sabato 30 marzo 2013

Buona Pasqua!



"La suprema felicità della vita è essere amati per quello che si è o,
meglio, essere amati a dispetto di quello che si è."
(Victor Hugo)

Una felice Pasqua a tutti!
Sharatan

Quando l’amore vi chiama



Quando l’amore vi chiama, seguitelo,
benché le sue vie siano ardue e ripide.
E quando le sue ali vi avvolgono, abbandonatevi a lui,
anche se la spada nascosta tra le sue penne può ferirvi.

E quando esso vi parla, credetegli,
anche se la sua voce può infrangere i vostri sogni,
come il vento del nord quando devasta il vostro giardino.
Poiché come l’amore vi incorona, così vi crocifigge.

E’ ugualmente pronto sia a farvi fiorire che a potarvi.
Egualmente ascende fino alla cima ad accarezzare
i rami più teneri che tremolano al sole.

E discenderà fino alle vostre radici
e le scuoterà là dove più sono abbarbicate alla terra.
Come covoni di grano vi accoglie in sé.

Vi scuote per rendervi spogli.
Vi staccia per liberarvi delle reste.
Vi macina fino all’estrema bianchezza.
Vi impasta finché non siate cedevoli.

E infine vi assegna al suo sacro fuoco,
perché diventiate pane sacro per la mensa di Dio.
Tutte queste cose saprà compiere l’amore per voi,
di modo che possiate conoscere i segreti del vostro cuore
e in questa conoscenza farvi frammento del cuore della Vita.

Ma se, nel vostro timore,
voleste cercare dell’amore la pace ed il piacere,
allora meglio per voi sarebbe coprire la vostra nudità
e uscir fuori dal recinto dell’amore.
Nel mondo senza stagioni, dove riderete,
ma non tutto il vostro riso,
e piangerete, ma non tutte le vostre lacrime.

L’amore non dona che se stesso
e nulla prende se non da se stesso.
L’amore non possiede ne' vorrebbe essere posseduto;
poiché l’amore basta all’amore.

Quando amate non dovreste dire: “Dio e' nel mio cuore”,
ma piuttosto: “Io sono nel cuore di Dio”.
E non pensate di poter condurre l’amore,
poiché è l’amore che, se vi trova degni, saprà condurre voi.
L’amore non ha altro desiderio che di appagare se stesso.

Ma se amate e, necessariamente, ardete,
siano questi i vostri desideri:
dissolversi ed essere come un ruscello che scorre
e canta la sua melodia alla notte.
Conoscere la pena che dà l’eccesso di tenerezza.

Essere feriti dalla stessa comprensione d’amore,
e sanguinare volentieri e con gioia.
Destarsi all’alba con un cuore alato
e rendere grazie per un nuovo giorno d’amore.

Riposare nell’ora del meriggio
e meditare sull’estasi che dà l’amore;
Rientrare a casa, la sera, pieni di gratitudine,
e addormentarsi con una preghiera
per l’amata nel cuore e un canto di lode sulle labbra.

(Kahlil Gibran)


martedì 26 marzo 2013

Il vaso magico



Nell’antica città di Isfahan, un gruppo di alchimisti si riunì e lavorò per alcuni anni, finché riuscirono a costruire un vaso magico. Tutti assieme avevano deciso che un oggetto così potente non poteva avere un solo padrone, perciò il possessore del vaso avrebbe potuto esaudire solo tre desideri.

Stanchi per il lavoro, gli alchimisti andarono a dormire per riposare. Proprio quella notte scoppiò una furiosa tempesta e venne una tromba d’aria che afferrò il vaso magico e lo trascinò lontano. Il vaso fu sbattuto dalla furia del vento, e quando si fu calmata la bufera l’oggetto magico cadde ai bordi di una solitaria strada di campagna, in un lontano paese.

Trascorsero così alcuni mesi finché un giorno, un viandante che passava da quelle parti trovò il vaso tra i cespugli della strada e lo raccolse, ma chiaramente non poteva sapere che il vaso avesse delle prodigiose virtù.

L’uomo controllò che il vaso non fosse scheggiato, e mentre lo spolverava con cura disse tra sé e sé: “Che fortuna avere trovato questo bel vaso. Sembra un oggetto di un certo valore, chissà come sarà capitato qui. Sicuramente è caduto da una carovana di mercanti! Certo, se fosse stato d’argento la mia fortuna sarebbe stata maggiore.”

Mentre diceva quelle parole il vaso rifletté la luce, perciò il viandante stupito esclamò: “Incredibile che non mi fossi subito accorto che era d’argento. Non capisco come oggi possa essere così distratto. Fammi vedere, potrebbe anche avere delle parti d’oro.” Mentre rigirava il vaso per osservarlo bene, l’uomo notò che un lato era tutto d’oro ed era intarsiato con un paesaggio preziosamente inciso.

Quando vide quella meraviglia l’uomo restò a bocca aperta e poi esclamò: “E’ tutto incredibile! Non posso crederci! Come vorrei che tutto fosse un sogno per non risvegliarmi mai più!” Non appena ebbe detto quelle parole, il vaso scomparve e ritornò dagli alchimisti, e l’uomo si trovò infilato nel suo letto, immerso in un sonno profondo.

Buona erranza
Sharatan


domenica 24 marzo 2013

Gli stati della mente



“Siamo tutti parte dell’unico Spirito.”
(Paramahansa Yogananda)

“Noi pensiamo che la nostra vita sia piacevole o spiacevole in funzione della felicità o dell’infelicità che proviamo. Si determinano, di conseguenza, cinque stati mentali: felicità, dolore, indifferenza, pace e vera gioia. Le onde sollevate nell’oceano da una tempesta s’innalzano, ricadono nel vuoto e tornano a sollevarsi, una dopo l’altra, fino a dissolversi nuovamente nell’oceano quando la tempesta si placa.

La stessa cosa accade nella mente. Le onde mentali sono costituite dall’alternarsi della gioia e della sofferenza; l’indifferenza o la noia costituiscono il vuoto intermedio. Questi sono i primi tre stati mentali. Un desiderio esaudito rende felici. Un desiderio insoddisfatto rende infelici. Altri vivono in uno stadio intermedio, si trovano fra la cresta dell’onda della felicità e quella opposta dell’infelicità. Questo è lo stato neutro dell’indifferenza.

Non si può restare perennemente sulla cresta dell’esuberante allegria o del tempestoso dolore, e nemmeno nel vuoto della noia. In questo mondo di contrastanti dualità il comune mortale è sballottato su e giù: si innalza su un’onda di gioia, sprofonda nel vuoto dell’indifferenza e poi viene travolto da un’onda di dolore. Conosce molto poco oltre questi stati di coscienza.

Lasciarsi sballottare così significa abbandonare il proprio libero arbitrio alla mercè di un destino apparentemente capriccioso. Ciò di cui l’uomo ha bisogno , per vivere una vita colma di successi e di soddisfazioni, è la serenità della mente, che può essere raggiunta soltanto grazie alla concentrazione e al controllo delle facoltà psichiche.

Perfino il dolore più terribile viene guarito dal tempo; non si ottiene nulla rivivendolo ogni giorno. Piangere per chi è scomparso non aiuta né lui né voi, né può modificare il triste evento. Rendersi infelici coltivando un complesso di inferiorità o punirsi per gli errori o gli insuccessi del passato, non porta a nulla; paralizza invece le facoltà mentali.

Non cadete mai preda di abitudini mentali negative. E non pensate mai che la vita sia noiosa, perché questo stato d’animo è molto spiacevole; vi logora poco a poco. Non bruciate voi stessi le vostre potenzialità nella fornace dell’indifferenza. Oltre i primi tre stati mentali, felicità, dolore e indifferenza, si trova lo stato della pace, ma sono pochissimi quelli che lo raggiungono.

Chi possiede tutte le cose che desidera o di cui ha bisogno – denaro, salute e rapporti umani soddisfacenti – a volte può dire: “Non sono né felice, né infelice né indifferente. Sono contento, sono sereno.” Questo stato d’animo è piacevole dopo aver attraversato un periodo difficile.

Ma se dovesse durare troppo a lungo questo senso di pace, che è semplicemente assenza di gioia e di dolore, egli stesso finirà col dire: “Per favore, datemi un pizzicotto affinché possa scoprire se sono ancora vivo!” Questo genere di pace non può soddisfare a lungo perché è soltanto una condizione negativa nella quale è stata neutralizzata l’eccitazione.

Viene ora l’aspetto positivo, il quinto e ultimo stato di coscienza: la gioia sempre nuova. Questo stato si raggiunge soltanto quando nella profonda meditazione si entra in comunione con Dio, grazie alla pratica di tecniche specifiche simili a quelle insegnate dai maestri dell’India.

Questa gioia che non si appaga completamente, non si esaudirà mai. Come posso descriverla? Se per dieci giorni vi avessero impedito di dormire e foste stati costretti a rimanere svegli, e poi vi avessero permesso di addormentarvi, la gioia che sentireste in quel momento, moltiplicata un milione di volte, non potrebbe neppure lontanamente eguagliare la gioia di cui vi parlo.

Gesù e altri esseri divini ne hanno parlato. Il sentiero non dice di respingere tutto ciò che appartiene al mondo, ma vi esorta ad abbandonare le cose minori che vi sono di ostacolo, in cambio della più grande e vera gioia perenne, che appaga completamente. E’ arrivato per voi il momento di conoscere e capire qual è lo scopo della religione: percepire la gioia sublime, Dio il grande, l’eterno Consolatore.

Se troverete questa gioia e riuscirete a percepirla in ogni momento, allora qualunque cosa vi accada, sarete imperturbabili anche nel fragore dei mondi che crollano. Questa è la prima regola per rimanere giovani: coltivare uno stato d’animo felice, che gli eventi della vita non possono sconvolgere. Quando sarete immersi in quella gioia, neppure la morte vi può turbare. Questo è lo stato invulnerabile della mente che dovete sforzarvi di raggiungere.

Per mantenere viva la vostra freschezza mentale potete ricorrere anche ad altri metodi, oltre alla meditazione che è il sistema più immediato. Prima di tutto imparate a sorridere, sorridere sinceramente. Dovunque siate, per quanto le circostanze siano difficili, sorridete dal profondo del cuore e allontanate l’ira e il rancore in ogni forma.

Cercate di sorridere sinceramente a tutti, amici, familiari ed estranei. Metà del segreto della giovinezza consiste in questo. Se il vostro sorriso è contagioso perché sgorga spontaneamente dal vostro vero Sé, siete giovani. Non appena decidete di sorridere, vi accorgerete che tutto sembra cospirare per farvi piangere. Questa è la vita.

Spesso i nostri simili ci tormentano, ma la loro meschinità non dovrebbe influenzare la nostra decisione di essere gentili. Lasciate che gli altri seguano la loro strada, voi siate superiori e seguite la vostra. Non è l’approvazione degli uomini che volete, ma quella di Dio.

Per quanto vi è possibile, cercate di assecondare il prossimo e di non offendere nessuno, ma non permettete che niente ostacoli il vostro dovere, cioè quello di compiacere Dio. Non fatevi fermare o distrarre, non ne vale la pena. Cercate di andare avanti conservando sempre sulle labbra il sorriso della vostra giovinezza mentale.” (Paramahansa Yogananda, Verso la realizzazione del Sé, Astrolabio, 2006)


mercoledì 20 marzo 2013

L'attaccamento



“Se la tua mente non è annebbiata da pensieri inutili,
questa è la migliore stagione della tua vita.”
(Wu-Men)

Vivere un surrogato di vita è uno stile di vita assai limitante, ma anche una limitazione può essere comoda se offre radici a cui potersi aggrappare per sentirsi connessi a qualcosa. Abbiamo bisogno di sicurezza e di essere a nostro agio cullati in ciò che è familiare. Per non sentire l’ansia che agita l’essere, l'incertezza e il caos interiore vogliamo la certezza di essere sicuri nel luogo in cui siamo. Ma la ripetizione impedisce l'espressione della nostra vera natura, perciò non sviluppiamo un cuore naturalmente aperto alla gioia di vivere.

Le convinzioni più dannose per la tranquillità dell'uomo sono quelle legate agli attaccamenti. I nostri attaccamenti nascono sulle falsità che la mente impone come se fossero delle verità. Il desiderio e le illusioni si rinforzano reciprocamente, e si potenziano con l’appagamento del desiderio. Se un desiderio viene appagato crea altri desideri che chiedono di essere appagati, perciò il desiderio muove il ciclo samsarico che imprigiona e illude gli uomini.

La felicità viene condizionata dalle nostre convinzioni soprattutto quando pensiamo che l'esterno possa offrire la pace interiore. Le illusioni si rinforzano perché l'attenzione è attratta dal fascino dell'idea illusoria. Credere che saremo felici se controlliamo l'esterno è l'illusione condivisa dalla maggioranza. Per sfuggire dall'ansia e alle sconfitte della vita preferiamo credere a molte falsità. L'illusione mitiga l'impatto con una realtà troppo dura offrendo una versione edulcorata del mondo, però l'illusoria consolazione diventa la fonte dell'infelicità umana.

Si preferisce il dolore alla sconfitta, per questo è necessaria una totale sincerità e la volontà di scoprire se in noi prevale la voglia di essere felici o se preferiamo conservare le nostre sicurezze. Per praticare con l’attaccamento è necessario conoscere la vera natura delle nostre convinzioni, perciò dobbiamo sapere chiaramente ciò che vogliamo. Se siamo convinti di essere felici quando avremo delle precise condizioni la felicità troppo condizionata diventa impossibile da realizzare.

Siamo condannati all'infelicità perché abbiamo paura anche della felicità, perciò sopportiamo molte situazione difficili illudendoci che tutto migliorerà in futuro. L'attaccamento alle illusioni che aiutano a vivere può prevalere sulla voglia di essere felici, perché la paura di vivere può vincere la gioia di vivere. La sofferenza non sarà mai eliminata se non abbandoniamo le pretese e le aspettative che nutriamo riguardo al modo di essere degli altri.

Tutti vogliamo essere amati e apprezzati, perciò sappiamo che nessuno può dare le sicurezze che cerchiamo, ma restiamo aggrappati alla sicurezza di questa abitudine mentale. Per eliminare l'attaccamento dobbiamo conoscere il meccanismo che ci affascina e coinvolge nelle situazioni, perché così sappiamo quali idee vanno eliminate. Le illusione vengono eliminate con l'esperienza diretta, perché l'azione uccide l'illusione orientando le nostre sensazioni verso la percezione vera ed equilibrata delle cose.

Se uccidiamo le illusioni togliamo potere agli attaccamenti, perché togliamo fascino e consistenza alle nostre illusioni. Per praticare con l’attaccamento dobbiamo passare dalla pretesa che la realtà sia come la vogliamo, alla realtà che è com'è. Chiaramente siamo liberi di conservare una nostra preferenza personale sulla qualità della realtà che vorremmo vivere. L'attaccamento eccessivo agli stereotipi e alle immagini esteriori dimostra che amiamo una realtà che è fatta di emozionalità istintiva in cui tutto deve essere come vogliamo, altrimenti ci arrabbiamo!

Abbiamo molte pretese e illusioni che vanno ridimensionate, perché l'eccessivo attaccamento agli schemi concettuali può prendere il sopravvento. Per liberarsi dai problemi bisogna ammettere di avere problemi, perciò ammettiamo gli attaccamenti se vogliamo eliminare le nostre limitazioni. Dobbiamo ricordare che le convinzioni personali sono delle verità relative al singolo modo di essere, perciò non vanno imposte non essendo verità assolute. Se scopriamo tutto questo abbiamo elementi certi per sapere se il nostro essere è aperto verso la vita.

Nessuno vuole l'ansia e l'incertezza, perciò non dobbiamo temere di lasciare l'identità fittizia costruita sulle vecchie illusioni, infatti possiamo eliminare le idee che limitano la nostra felicità. La vita autentica inizia con la comprensione e la sperimentazione del nostro essere, e l’essere è amorevole se è libero di esprimersi così com'è. Quando accettiamo la nostra natura interiore impariamo la stima e l'amore per il nostro essere, e se ci amiamo siamo felici di offrire anche agli altri la quieta gioia del nostro modo di essere.

Buona erranza
Sharatan

domenica 17 marzo 2013

Soltanto pensiero...



“Una raffica di vento invernale
scompare nel folto del canneto
e si acquieta fino a calmarsi.”
(Basho)

“Il segreto della felicità sta nella scelta dei nostri pensieri, o piuttosto, nella direzione della nostra attenzione, istante dopo istante. L’infelicità viene dall’automatico concatenamento dei pensieri infelici, istante dopo istante. L’infelicità consiste nel giudicarsi felice o infelice, nel domandarsi se si è felici o infelici. Si è felici se si vive nell’istante, in piena coscienza, fuori da ogni giudizio.

L’occhio della coscienza discriminante discerne senza sosta l’assenza completa della “realtà oggettiva” delle causa del nostro dolore e il carattere illusorio della sofferenza stessa: il concatenamento meccanico dei nostri turbamenti e dei nostri pensieri. […] Ciò che ci fa male non sono i nostri pensieri ma, ancora di più, i giudizi che diamo di questi e, di più ancora, i giudizi che diamo sui nostri giudizi. Diamo un taglio netto alle associazioni automatiche di pensiero, ai concatenamenti di pensieri dolorosi e torniamo sul campo alla semplicità dell’istante.

Non si scelgono i propri pensieri, ma si può decidere di non credervi. Colpevolizzarsi per un pensiero cattivo significa aggiungere sofferenza alla sofferenza. Siamo responsabili dei nostri sogni? No. Ma quando l’incubo diventa troppo doloroso è bene svegliarsi: non era altro che un pensiero. I nostri pensieri, le nostre emozioni: agitazioni di neuroni, flusso di ormoni. Niente di solido. Perché fidarsi?

Emozioni come la gelosia, per esempio, o alcuni fantasmi dolorosi, rinascono instancabilmente, come la gramigna. Come estirparli? Come cacciare questi demoni divoranti? Come acquistare la pace dell’anima? Ricordati che si tratta di illusioni formate dalla tua mente, di un prodotto del tuo pensiero. Potresti dirigere la tua attenzione verso altre rappresentazioni oppure aprirti a ciò che i tuoi sensi ti offrono in questo istante.

Immaginando un dolore che presumi falsamente provenire da altri, paragonando ciò che è a ciò che dovrebbe essere, ti stai torturando. Non smettiamo mai di produrre immagini, pensieri, emozioni che ci fanno soffrire. Siamo il nostro carnefice, il nostro carceriere, per di più illusionisti e bugiardi. I muri e gli strumenti di questa stanza di tortura personale che, a volte, è la nostra mente non sono che pensieri, ricordi, timori, immagini che non corrispondono a niente di attuale, niente di veramente presente qui e ora.

E’ facile dissolvere l’invidia. Ricordati che nessuno possiede mai un oggetto. Ognuno vive soltanto di istanti successivi. Non possediamo mai altro che secondi d’esperienza che svaniscono non appena vissuti. L’invidia è dunque, alla lettera, senza oggetto, poiché la persona invidiata esperisce solo un istante dopo l’altro, proprio come te e come tutti. L’unica differenza tra gli esseri sta nella loro capacità di aderire con gioia al divenire.

Risiede nella loro più o meno grande propensione a comparare costantemente l’esperienza a “ciò che dovrebbe essere.” Invidiando produci la tua stessa sofferenza a partire da niente. La sofferenza non deriva dal fatto che non hai ciò che un altro possiede (a questa stregua saresti sempre e necessariamente infelice, poiché c’è sempre qualcuno che possiede qualcosa che tu non hai.) La sofferenza proviene dal fatto che pensi che lui, o lei, possiede ciò che tu non hai.

Quand’anche otteniamo ciò che desideriamo, possiamo ancora soffrire terribilmente non foss’altro che a causa del ricordo della nostra frustrazione precedente, a causa dell’idea che non abbiamo avuto l’oggetto nel momento in cui abbiamo iniziato a desiderarlo, a causa di tutto il risentimento, tutto il dolore che la mancanza e il desiderio insoddisfatto hanno provocato, a causa della rappresentazione che una parte della nostra vita è stata irrimediabilmente privata di ciò di cui avevamo bisogno.

Ma in realtà il passato non esiste e ora soffriamo mentre dovremmo godere. E nel passato dobbiamo la nostra infelicità solo alla nostra assenza poiché ci siamo consumati nel desiderio invece di godere dell’istante. Lui possiede ciò che io non ho. Io possiedo ciò che loro non hanno. Lui è più bello, più forte, più felice di me. Si divertono mentre io lavoro. Io valgo meno di … Sono più intelligente di … Sono migliore di …

Per ognuno di questi pensieri le nostre anime sanguinano. Il paragone è l’artiglio del diavolo. Il paragone e l’accumulo sono riflessi intimi della mente. Ogni volta che li osserviamo funzionare ricordiamoci che l’istante presente è l’unica cosa che esista realmente, e che non si cede né all’uno né all’altro.

Senza sosta, nella nostra testa, una piccola voce quasi impercettibile ma instancabile, ostinata, ci critica, semina il dubbio. Passiamo il nostro tempo a scalzarci insidiosamente. Non che non occorra esaminarsi, prestare attenzione ai nostri atti e ai nostri stati mentali ma, per l’appunto, sembra che questa voce di critica incessante si sottragga all’attenzione, il che le permette di compiere con più tranquillità il suo lavoro di demolizione. Sfugge all’attenzione perché l’io è proprio ciò che non smette di dire a mezza voce “non dovresti … fai male… dovresti invece… ecc.”

Questa voce maledetta che si è stabilita al centro del nostro essere usurpa il posto dell’anima, si fa passare per lei. Ma invece di una natura di scintilla ha il carattere di una doccia fredda che ci sfinisce. Siamo diventati questa doccia fredda. Ci stupiamo di non incontrare più il calore e la luce del fuoco quando l’ego che abbiamo alle spalle, quando il parassita che ci abita nel petto fa professione di spegnerlo.

Tutti coloro che ci criticano, ci colpevolizzano, ci demoralizzano si appoggiano su questa voce che tradisce la nostra vita dall’interno. Peggio: le circostanze e le persone che ci opprimono traducono questa voce nel mondo “esterno”: la materializzano. Inutile farla tacere. Accontentiamoci di sentirla in maniera distinta e di riconoscerla per ciò che è: il nostro incubo nemico. Perde il suo potere dal momento in cui viene riconosciuta.

Ascolta il tuo discorso intimo. Cosa c’è di nobile nel coprirsi di vergogna, nel giustificarsi, nel criticare gli altri, nel calcolare i propri beni? Molla la presa su tutto questo e comincia ad amarti esattamente per come sei. Abbandona la sofferenza.

Che atmosfera domina nel tuo intimo? L’odio? L’aggressività? La gelosia? L’orgoglio? Il risentimento? La mancanza? L’avidità? La cupidigia? La paura? Il senso di colpa? L’autocritica? La soddisfazione di sé? L’ipocrisia? La repressione? La serenità di facciata? O invece L’onestà, l’amore, l’apertura all’istante?

Osserva senza sosta. Senti l’odore della tua anima. Produciamo la nostra sofferenza: desiderio, paura, senso di colpa, dispiacere, disgusto, disprezzo di sé, invidia, orgoglio, rabbia… E quasi sempre la sofferenza è astratta, viene dal paragonare ciò che è a ciò che non è, ciò che abbiamo e ciò che hanno gli altri, il presente al futuro e al passato.

Ricordi che fanno male, fantasmi torturanti, scene immaginarie o instancabilmente rimuginate … Eppure respiriamo, sentiamo, pensiamo, partecipiamo al miracolo della vita. Se solo potessimo fare attenzione per un attimo alla grazia del vivere … Il novantacinque per cento delle nostre sofferenze è immaginario. Il pensiero ci porta a soffrire. Ci porta all’avidità, all’aggressione, alla paura, alla speranza, all’illusione…

Se ci contentassimo di sentire eviteremmo molto probabilmente la sofferenza. La sofferenza è un pensiero che vorrebbe rifuggire il dolore, ma non vi è altro da fare che sentire qui e ora. Il male è, allo stesso modo, ciò che ci fa soffrire e ciò che ci impedisce di sentire, vale a dire una sola cosa: il pensiero. Affrancandoci dai nostri pensieri ci liberiamo dalla paura.”

(Pierre Lévy - Il fuoco liberatore - Sassella ed., 2006)

giovedì 14 marzo 2013

Il risveglio del sognatore



"Tu sei il sognatore che sogna il buio
e quello che porta la luce.

Sei il tentatore e insieme il salvatore.
E' questo che scoprirai, se già non l'hai scoperto."

(Paul Ferrini)

domenica 10 marzo 2013

Una mente senza radici



“Riempite la vostra mente di compassione.”
(Buddha)

“Dobbiamo eliminare le radici della mente. Se le permettiamo di svilupparle, ci intrappoliamo sempre negli stessi pensieri. Tendiamo a dirci che possiamo essere felici solo a certe condizioni: il tempo deve essere bello, né troppo freddo, né troppo caldo; dobbiamo aver mangiato bene; dobbiamo divertirci e così via. Quando poi le condizioni mutano, la mente diventa infelice o irata. Il nostro stato d’animo cambia in un istante. Se per esempio ci viene fame, ecco che siamo di malumore.

Fino a poco tempo fa eravamo così felici e ora all’improvviso tutto è cambiato. Non è saggio lasciare che le condizioni esterne controllino la nostra mente. E’ facile destabilizzare il nostre ego. Inoltre, se non stiamo attenti, la mente si attaccherà ad atteggiamenti e a principi rigidi. Comunque se addestreremo la mente in modo da essere più rilassata, svilupperemo anche una maggiore resistenza alle circostanze esterne e a l’impermanenza. Questo non significa che non dovremo avere una direzione definita, ma che potremo seguire il flusso della vita.

Capiremo che creiamo una versione soggettiva della realtà attraverso le nostre percezioni e interpretazioni; che le cose non sono fisse e che è facile che gli altri abbiano una visione diversa dalla nostra. Per esempio, se giudicate qualcosa particolarmente bello e molto attraente, questo non è necessariamente vero per le altre persone. Potrebbe trattarsi di un essere umano, di un quadro o di una casa. Qualunque cosa sia è una creazione della vostra mente. Perché dovrebbe essere uguale per tutti? Ognuno di noi si crea la propria realtà personale, e accettare questa idea è liberatorio. Ecco che cos’è la compassione.

Può sembrare una contraddizione, ma, se riuscite ad apprezzare una mente senza radici e capace di fluire con le cose, allora potrete cominciare a domarla. Forse sentir parlare di una mente senza radici è sconcertante, perché spesso noi cerchiamo una cosa che ci radichi, soprattutto nel campo delle idee. Anche la mente ha una propria personalità – il modo in cui tendiamo a giudicare il mondo e la gente, le nostre concezioni, i nostri filtri, i nostri occhiali.

Ma, da un punto di vista positivo, se la mente è senza radici allora crescono le possibilità, troviamo definitivamente la libertà. Questa è la chiave per aprire la porta della realizzazione, della compassione, di ogni cosa. Grazie alla meditazione domiamo questa mente priva di radici, senza però incatenarla. Favoriamo la chiarezza e ci focalizziamo, mentre permettiamo alla mente di fluire e di essere libera, libera di indicarci la via.

Possiamo vedere con nitidezza la meta che ci ispira, e saremo anche il grado di impegnarci a raggiungerla e di capire che cosa dobbiamo fare quotidianamente. E’ come trovarsi di fronte a uno scrigno di gioielli: con un po’ di comprensione e di accettazione di ciò che siamo, possiamo aprirlo e vedere che cosa contiene. Non vi raccomanda, mentre meditate, di cercare di fermare i pensieri e di evitarli. Sì, essi sono i prodotti della mente e voi dovete scoprire gradualmente la vostra natura interiore, ma è molto difficile liberarsi dei pensieri.

Se vi sforzate di farlo, invece di ottenere una mente chiara, in realtà ve la ritroverete piena. Raccomando quindi di permettere ai pensieri di sorgere e poi di andarsene gentilmente. Non concentravi su di essi, prendetene nota e lasciate che scivolino via. La vostra mente è come un bambino che provoca troppo rumore, se fate in modo che se ne renda conto, si accorgerà del problema e alla fine si calmerà da solo.

Dovete dunque essere pazienti, anche con la mente, a poco a poco le proteste e le domande si acquieteranno. I pensieri verranno, ma poco a poco se ne andranno – positivi o negativi non ha nessuna importanza. Non vi fissate, lasciate che vadano. Lentamente la mente si calmerà in uno stato naturale, e vi troverete in pace. “

(Gyalwang Drupa, Vedere il cielo in un fiore selvatico: la via buddista per la felicità, Mondatori, 2012.)

giovedì 7 marzo 2013

Transizioni



“Spostamento sotterraneo, trasformazione silenziosa.
Come tutto questo potrebbe avvenire in un solo giorno?”
(Wang Fuzhi)

Perché non vediamo ciò che si trasforma anche se la trasformazione avviene sotto i nostri occhi? Perché abbiamo tanta difficoltà ad accogliere le trasformazioni? Il filosofo e sinologo francese François Jullien afferma che alla mentalità occidentale manca una caratteristica che, invece, si ritrova nella mentalità classica cinese. Gli occidentali si fanno spiazzare dagli avvenimenti, ma non per mancanza di sintomi che li annunciano, ma per eccesso di protagonismo del ruolo del soggetto e dell’azione, per cui siamo in difetto di ragionamento oggettuale.

L’occidentale è disattento davanti all’insorgere di influenze che si instaurano per gradi, finché arriva quello che si preparava, ma non lo riconosciamo come tale. Quando la trasformazione è improvvisa deve essere creduta come inopportuna oppure la nostra attenzione non è stata orientata bene in precedenza?

Il concetto di “trasformazione silenziosa” è contenuto nell’opera del filosofo cinese del 17° secolo, Wang Fuzhi, ed è pienamente coerente con il pensiero moderno. Se riflettiamo sulla trasformazione della Cina nel 221 a.C. vediamo che si attua la maggiore trasformazione dell’epoca, perché vediamo la fondazione di un impero enorme, al cui confronto l’impero romano sfigura per estensione e durata.

L’impero cinese è il primo impero storico che si organizza in una struttura di tipo burocratico funzionale al governo di un territorio enorme. Wang Fuzhi riflettendo sull’avvenimento afferma che dei fatti così decisivi non avvengono come rottura di un ordine precedente, ma sono proceduti da un orientamento di fondo e da una “propensione generale” di cui si può sondare la coerenza e la razionalità intrinseca.

Chiaramente, come nell’avvio di tutto ciò che è nuovo, sembra che il primo Imperatore abbia attuato una unificazione fatta con il sangue e la violenza, perciò sembra che il passaggio dal feudalesimo alla burocrazia imperiale sia stata una repentina svolta autoritaria. Ma la storia insegna che sotto tutte le situazioni evidenti ci sono delle correnti evolutive molto lente e regolari da cui traspaiono delle spinte “tendenziali” che evidenziano la logica delle trasformazioni.

Ancor prima dell’avvento del primo Imperatore, molti Stati cinesi avevano perso il loro signore, perciò già negli ultimi secoli dell’antichità cinese, erano passati sotto una struttura burocratica. Valutando questo vediamo che la svolta burocratica fu precedente alla volontà dell’Imperatore, il quale non fece altro che rendere conclamato un fatto intrinseco alle cose.

D’altro lato, dopo l’estinzione della Prima dinastia, perciò 20 anni dopo la sua morte, per annullare il ricordo dell’imperatore i restauratori degli Han ripristinarono il controllo del territorio con la proprietà feudale. Questo dimostra che la mentalità feudale non si era estinta per volontà dell’Imperatore, ma essa era ancora presente e integra nelle abitudini e nelle tendenze mentali, perciò tutto mostra come il corso della storia sia intollerante ai cambiamenti bruschi e improvvisi.

Ma tutto questo, riflette Wang Fuzhi, non porti all’errore di credere che si possano fare dei salti storici all’indietro. Molti credono che la restaurazione feudale potesse riproporre l’epoca cruenta degli Stati che si dilaniavano, perciò molti temevano che la lotta per la concessione dei feudi più ambiti potesse rigettare la Cina nella sanguinaria epoca precedente all’impero.

I contemporanei ai fatti non compresero il carattere inesorabile e logico dell’evoluzione intrapresa, poiché avvenne una rivolta dei principi contro il potere degli Han, in quanto i grandi feudatari della nuova dinastia tentarono di tornare in auge, ma tutti i loro tentativi furono infruttuosi. L’opposizione al nuovo che arriva comporta sempre il riaccendersi di fiaccole di rivolta e opposizione alle novità, perciò la concessione di feudi deve essere vista come l’ultima onda di energia di un mondo che moriva, e la quasi totale abolizione seguente dei feudi dimostra che si era al preludio del nuovo che sorgeva.

Ogni evento va analizzato nel suo stato precedente e nel suo stato successivo, perciò ogni fenomeno va studiato a monte e a valle, infatti la maturazione delle cose nasce da evoluzioni discrete. Ogni trasformazione avviene nel fluire, e in mezzo ai sussulti provocati dalla lenta assimilazione della trasformazione a ciò che c'era precedentemente.

Wang Fuzhi dice che ogni trasformazione è sempre globale, perciò il passaggio dalla struttura feudale alla prefettura non rappresenta solo una trasformazione politico-amministrativa, ma coinvolge tutta la vita del popolo e modifica la sua condizione economica e materiale. Il primo Imperatore aveva lasciato dei ricordi molto amari, ma non si poteva più tornare indietro, perciò anche i sistemi scolastici e le modalità di selezione degli accademici si trasformarono.

Tutte le istituzioni di una stessa epoca tendono a fare causa comune e si spalleggiano vicendevolmente, perciò la trasformazione è sempre di assieme, e collega vari ambiti che lo storico deve saper collegare. In Europa impariamo la storia, dice Jullien, usando le date della vita dei re, delle battaglie e dei trattati, ma queste date non significano altro che una serie di numeri. Poi è venuta la storia che mette il segno sull’evoluzione dei cicli storici, perciò sono emersi i fatti che esplodono con gli avvenimenti eclatanti, perciò tutto si è incentrato sui tempi della storia.

I fenomeni diventano eventi epocali in cui sembra che i tratti che caratterizzano le epoche siano al limite dell’immobilità. Se studiamo la lezione degli storici cinesi ci accorgiamo che la loro storia non è concepita all’interno del tempo. Gli storici cinesi non possiedono il concetto di tempo in senso occidentale, infatti pensavano alla storia nel senso di “processo evolutivo”.

Ma siamo certi che la correttezza storica ne abbia sofferto? Siamo certi che il concetto di una trasformazione che sembra apparentemente silenziosa non sia più vantaggiosa di quella dell’evento esplosivo della data? Lo storico cinese usa il concetto di quello che si muove, perciò usa un concetto molto simile a quello di struttura e di modello che sfrutta i fenomeni di permanenza e di regolarità che lavorano in armonia con la natura evolutiva della storia.

La storia vede un'evoluzione continua piena di trasformazioni e di spostamenti sotterranei che, se usiamo la lezione di Wang Fuzhi, mostrano una natura globale da cui le tendenze di fondo affiorano, si distaccano e colpiscono la nostra attenzione. La trasformazione silenziosa è una gestazione di eventi, perciò ciò che viene è quello che è riuscito ad emergere da tutto ciò che si poteva potenzialmente realizzare. L'evoluzione è la maturazione di quello che si è potuto attualizzare e, in virtù di questo processo evolutivo, l’evento storico diventa un marcatore.

Il concetto di trasformazione silenziosa ci impedisce di sentire la separazione tra la causa e l’effetto, perciò permette di vedere l’evento che si prepara all’interno delle linee di forza e di tendenza. Nella storia non vediamo più l’evento ed il progresso in termini di fattore minore o maggiore nella scala o nel campo di fattori con valore o importanza, ma tutto diventa significativo, perché ogni vita e ogni evento partecipano al fluire naturale delle cose.

Credendo che ogni fenomeno si ramifica in silenzio, riflette Jullien, il fatto permette di credere possibile la rivoluzione e il rovesciamento delle condizioni che viviamo. Di cosa è fatto il presente? Il presente è costruito con le frasi della politica e con i fatti che i media considerano come eventi, perciò con le notizie che dimentichiamo il giorno dopo. Il presente non è fatto di riforme e di misure necessarie che verranno attuate, ma viene costruito da condizioni che renderanno possibili queste riforme, perciò dalle condizioni necessarie per avere delle situazioni migliori e possibili.

Quando il muro di Berlino è caduto, il fatto avvenne per la spossatezza e per l'erosione del sistema che lo sosteneva, perciò ogni epoca matura in modo lento erodendo l'edificio che era stato costruito dal mondo precedente. Anche per Hegel lo sgretolamento è avvertibile solo per sintomi sporadici, e anche la noia e l’indeterminatezza che vediamo nel presente sono il sintomo di qualche cosa di diverso che è ancora in marcia. Secondo Jullien, le elezioni democratiche proclamano molte cose in modo vistoso, ma quanto tempo trascorrerà prima che queste promesse si riassorbiranno?

I miti sono necessari per vivere meglio, compreso il mito dell’uomo che sceglie democraticamente, intanto la politica usa la spettacolarizzazione e la mediatizzazione, perciò mette in vetrina una serie di personalità. Si è creata una politica dell’opinione e si spinge a scegliere quello che viene messo in mostra meglio e quello in cui è più facile identificarsi. Il criterio usato non è quello della competenza ma è quello della maggiore visibilità, perciò il merito maggiore va all’esibizionismo che sfrutta al meglio l'esposizione mediatica.

Oggi vediamo relegata nell’ombra la mentalità che non è conforme e non è corretta politicamente, perciò viene emarginata la richiesta di riconoscimento del merito e della competenza. Oggi viene emarginata la persona che vuole elaborare delle domande sensate per produrre dei concetti coerenti. Questa posizione scomoda viene disprezzata sempre di più, infatti viene arretrata a vantaggio di tutto quello che vuole la rinuncia e la negazione della costruzione del pensiero.

Anche gli organi di stampa hanno rinunciato ai supplementi culturali e/o letterari di spessore per riempirsi di articoli di gossip e di cronaca spicciola, perciò hanno ridotto lo spazio che fa pensare. In nome di una presunta democrazia non si offre più spazio agli argomenti difficili e impegnativi, perciò anche le letture interessanti si contano con il contagocce.

Se questo fosse solo una tendenza mentale sembrerebbe una cosa non grave, ma la recessione colpisce il livello mentale, perché ci spinge a non credere più a nulla, a non osare più, a non voler costruire più per il futuro. La recessione non prende più in considerazione l’evoluzione migliore come possibile, perciò riduce sempre più l’evento di segno positivo, infatti non crediamo più che ci sia qualcosa di migliore che ci possiamo aspettare.

Vediamo ridotto sempre più lo spazio della fiducia e vediamo l’accumulazione di tendenze negative e di secrezioni negative che aumentano lo spessore del muro grigio che nasconde il sorgere del sole. Questo tirarsi indietro della vita è un continuo arretrare che ci allontana sempre di più da scenari futuri migliori e possibili, e questo vale anche a livello politico. La domanda aperta secondo François Jullien, è se possiamo usare le trasformazioni silenziose come pratica di evoluzione politica.

E’ possibile credere che, seppure la trasformazione non sia immediata, possano essere avviati dei comportamenti che vadano a erodere le forme dell’avversario, e che lo sviluppo avvenga in modo graduale e generale per induzione positiva? Se la situazione non si può sviluppare da subito, possiamo avviare delle azioni che vanno a insinuarsi nel corso delle cose per operare una trasformazione che possa eliminare la modellizzazione spietata che prevale nel mondo occidentale?

Buona erranza
Sharatan

venerdì 1 marzo 2013

Nel cuore della terra



“Un uomo senza mitologia è puramente un fenomeno statico.”
(Carl Gustav Jung)

All’inizio del 20° secolo, Nicholas Roerich viaggiò in tutta l’Asia centrale e nel Tibet alla ricerca di una realtà spirituale superiore e alla ricerca della bellezza di quelle concezioni. Raccolse molte testimonianze di quei popoli, e la raccolta di leggende, parabole e storie mitiche che ha lasciato possiede un valore inestimabile. Ciò che vide non esiste più, infatti le persone sono morte ma anche i luoghi narrati non sono più com'erano allora.

Nicholas era nato in Russia nel 1874, ed era cresciuto con i racconti delle innumerevoli leggende del suo paese, ma fu un uomo eclettico e dotato di talenti molteplici, infatti fu archeologo, scrittore, pittore poeta e uomo di pace. Proposto nel 1929 e nel 1935 al Premio Nobel per la Pace, alla sua intermediazione dobbiamo il Trattato di Pace firmato dal presidente Roosevelt tra gli Stati Uniti d’America e venti paesi dell’America Latina: la “Bandiera della Pace” che ha ideato sventola ancora su molti paesi della terra.

Un giorno, nel corso dei suoi viaggi in Tibet, Nicholas giunse in un villaggio semi diroccato con solo due case abitate. In una delle due case viveva un vecchio che lo ospitò per la notte. Alla domanda del perché il villaggio fosse così deserto, il vecchio rispose: “Sono andati via tutti. Hanno trovato un luogo migliore per vivere. Erano forti e intraprendenti, perciò cercavano delle novità. Io sono vecchio e so che nulla è nuovo sulla terra, perciò aspetto qui la mia morte.”

I forti se ne vanno, riflette Nicholas, perché le migrazioni avvengono sempre nella speranza di trovarsi a vivere in modo migliore. Quale spirito spinge l’uomo a migrare? Quale volontà o quale cataclisma spinge i popoli lontano dalle terre conosciute? Nei suoi viaggi Nicholas vide molti disegni simili, infatti li vide sulle rocce del Darkistan, del Brahmaputra, di Orkhon in Mongolia e nei tumuli di Minusinsk in Siberia, ovunque vide delle tracce con la stessa simbologia.

Gli stessi disegni erano nei halristningar della Svezia e della Norvegia, e nei fregi del primo romanico dove si ritrovano le ispirazioni artistiche che recano suggestioni creative di grandi popolo migratori. In ogni luogo dell’Asia e nei racconti del folclore si riconoscono tracce di antiche verità ripetute, sebbene si derida la mitologia credendola piena di storie inventate. Gli uomini sono troppo superbi per apprezzare i tesori che il folclore ci dona, ma poi abbiamo imparato che anche i Rigveda furono trascritti in tempi recenti, e che furono ripetuti oralmente per secoli prima di essere scritti.

In molte storie di antichi paesi si narra di tribù perdute e di popoli che si ritirarono a vivere nel cuore della terra. Da tante parti e con linguaggi diversi ma identici si parla delle stesse cose, perciò facendo dei collegamenti vediamo che sono tutti capitoli delle medesime storie. All’inizio si crede impossibile che tutto possa coincidere, e si crede che siano favole narrate al fuoco dei bivacchi, ma poi dobbiamo ammettere che tutto è sempre uguale nelle storie di popoli che non si conoscono neppure per nome.

Esiste la stessa relazione nel folclore del Tibet, della Mongolia, della Cina, del Turchestan, del Kashmir, della Persia, degli Altai, della Siberia, degli Urali, del Caucaso, delle steppe della Russia, della Lituania, della Polonia, dell’Ungheria, della Germania, della Francia. Nel distretto di Tourfan si narra la storia di una tribù sacra che fu perseguitata da un tiranno, e si dice che quelle genti non vollero sottomettersi alla crudeltà, perciò si rinchiusero nei sotterranei delle montagne.

Alcuni chiedono, dice Nicholas, se per caso avete visto l’ingresso della caverna attraverso cui quel popolo, perseguitato per la sua religione, fece la fuga che lo condusse nel cuore della terra. A Kuchar si narra del re Po-chan, capo dei Tokhar che, quando giunse il nemico sparì con tutti i suoi tesori lasciandosi dietro rovine, sabbia e desolazione. In Kashmir si narra della tribù perduta di Israele, infatti i rabbini eruditi sanno che Israele è il nome di chi cerca, perché Israele non indica il nome della nazione, ma indica il carattere di un popolo.

Vi mostreranno, a Srinagar la tomba di Issa, Gesù, il Salvatore che fu crocefisso ma che non morì, e vi diranno che i discepoli portarono via il corpo dal sepolcro e poi scomparvero. Si narra che Issa si sia ripreso dalla morte e che sia vissuto il resto della sua vita in Kashmir predicando lo stesso vangelo, e come dalla sua tomba sotterranea ancora oggi emergano dei profumi meravigliosi. E a Kashgar, dove si rifugiò la madre di Issa dopo la crudele persecuzione del figlio, vi mostreranno la tomba della Vergine.

In molti luoghi si narrano delle storie straordinarie e, in diverse zone dell’Asia centrale si parla di Agarthi, il popolo che vive nel cuore della terra, e molte leggende diverse confermeranno la storia dei migliori che abbandonarono la terra traditrice per cercare la salvezza in terre nascoste dove trovarono nuove forze e conquistarono potenti energie. Sui monti Altai, nella valle di Uimon, sulle alte terre Nicholas incontrò un vecchio credente che si offrì di accompagnarlo dicendo: ”Vi proverò la storia dei Chud, il popolo che vive nel cuore della terra, e vi dimostrerò che non è una storia inventata. Vi porterò all’ingresso del regno sotterraneo!”

Lungo la strada l’uomo raccontò molte leggende sui Chud, e lo strano è che “chud” in russo ha la stessa radice della parola “meraviglia.” E da tutto quello che narrò si può dire che i Chud siano veramente un popolo meraviglioso! L’uomo raccontò:”In questa fertile terra vivevano i Chud che erano una tribù potente e fiorente che era in grado di fare prospezioni minerarie e di avere raccolti straordinari. Era una tribù pacifica e industriosa, ma un giorno venne lo zar bianco seguito da molti guerrieri feroci e crudeli. I pacifici Chud non erano in grado di opporsi alla ferocia di quelle orde, ma non volevano diventare gli schiavi del tiranno.

In quel tempo nella zona nacque la betulla bianca, ed era la prima volta che il fatto accadeva, perciò quel segno che era narrato nelle loro più antiche profezie dimostrò che era giunto il tempo di partire. I Chud fuggirono sotto terra, e solo rare volte si può sentire ancora il canto del popolo sacro, perché oggi le loro sacre campane risuonano solo nei templi sotterranei. Ma verrà il tempo glorioso della purificazione umana e, in quei giorni, i Chud riappariranno in tutto il loro splendore!”

Quando il vecchio arrivò vicino ad una collina pietrosa la indicò e disse molto orgoglioso: ”Questo è il luogo dell’ingresso al regno sotterraneo. Quando i Chud penetrarono nel cuore della terra sbarrarono l’ingresso con delle pietre. Adesso noi siamo giunti alla sacra entrata!” Nicholas osservò con attenzione il luogo e vide che era una tomba circondata da enormi pietre, risalente all’età delle grandi migrazioni, e tutto era simile a tante tombe ornate da fregi gotici che aveva visto nelle steppe della Russia meridionale e nei contrafforti del Caucaso settentrionale.

Mentre osservava con attenzione la collina, Nicholas si ricordò che, attraversando il colle del Karakorum, il suo sais, un anziano ladakhi, gli aveva detto: ”Sapete perché queste terre sono così particolari? Lo sapete che molti tesori sono nascosti nelle grotte sotterranee di questo luogo. Lo sapete che in quelle grotte vive una tribù che ha orrore dei peccati della terra?” Mentre cavalcavano verso Khotan, Nicholas notò che gli zoccoli dei cavalli risuonavano come se stessero cavalcando su un territorio cavo e pieno di grotte.

La gente della carovana notò il risuonare dei zoccoli, perciò dissero che certamente la terra che calpestavano era cava, e qualcuno disse:”Lo sapete che conoscendo i passaggi sotterranei si può giungere in terre lontane? Molto tempo fa in questo luogo viveva un popolo che si rifugiò verso l’interno della terra, in un regno sotterraneo. E’ molto raro che qualcuno di loro riemerga sulla superficie della terra. Qualche volta, nei bazar giunge qualcuno con delle monete antichissime, tanto che nessuno ricorda nemmeno da quanto tempo quelle monete non vengono coniate.”

Allora Nicholas aveva chiesto se fosse possibile poter vedere qualcuno di quel popolo, e gli fu risposto: ”Si, ma solo se il vostro cuore è puro e in armonia con quello del santo popolo, e se siete abbastanza elevato. Sulla terra ormai vivono solo peccatori, perciò i più puri e i più coraggiosi passano a qualcosa di meglio.” Molti credono nel popolo del Regno sotterraneo, infatti in tutta l’Asia si narra la storia del popolo santo scomparso nel cuore della terra, ed è per questo che a volte avviene che qualcuno abbia visto l’ingresso alle grotte sotterranee.

A volte, nelle terre più elevate si vedono delle aperture che sembrano dei nidi d’aquila, ma nessuno oserebbe avvicinarsi a quelle aperture perché tutti temono tutto quello che riguarda la tribù santa. Talvolta si dice che la Città Santa è sommersa, come avviene nel folclore della Svizzera e dei Paesi Bassi. Questo folclore coincide con le vere scoperte nei laghi, sulle sponde degli oceani e dei mari, e in Siberia, Russia, Lituania e Polonia vi sono molte leggende sui giganti che vivevano in tempi antichi in terre che poi scomparvero.

In questi miti vi sono le basi tipiche dei clan antichi, infatti si dice che i giganti sono fratelli, e che le sorelle dei giganti vivono sulle sponde dei laghi e dall’altra parte delle montagne. Molto spesso essi non desiderano abbandonare i luoghi in cui vivono, ma degli eventi eccezionali li spingono lontano da casa: molto spesso degli uccelli e degli animali sono vicini ai giganti e li seguono annunciando la loro partenza.

Tra le storie delle città sommerse c’è quella della città di Kerjenetz, nella regione di Nijni Novgorod, che è veramente meravigliosa, infatti la leggenda è così amata che, ogni anno la gente fa una processione intorno al lago in cui è sommersa la Città Santa. Tutto il lago viene illuminato dalle torce della processione e dai fuochi dei bivacchi, perché la gente attende intorno ai fuochi finché non risuonano le campane ed echeggiano i canti dedicati alle sante genti, e le campane delle chiese invisibili risuonano a festa. Questa processione ricorda la festa sacra del lago Manasarowar sull’Himalaya.

La leggenda russa di Kerjenetz del periodo tartaro racconta che le orde dei mongoli si avvicinavano all’antica città di Kerjenetz che era incapace di difendersi, perciò il popolo si chiuse nel tempio a pregare. Davanti agli occhi stupiti dei conquistatori si vide che la città sprofondava solennemente nel lago che, da quel tempo, è considerato sacro. Sebbene la storia si riferisca all’epoca del giogo tartaro si possono distinguere le basi della storia molto più antica delle migrazioni: la bella opera di Rimsky-Korsakoff, “La città di Kitege” è dedicata a questo fatto.

Molti kurgan delle steppe meridionali sono circondati da storie di un misterioso guerriero di cui nessuno conosceva la provenienza, e anche le zone dei monti Carpazi, in Ungheria, conservano le storie di tribù sconosciute, di guerrieri giganti e di città misteriose. Se potessimo raccogliere tutte le storie simili, dice Nicholas, potremmo compilare un catalogo di leggende che seguono la mappa di antiche migrazioni.

Un vecchio missionario cattolico disse che il luogo dove sorge Llassa era un tempo chiamato Gotha, e nella zona himalayana a circa 15.000-16.000 piedi ci sono parecchi menhir che in Tibet sono assai strani. Una volta, nel corso di un viaggio Nicholas vide delle lunghe pietre che sono assai significative per gli archeologi. Chiese alla guida tibetana cosa fossero quelle pietre, e la sua guida rispose che erano dei doring, cioè delle pietre lunghe che contrassegnavano un luogo sacro.

I tibetani mettevano del grasso sulla cime delle pietre per ingraziarsi le divinità locali che aiutavano i viaggiatori. Nessuno sapeva chi avesse posato quelle pietre, ma esse erano molto antiche, e si narrava che fossero la traccia del passaggio di un popolo sconosciuto. Sui rilievi trans-himalayani Nicholas vide lunghe file di pietre verticali che terminavano con altre tre pietre nel centro: la direzione di questa configurazione era ovest-est.

Una volta che ebbero messo il campo, Nicholas andò a osservare le pietre e si rese conto che erano proprio dei menhir, molto simili a quelli del famoso campo di pietre di Carnac. Nei pressi non c’erano oggetti, ma c’era solo un ruscello che scorreva, ma altro non poté scoprire, perché i tibetani impediscono gli scavi credendo che il Buddha impedisca di ferire la terra rivoltandone le zolle. Ma a Nicholas non furono necessari scavi per riconoscere la tipica costruzione druidica, infatti nei giorni seguenti ritrovò altri 4 gruppi di menhir.

Alcuni erano con il viale di pietre, mentre altri erano delle semplici pietre di forma allungata circondate da pietre più piccole, e quando la comitiva avanzò verso il Brahmaputra le costruzioni scomparvero. In rapporto con gli antichi santuari scoprì vecchie tombe in quadrato delineate da lunghe pietre, e di nuovo erano una perfetta replica delle tombe viste nell’Altai e nel Caucaso. In esse Nicholas aveva trovato una fibula con l’aquila a due teste, l’emblema riconoscibile delle tombe del Caucaso settentrionale, e anche nelle tombe tibetane Nicholas trovò delle spade identiche a quelle delle tombe gotiche.

Le donne di quel distretto portano dei copricapo simili a quelli dei popoli slavi, detti kokoshnik. Viaggiando sugli altopiani del Tibet, se osserviamo bene i tibetani, riflette Nicholas, si possono vedere dei volti che poco hanno a che fare con la fisionomia del tipo mongolo cinese, e che riconducono ai tratti europei deformati dall’incrocio di razze, ma che ricordano molto gli spagnoli, gli ungheresi oppure i francesi del sud.

I ghiacciai himalayani sono impietosi, perché il suolo è crudele, le rocce sono nude e vi scarseggiano anche gli animali, infatti anche le aquile in quei luoghi sono rare, perciò si può comprendere come i popoli volessero partire da quei luoghi per andare verso i deserti. Ma il loro spirito era nostalgico delle montagne, perciò quei popoli cercarono nei monti Altai un luogo simile a quello della loro origine, ma i ghiacciai allora erano ancora troppo vicini, perciò cercarono le terre più fertili del Caucaso e della Crimea.

Ancora una volta cercavano delle montagne che offrissero uno spazio sufficiente per respirare senza dover combattere contro i ghiacciai, e perciò anche i Carpazi divennero un territorio di felicità più invitante. Quei popoli pellegrini avanzarono oltre il verde dei monti e arrivarono fino alle coste dell’oceano, perciò oggi vediamo i menhir della Bretagna e di Stonehenge delle isole britanniche.

Ogni grande ricerca, scrive Nicholas, possiede delle finalità ma non possiede una fine, perché la fine equivale alla morte, però ogni ricerca vuole aggiungere sempre una nuova perla alla lunga collana della ricerca. Quando gli chiesero perché fosse così felice per il menhir, Nicholas rispose che era felice perché la carta geografica della sua fiaba si arricchiva, e aggiunse: ”Se avete trovato un filo incantato a Carnac, non è forse una gioia scoprire l’altro capo del filo magico, il capo iniziale, nella regione trans-himalayana?”

Si potrebbe obiettare che i costruttori di menhir trans-himalayani forse venivano da altrove, e che quella zona fosse un luogo fortuito di transito, e non la loro terra d’origine. Nulla lo può impedire, e nessuno può negare che fosse così. Delle conclusioni saranno tratte in futuro, perciò se il popolo di cui si dice corrisponde ai Goti, non sappiamo con certezza. Per Nicholas questo non ha importanza, cioè il fatto che fossero Goti oppure dei pronipoti. Erano in legame con i Celti, gli alani o gli Scitii?

Le indagini certe verranno in futuro, ma la sua felicità è grande per aver trovato un’incarnazione di Carnac nella regione trans-himalayana. Le denominazioni non sono importanti, soprattutto da quando scavò in un kurgan del 10° secolo e trovò nella mano dello scheletro una moneta del 15° secolo. Le fluttuazioni possono essere anche di secoli, ma i popoli risolvono i problemi dicendo che tutto ciò che scompare va sotto terra, perciò se chiediamo ai nonni il loro passato raccontano qualcosa di fantastico assieme alla verità.

Quando chiediamo alla gente di raccontare il passato, essa narra degli antenati perché è ancora in grado di farlo e ci dirà la verità. Le più antiche leggende tibetane narrano di popoli che costruirono menhir e dolmen, e dicono che erano popoli di sconosciuta origine. Le memorie tibetane raccontano di grandi viaggiatori. Dicono che due principi lasciarono l’India per andare verso il nord.

Durante il viaggio, uno dei due fratelli morì, e l’altro fratello ne onorò la memoria costruendo sul suo corpo una risplendente dimora per l’ultimo sonno usando delle enormi pietre. Dopo averlo fatto, esso riprese il suo lungo viaggio verso terre sconosciute. Perciò, conclude Nicholas, la memoria del popolo sa che le migrazioni delle genti avvengono nella speranza di trovarsi a vivere in modo migliore!

Buona erranza
Sharatan