vero essere, dalla nostra anima.
Spesso non ci rendiamo conto che, nell’essere adulti, vi è la libertà di sperimentare la nostra vera essenza, il nostro vero io, e continuiamo ad usare anestetici e trucchi per continuare con il copione che ci abbiamo appreso, malgrado i nostri sentimenti ci facciano capire che non siamo felici. Siamo presi così in un’altalena di emozioni ora positive e ora negative, restando in balìa di uno squilibrio di cuore e anima. Sembra difficile liberarsi dal circolo vizioso, e spesso non ci riesce. E’ invece necessario iniziare ad amare il nostro modo di essere, sia pure cercando sempre di migliorarsi: è questo il primo passo per la riconquista della propria felicità. E’ un cammino difficile e coraggioso che richiede una forte determinazione e una grande coerenza morale, soprattutto perché bisogna lavorare su meccanismi arcaici del nostro sviluppo. L’atteggiamento compiacente che si adotta, in cambio dell’accettazione dell’altro, sviluppa un “falso sé” che viene confuso con il vero essere della persona. Il filosofo Umberto Galimberti, nello scritto “La grande tribù dei prevedibili” del 2002, afferma che, nell’epoca della tecnica e dell’economia globale, l’uomo è spinto all’”omologazione di principio” che è la condizione in cui il lavorare insieme equivale al collaborare. Ciò permette di avere una precisa previsione delle mosse di ogni individuo, in modo da permettere una pianificazione anticipata e maggiormente funzionale dell’apparato sociale stesso. La nostra società agisce rivendicando una “coscienza omologata” in cui si richiede una coscienziosità, cioè una coscienza conformista che si può facilmente controllare ed ottimizzare.
Fin da bambini ci insegnano che il successo è facilmente perseguibile se ci si adatta alle altrui esigenze, e così vengono incoraggiati gli atteggiamenti di imitazione: incoraggiati sia dalla famiglia che dalla società. Quando si manifesta un disagio nell’adottare un atteggiamento imitativo e non ragionato, si viene accusati di non avere quel “sano realismo” che garantisce il successo sociale. Coloro che osano discutere e contestare questa accettazione supina e acritica della vita, sono tacitati con l’accusa di essere dei disadattati, dei bastian contrari o dei contestatori adolescenziali. In realtà, nel mondo odierno, emergono concezioni uniche ed univoche della realtà, a cui ognuno deve aderire o soccombere. Chi si chiama fuori è un emarginato sociale. L’atteggiamento conformista è l’unico che viene accettato, sebbene esso offra catene più solide di quelle della coercizione degli schiavi del mondo antico. Noi tutti siamo schiavi delle comodità e delle opportunità che il mondo ci offre e con cui ci asserve: a quelle catene volentieri offriamo polsi e caviglie. Inutile dire che, al condizionamento offriamo tutta la nostra complicità o perlomeno facciamo mancare il nostro diniego. Gli stessi mezzi di comunicazione mettono in scena delle realtà uniche in cui la visione del mondo è mediamente o molto ristretta e ripetutamente ed ossessivamente riaffermata. Ciò che ascoltiamo è quello che vogliamo sentire, perché è quello a cui ci abituano, perché è quello a cui dobbiamo aspirare. Le differenze individuali sono fortemente penalizzate e il messaggio prevalente è la ripetizione in fotocopia di ideali di vita, di bellezza, di successo, etc. Non abbiamo dei media in cui viene messo in atto un reale scopo di comunicazione, piuttosto vi è una banale e nevrotica ripetizione di stereotipi sociali e culturali. La comunicazione è possibile solo laddove vi sia la reale messa a confronto di esperienze: la convenzionalità e il formalismo sono le principali caratteristiche che vengono accettate e propugnate. In questo modo si incoraggiano le introiezioni di “falsi sé” e s’incoraggia l’individuo ad aderire ad un’idea costruita e falsa di necessità, bisogni ed ideali, ai limiti della schizofrenia personale e sociale. Questa dissociazione si osserva soprattutto a livello corporeo, nella rincorsa ad ideali fisici che spesso sono inadatti o impossibili da perseguire per la persona, ma a cui il consenso sociale condanna ad aderire. Le persone imparano ben presto a travestirsi sotto altre individualità e molto spesso tale travestimento dura tutta la vita. La vita diventa un palcoscenico su cui la persona indossa una maschera sociale e culturale, che gli è stata saldata a viva forza sulle carni fine a diventarne parte inscindibile: il palcoscenico è tutta la vita e tutta la vita diventa un palcoscenico. Il travestimento assume maggiore valore, tanto più garantisce un apparente successo nella vita, nel lavoro o nei sentimenti: è solamente necessario rinunciare al calore dei sentimenti e alle vibrazioni delle emozioni.
Gli spazi privati, confusi con quelli pubblici, diventano tutt’uno nel controllo globale dell’individuo, e quando il disagio all’adattamento conformista diventa troppo soffocante, allora si chiamano in gioco le terapie dell’anima, le psicologie di rito. Nel nostro mondo sono sempre più fortemente emergenti tutte le psicologie dell’adattamento, mentre cadono sempre più in crisi le analisi del profondo, in cui vengono indagate e messe in luce le dissonanze individuali ed esistenziali. Trionfano invece, tutte quelle psicologie in cui viene valorizzato l’essere conforme ed adeguato alla società, in cui ogni conato individualistico risulta sgradito: viviamo in una società omologante in cui la diversità è un fattore di disturbo. In questa società le differenze, le specificità, le competenze e le abilità personali sono guardate con sospetto e fatalmente emarginate. Il travestimento del proprio vero essere è divenuta una moda molto in auge nel nostro tempo, ed è il sintomo di un’epoca in cui, il motto del Tempio di Apollo a Delfi, “Conosci te stesso”, potrebbe essere scambiato per una bestemmia. Le condotte ed i comportamenti sono conformi a quelle che la società ritiene accettabili e le condotte trasgressive vengono ammesse solo se praticate in ambiti estremamente privati e discreti. Le persone vengono così convinte a nascondere il loro vero essere, nella convinzione che la comunicazione di vissuti soggettivi possa essere non compresa e non condivisa dagli altri. L’essere sè stessi, l’essere centrati sul proprio essere, la scarsa adattabilità a condizioni non liberamente negoziate, vengono stigmatizzati come atteggiamenti individualistici perché non funzionali in una società fortemente omologata ed omologabile. Il mascheramento della propria essenza assume il valore di protezione da tali scomodi, si assume quindi la maschera di un non coinvolgimento emotivo che può divenire una fortezza veramente impenetrabile. Il falso sé che si spende a livello sociale diviene brillante ed affascinante solo con lo scopo di continuare ad essere guidato ed apprezzato. Il desiderio di esprimersi, di provare dei sentimenti, di coltivare degli interessi personali, viene vissuto come egoismo ed autocolpevolizzazione, viene soffocato fino a precludersi ogni aspirazione o desiderio di realizzazione e di felicità personale.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

sabato 3 maggio 2008

L’aliena sbarcata da Marte


Sono arrivata alla conclusione di essere stata rubata dalla culla e di essere stata esiliata sulla Terra. Mi sento come appena sbarcata da Marte. Da bambina ho avuto la speranza che i fratelli marziani venissero a riprendermi, ma oggi sono persuasa che ormai si sono dimenticati completamente della mia esistenza. Quindi mi sono rassegnata a stare in mezzo a questi esseri che costituiscono la maggior parte degli abitanti della terra. Mi sono adattata frequentando degli affini, ma la maggioranza mi è assolutamente aliena e spesso, nel caso in cui la incontro in modo troppo ravvicinato, mi riesce del tutto nociva.
Ieri pomeriggio in palestra, stavo facendo due chiacchiere mentre mi stavo preparando per tornare a casa, quando una signora ha iniziato un vaneggiante discorso xenofobo. Lei è preoccupata perché la razza pura si sta perdendo, non ha detto dove, ma lo smarrimento è certo. Aveva sentito dire che in Francia stanno diminuendo le persone con gli occhi azzurri, sono in aumento solo gli extra comunitari. Io gli ho fatto notare che mi sembra strano potere dire quante persone hanno o meno gli occhi azzurri, nel campione di un’intera popolazione, come nel caso della Francia. La retore, imperterrita ha continuato a dire che, anche nell’Italia centrale, le popolazioni si stavano estinguendo, come nel caso degli etruschi. Gli ho fatto genericamente notare che gli Etruschi erano già pochi ai tempi degli antichi romani. Ma lei di seguito, sempre più convinta, ha continuato ad asserire che invece le razze regionali, come quella toscana, l’umbra e le altre sono ancora presenti, seppure a rischio. A quel punto gli ho detto che la storia è fatta di popolazioni che migravano, che si spostavano e di popolazioni che si sono mischiate: insomma il futuro è dei meticci e non dei puri. Ma la signora in oggetto, preparandosi per fare la doccia, imperterrita continuava a blaterare, del tutto refrattaria al dialogo. Ormai il suo era diventato un soliloquio sulla purezza perduta della razza, sull’aumento degli orientali e mediorientali, sul fatto che lei, mai e poi mai, avrebbe voluto avere un matrimonio con uno di una diversa religione. E che comunque, ha ribattuto - buttandosi un telo bagno sulle spalle e minacciosamente armata di bagnoschiuma - insomma che se la finissero questi stranieri di ammorbare la nostra vita. Io e un’altra tizia che eravamo state le testimoni della concione, siamo rimaste perplesse, io ho preferito prendere la mia borsa ed uscire, ma quelle parole mi avevano disturbato. Ero ripugnata, non solo dai discorsi, ignoranti e qualunquistici che avevo sentito, ma anche dall’acredine che trapelava dal tono velenoso della signora. Devo dire che mi alleno in una palestra normale, frequentata mediamente da persone normali, di tutte le età e con interessi diversi, ma non è la prima volta che sento discorsi qualunquistici e razzisti. Altre volte avevo sentito altri stupidi commenti sugli omosessuali e sui veri uomini, e altre delizie intellettuali di pari livello, per cui mi sono persuasa che non sono loro gli strani; la strana sono io, sono io la marziana! Io sono profondamente convinta che le persone si debbano giudicare dalle loro azioni e non dalla loro apparenza. Sono contraria ad ogni forma di discriminazione, sono contraria ad ogni forma di sopraffazione, sono allergica all’ignoranza ed alla miopia intellettuale, eppure mi sento scema per il fatto che riesco ancora a stupirmi che tutto questo possa esistere. Io che ho pensato che tante aberrazioni fossero ormai alle nostre spalle, mi ritrovo a dare ragione al cinico Voltaire il quale affermò che “Lasceremo il mondo così stupido, così come lo abbiamo trovato.”
Il primo documento ufficiale da cui scaturirono le leggi razziali italiane è il Manifesto sulla purezza della razza pubblicato il 14 Luglio 1938, a cui aderirono molti intellettuali e che diede inizio alle deportazioni italiane. In nome di tale ideali, i regimi nazionalsocialisti, arrivarono al controllo di tutti gli aspetti della vita dei cittadini : dall'anamnesi familiare, all'orientamento dei matrimoni, alla sterilizzazione ed aborto selettivi, all'assistenza alla maternità, alla politica demografica, alle politiche in materia di adozione, concessione della cittadinanza o immigrazione, all'eutanasia, a tutte le altre misure più in generale connesse alla autogestione da parte della comunità della propria dimensione anche "biologica"; ivi compreso quanto era finalizzato a promuovere o rafforzare alcune caratteristiche o a farne decadere delle altre. La purezza della razza sembra provenire da un mondo lontano, invece mentre eravamo distratti a farci un caffè... zacchete! E’ rinata la purezza della specie e della razza. E dire che invece la genetica ci insegna che una razza troppo selezionata, vede la comparsa di malformazioni e debolezze genetiche, cioè l’esatto contrario di quello che il sogno di ogni purista, si possa auspicare. La storia ci consegna innumerevoli esempi di nobilissime dinastie reali, funestate da tare ereditarie, causate dai matrimoni tra consanguinei. L’idea della purezza della razza ad oggi si è dimostrata scientificamente del tutto falsa, eppure non è morta per l’ignoranza delle persone. Gli studi sul DNA umano stanno rivelando che le differenze morfologiche tra le "razze" umane stanno diventando sempre più impalpabili. Siamo una sola specie; diversificata, multiforme e nomade, certo, ma unica. E' questa la tesi esposta da Steve Olson, ricercatore indipendente e giornalista scientifico, nel libro "Mappe della storia dell'uomo" (Einaudi) in cui ripercorre appunto la storia umana degli ultimi 150.000 anni. La storia indelebilmente impressa all'interno delle cellule di ciascuno di noi, sta rivelando un tale mosaico di popolazioni, di incroci, di culture e di migrazioni da privare di qualsiasi fondamento ogni riferimento a una "purezza di stirpe", per non dire di "razza". Il bagaglio genetico è sorprendentemene similare in tutto il genere umano, per cui, lo studioso afferma che “…è vero ogni individuo, ed ogni gruppo sociale, possiede un'eredità biologica unica, ma il termine razza confonde il livello culturale con quello biologico in una maniera che è inevitabilemente fuorviante. Credo che il termine razza sia geneticamente e storicamente infondato e che debba essere abbandonato. […] Ci accomuna il nostro bagaglio genetico e ci separano le condizioni ambientali nelle quali ci sviluppiamo. Le nostre differenze sono fisiche non genetiche ed emergono dalle condizioni alle quali gli esseri umani dai quali discendiamo si sono dovuti adattare quando si trasferivano in regioni differenti del mondo.[…] I gruppi umani rispondono alle condizioni ambientali nelle quali vivono e alle malattie endemiche delle zone nelle quali risiedono, molte volte sviluppando resistenze specifiche come quella alla malaria. Inoltre le mutazioni che contribuiscono alla nostra suscettibilità ad alcune malattie appaiono prima in singoli individui e poi si diffondono nel resto della popolazione. Sono dell'idea che le specificità culturali dei vari gruppi siano più utili per differenziare le genti. Il guaio è che tendiamo a confondere la cultura e la biologia.”
Prevalentemente si ritiene che la stirpe ariana abbia origine dalle catene del Caucaso e dall’Asia centrale, come insieme di popoli erranti eurasiatici che si sono diffusi sia al sud che all'ovest. Ultimamente si è formulata un’altra ipotesi, formulata indipendentemente sia da Luigi Luca Cavalli-Sforza che da Colin Renfrew. Essa ritiene che le lingue indoeuropee si siano sviluppate a partire dall'odierna Turchia fino a diffondersi per tutta l’odierna Europa. In un secondo tempo l'espansione sarebbe proseguita a partire dalle steppe euroasiatiche verso l’Iran e l’india. Forse dovrei avvertire la signora che tra le ultime teorie sull’origine della stirpe ariana, vi è quella che ne afferma l’origine anatolica, forse la signora dovrebbe essere informata del fatto che i primi ariani sono gli odierni e baffutissimi turchi, i suoi odiati stranieri.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

giovedì 1 maggio 2008

Il Prometeo incatenato


La spettroscopia e’ il principale metodo sperimentale di determinazione delle frequenze di vibrazione di una molecola e si basa sull’interazione fra la molecola e la radiazione: le proprietà spettroscopiche possono servire come criterio di riconoscimento molecolare. La spettroscopia Raman calcola come gli oggetti riflettono la luce del laser, ed è un fenomeno che prende il nome dal fisico indiano Chandrasekhara Venkata Raman, che ne scoprì l’effetto negli anni Venti. La spettroscopia Raman è una tecnica non invasiva e non distruttiva che si basa sulla interazione radiazione-materia. In particolare la radiazione emessa da un fascio laser interagisce con i moti di rotazione e di vibrazione delle molecole con la conseguente riemissione di luce a lunghezze d'onda diverse da quella incidente; quindi è una tecnica di emissione. Lo spettro che si ottiene, detto spettro Raman, fornisce così una impronta digitale “finger print” della molecola in esame, permettendone l'identificazione. Ogni tipo di molecola produce una firma Raman originale, l'equivalente di un codice a barre chimico. La spettroscopia Raman sta trovando un crescente successo di applicazioni nella scienza dei materiali, nell’arte e nelle conoscenze in campo artistico e archeologico. In particolare, la diffusione dell'impiego della spettroscopia per quanto riguarda opere d'arte e manufatti ha consentito di acquisire importanti e fondamentali contributi sui materiali, nonchè sul modo di lavorare di artisti ed artigiani, migliorando notevolmente le tecniche di conservazione e restauro delle opere d’arte.
Il futuro del Raman è però nel settore biologico e medico, dove è già stato utilizzato per il riconoscimento delle cellule cancerose in tessuti mammari umani. Si sono create nanoparticelle Raman attaccando minuscole molecole colorate a degli amplificatori molecolari che rifraggono la luce. Successivamente si sono attaccate tali molecole che sono target di determinate particelle, ad esempio ad un determinato anticorpo, poi se ne sono esservati sia la diffusione che il loro comportamento all’interno del corpo umano. Nel dicembre 2007 - nella rivista Nature Biotechnology - è comparsa la notizia di uno studio condotto da Shuming Nie della Emory University, in cui si è usata la spettroscopia Raman per analizzare i tumori nei topi. I ricercatori hanno scansionato le particelle accumulatesi nel fegato dei topi, dimostrando così che la tecnica è in grado di visualizzare strutture interne al corpo. Per individuare i tumori sono state impiegate nanoparticelle specifiche atte all’individuazione del cancro. Questo metodo ha il vantaggio di essere multiplexing, cioè atto a far visualizzare più molecole contemporaneamente: questo è fondamentale per lo studio di patologie complesse come quelle cancerose. All’interno delle cellule tumorali, infatti, si svolgono più processi contemporanei, la conoscenza dei quali è fondamentale per la cura. Con la spettrologia Raman, in cui ogni molecola ha un suo spettro specifico, i multeplici meccanismi di funzionamento sono osservabili con chiarezza e precisione. L’obiettivo degli studiosi è la produzione di tecnologie di imaging in cui non sia necessario l’utilizzo della radiattività, molto dannosa per l’uomo. Uno dei limiti maggiori della tecnica è quello che la luce non è in grado di entrare nei tessuti profondi del corpo umano. Si stanno studiando quindi delle metodiche in grado di unire l’endoscopia con la spettrometria. Usato con l’endoscopia, per la diagnosi dello stadio primario di cancro al colon, le nanoparticelle potrebbero essere semplicemente “spruzzate” sulla superficie del colon piuttosto che iniettate nel corpo. Resta da indagare la sicurezza delle nanoparticelle per la salute umana. Nei tumori vicini alla superficie della pelle, come per esempio il melanoma o il tumore al seno, già questa tecnica si può rivelare molto utile.
Questo è un caso in cui, più interessi discrepanti, possono collidere in modo positivo; in fondo nessuno fa nulla per niente. Il progetto viene da lontano, è iniziato nel 2003 e corrisponde al sogno di un colosso come Intel, chipmaker californiano, di estendere i propri copyright ed i propri profitti. Tale interesse si è alleato con la necessità dei ricercatori scientifici, di disporre di metodologie dai prezzi proibitivi. Nasce così la collaborazione tra la Fred Hutchinson Cancer Research (FHCR) - un istituto di ricerca indipendente non profit in cui lavorano due premi Nobel, tra cui Lee Hartwell, Nobel per la medicina nel 2001 – ed Intel, il maggiore costruttore al mondo di chip, è inoltre uno dei maggiori fornitori di prodotti per il mercato personal computing, networking e communication. Il progetto prevedeva la costruzione dell' Intel Raman Bioanalyzer System (IRBS): lo strumento che indirizza un fascio laser su minuscoli campioni biologici e crea immagini che rivelano la struttura chimica delle molecole. I ricercatori hanno avuto il loro perfezionato strumento mentre Intel ha allargato le potenziali applicazione e vantaggi della sua tecnologia, ed i guadagni relativi. Le biotecnologie sono la frontiera più sicura per la sconfitta di malattie sempre più invasive, ma le biotecniche sono anche gli OGM, cioè la sperimentazione di nuovi organismi animali e vegetali modificati in laboratori e controllati dall’uomo. Dietro la biotecnologia c’è la biogenetica, per cui bisogna stare attenti che la tecnologia non diventi una maschera per avere un nuovo strumento di dominio sulle popolazioni più povere del mondo. Come sempre la conoscenza è un’arma a doppio taglio, che va saputa gestire con intelligenza e non abiurata o demonizzata in modo oscurantista. Le notizie che alcune biotecnologie, possano produrre individui acefali, senza testa, senza cervello, e quindi senza pensiero, di modo che non sorgano preoccupazioni morali di prelievo degli organi ai fini di un trapianto, sono posizioni estreme pericolose e ridicole, che portano solo danni alle nuove conquiste scientifiche: diffondiamo piuttosto la cultura della donazione di organi, che è una cultura di altruismo intelligente. Dalla ricerca in rete trovo, invece, un illuminante brano del pensiero cattolico sulle biotecnologie, riecheggiante le teorie dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, confortato da tale sponda, l’autore che è membro di un comitato di bioetica, afferma deciso:
“La nostra è un’epoca anche prometeica, cioè caratterizzata dalla diffusa volontà, e comunque dal plauso sociale allo sforzo di rubare il segreto del fuoco agli dei, perché essi non possano più dominare l’uomo approfittando della supremazia dovuta al possesso esclusivo di tale segreto. L’uomo è penetrato nel mistero della vita e non resiste alla tentazione prometeica di approfittarne. […] Se non gli è bastato farsi dio-legislatore, egli ormai mira a detronizzarLo come Creatore. Gli vuol sottrarre il segreto della vita. L’uomo prometeico vuol farsi non più solo legislatore, ma creatore. Creatore, cioè signore oltre che del bene e del male, come legislatore, anche e soprattutto della vita e della morte. […] Con gli antichi, credo che il nosema, la malattia dello spirito che l’induce a odiare gli dei, renda Prometeo meritevole del castigo inflittogli, e che sia meglio che rimanga avvinto alla roccia cui la divina giustizia l’ha incatenato.”
Che nostalgia di roghi ed inquisizioni medievali! Che volontà di chiudere, di incarcerare questi eretici scomodi ed anarchici! Che desiderio di avere un Dio terribile e geloso come quello del Vecchio testamento! Mi viene in mente una frase del filosofo Anacleto Verrecchia “Se il mondo è un condominio tra la malvagità e la pazzia, in cui l’una regna e l’altra comanda, la religione ha dimostrato molto spesso di essere l’una e l’altra insieme.”
Buona erranza
Sharatan ain al Rami