sabato 31 ottobre 2015

Maestro e discepolo



“Il mio insegnante, il mio maestro, il mio eroe,
il mio ideale, il mio Dio nella vita.”
(Vivekananda)

Molti ricercatori si augurano di incontrare un maestro che li possa aiutare a trovare la via della realizzazione. E questo è legittimo, perché il miglioramento è la massima aspirazione del ricercatore spirituale. Ma tutto si complica perché i veri maestri sono rari mentre i ciarlatani sono molto diffusi e più numerosi. La questione si complica anche nel caso che avvenga l’incontro auspicato così fortemente, poiché nessuno ci garantisce che il maestro sia adatto alle caratteristiche del discepolo.

Oppure accade che il discepolo non riconosca il maestro, come avvenne a Vivekananda quando incontrò Sri Ramakrishna di cui divenne il discepolo prediletto. Ramakrishna fu visto come un avatar divino perché aveva una natura pura, innocente e gioiosa come quella di un bambino. Era nato a Kamarpukur, nel Bengala, il 18 febbraio 1836 da una famiglia di bramini ridotti in povertà, perché il padre di Ramakrishna era stato privato di tutti i beni per non aver reso falsa testimonianza a favore del ricco signore locale.

Si narra che suo padre Khudiram era di tale rettitudine che fu visitato dagli dei. Si disse che mentre era in pellegrinaggio a Gaya dove c’è un tempio con l’impronta del piede di Vishnù, sognò il Signore che gli rivelò che stava rinascendo per salvare tutta l’umanità. La stessa notte, sua moglie Chandramani, sognò che era nel tempio di Shiva e che il Signore l’abbracciava, poi fu penetrata da una luce accecante che le fece perdere i sensi.

Al suo risveglio era incinta, perciò suo marito la ritrovò trasfigurata e che sentiva le voci, perché portava un dio in grembo. Il bambino si dimostrò di carattere gioioso e radioso, infatti era incantevole e sempre pronto a ridere e giocare. La sua natura eccezionale si mostrò verso i 6 anni quando si trovò a camminare nei campi per portare il pranzo a suo padre, e vide il volo di un gruppo di gru bianche che volavano nel cielo.

Il contrasto tra l’azzurro del cielo e il candore delle gru colpì profondamente la sua anima e travolse il suo spirito. Perse i sensi e cadde a terra. Venne soccorso e riportato a casa: era la prima volta che veniva rapito in estasi. Non sapeva ancora che era destinato a trascorrere in stato di estasi la metà della sua vita.

Ma, già dalla sua prima estasi, si rivelò l’impronta divina che permeava la sua anima. L’emozione della contemplazione della natura risvegliò l’estasi, perché l’arte e la bellezza lo fecero entrare in contatto con Dio. Nella sua vita, Ramakrishna sperimentò tutte le vie che potevano condurre al Divino. Praticò la via dell’amore per il proprio prossimo e la via della conoscenza, il dominio della mente e la pratica dell’azione retta e disinteressata, la compassione e la meditazione.

Era un analfabeta che conobbe e comprese ogni cosa, e la sua prima esperienza spirituale, avvenne con il rapimento dei sensi prodotto dall’estetica. I suoi biografi dicono che la sua via fu quella dell’Amore per Dio che è la via più pericolosa di tutte le vie. Ramakrishna nasceva dal popolo bengalese che è ricco di artisti e di poeti musici che traggono aspirazione da Chaitanya, l’Amante estatico del dio Krishna.

Ramakrishna era appassionato di musica e poesia, infatti - già a 8 anni - cantava, modellava immagini sacre con la creta e dirigeva un gruppo d’arte drammatica. Durante una recita cadde ancora in estasi e da allora le estasi furono sempre più frequenti. Ma i suoi genitori erano profondamente devoti e abituati agli dei che interpretarono le estasi del figlio come la dimostrazione di doti prodigiose.

Ramakrishna si dimostrò un artista nel modellare con la creta, aveva una voce armoniosa e cantava in modo divino. Aveva un’intelligenza precoce che gli permetteva di parecipare alle conversazioni più colte, pur essendo un analfabeta. Era l'adoratore della Grande Madre, la dea Kalì, che fu l’Amata divina a cui restò fedele per tutta la vita.

All’inizio fu considerato un folle tanto che, molte volte acconsentì a sottoporsi a indagini e analisi mediche per far studiare il fenomeno dell’estasi in cui lui cadeva spesso. La cosa straordinaria era che non cadde in preda della follia, oppure che diventò il padrone della sua stessa follia.

Al tempo dell’incontro con il suo discepolo preferito, Sri Ramakrishna era già considerato un avatar divino. Vivekananda era nato il 12 gennaio 1863 nel giorno della festa di Makarasamkranti durante la quale milioni di indiani adorano il fiume Gange. Sua madre aveva una particolare adorazione per Shiva e invocava sempre le sue benedizioni.

Era una donna dall’aspetto regale che non tollerava nessuna mancanza di buone maniere. Ma aveva un cuore così generoso che era diventata la consolazione dei poveri ricevendone il rispetto e la stima di tutti quelli che la conoscevano. Lei stessa disse che prima di restare incinta di Vivekananda aveva sognato che il dio degli yogi si era destato dalla sua meditazione e che aveva accettato di rinascere come suo figlio. Si era svegliata felice, e quando era nato il suo bambino fu chiamato Narendra cioè “Signore degli uomini” o più affettuosamente Naren.

La famiglia Datta faceva parte della nobile casta dei guerrieri ed era nota per le sue ricchezze, per la filantropia, per l’erudizione e anche per l’anticonvenzionalismo dei suoi membri. Suo nonno aveva rinunciato a tutti i suoi beni, aveva preso la veste dei monaci erranti e non era più tornato. Suo padre era un famoso avvocato dell’Alta Corte di Calcutta, era appassionato di letteratura orientale e occidentale e, durante le cene con gli amici, recitava i passi della Bibbia e le poesie di Hafiz con la stessa disinvoltura.

Era attratto dalla cultura islamica e aveva familiarità con l’ambiente musulmano colto con cui aveva rapporti professionali. Era un agnostico, molto anticonvenzionale ma aveva un cuore così generoso e tollerante che lo spingeva a superare i suoi mezzi per aiutare i bisognosi. Naren era un ragazzo allegro e dolce ma anche un ragazzo irrequieto e testardo che era tenuto d’occhio da due balie a causa della sua esuberanza.

Era dispettoso perciò la madre gli infilava la testa sotto l’acqua fredda e invocava il dio Shiva chiedendogli di placarlo. Era tanto simile al nonno che la famiglia credeva che lui fosse la sua reincarnazione, infatti aveva una grande simpatia per i monaci erranti. Ebbe la sua prima formazione dalla madre che era una donna molto colta che gli insegnò l’alfabeto bengalese e l’inglese. La madre gli narrava le storie del Ramayana e del Mahabharata di cui conosceva interi brani a memoria.

Naren divenne devoto di Rama e della sposa Sita che adorò fin da ragazzo. In seguitò adorò Shiva, il dio della rinuncia e protettore degli yogi, ma mantenne l’amore per il Ramayana. Fin da ragazzo il futuro Vivekananda vedeva una luce risplendente al centro della fronte che gli ricompariva prima di addormentarsi. Lui stesso disse che mentre fissava la luce riusciva ad addormentarsi, e questo avveniva ogni giorno. Per molto tempo credette che tutti avessero questa visione prima di dormire.

Molti anni dopo, fu Ramakrisgrande che gli rivelò il mistero quando gli chiese se prima di addormentarsi vedesse una grande luce. Quando Vivekananda rispose affermativamente, Ramakrishna gli rivelò che quella visione rivelava il suo grande passato spirituale e il suo talento naturale per la meditazione. Fin da bambino Vivekananda aveva l’abitudine di meditare e restare concentrato così da essere incosciente di tutto. Vivekananda rivelò una grande intelligenza, una prodigiosa memoria e l’anticonformismo di famiglia.

La sua personalità fu influenzata dall’intelligenza del padre e dalla bontà della madre. Venne educato nel modo migliore affinché fossero evidenziate le sue qualità innate. Una volta lui stesso disse, con orgoglio, che per qualsiasi conoscenza avesse acquisito era in debito con sua madre. Fin dalla prima infanzia fu occupato in giochi e in invenzioni di ogni tipo.

Era un ragazzo che non tollerava nessuna paura, odiava i pregiudizi e la superstizione e, inoltre, mostrava l’attitudine naturale a diventare il leader di ogni gruppo in cui fosse inserito. Nell’adolescenza cambiò carattere in modo totale e l’esuberanza fisica diventò irrequietezza mentale e iniziò a interessarsi di questioni intellettuali dicendo di voler diventare un monaco errante. Leggeva molti libri di storia e di letteratura e iniziò a frequentare gli ambienti più colti incoraggiato dal padre.

In questo periodo rivelò una genialità poliedrica che si espresse anche nella musica che fu la sua grande passione. Studiò la musica vocale e strumentale con i migliori maestri. Sapeva suonare molti strumenti e cantava in indi, in urdu e in persiano soprattutto eseguendo gli inni sacri con una voce incantevole. Aveva un innato talento di capire un testo scritto leggendone solo l’inizio e la fine dei vari paragrafi, e questo gli era sufficiente per conoscerlo in modo profondo.

Crescendo era diventato un giovane atletico, muscoloso e agile anche se aveva la tendenza a essere robusto. Al college ebbe una formazione occidentale, studiò la logica, si specializzò in filosofia e studiò la storia antica e moderna di molte nazioni europee mostrando la sua memoria prodigiosa. Fu allora che ebbe l’occasione di incontrare Ramakrishna, e quell’incontro fu la svolta della sua vita.

Aveva sentito parlare di Sri Ramakrishna dal suo insegnante di letteratura inglese che lo aveva citato per le sue estasi religiose. L’insegnante aveva detto che il fenomeno dell’estasi era molto raro perché dimostrava una profonda purezza e concentrazione. Quindi aveva citato Ramakrishna come esempio vivente e inspiegabile razionalmente di quel particolare modo di comunica con la Divinità.

Questo lo scosse profondamente perché il giovane Vivekananda era già entrato in una grande irrequietezza spirituale. Quando avvenne il loro primo incontro erano in casa di un devoto del maestro dove Vivekananda era stato invitato per cantare dei canti sacri. Ramakrishna fu colpito dalla sincera devozione del giovane e dopo avergli rivolto poche parole lo invitò a Dakshineswar.

Vivekananda accettò perché voleva capire se Ramakrishna era folle oppure se era l’uomo che poteva aiutarlo nella sua ricerca spirituale. Il grande maestro era già considerato una manifestazione divina e attirava uomini e donne di fede come se fosse un fiore che attira le api. Ma Ramakrishna non era mai soddisfatto perché paragonava tutti al latte annacquato senza sapore, e diceva che era stanco di incontrare solo della gente priva di sapore.

Gia dal loro primo incontro Ramakrishna lo riconobbe. Dopo averlo sentito cantare, Ramakrishna lo condusse nel portico della casa per parlargli in privato. Gli parlò con le lacrime agli occhi dichiarandosi felice perché finalmente era arrivato. Lo trattò come un vecchio amico ritrovato e lo rimproverò per aver tardato tanto ad arrivare, lasciandolo solo ad ascoltare le stupidaggini del mondo. Disse che era ansioso di vederlo e che finalmente era giunto l’unico essere che comprendeva le sue parole.

Poi rivelò che Vivekananda era l’antico Nara cioè l’incarnazione di Narayana, che era disceso sulla terra per eliminare tutte le miserie dell’uomo. Il razionale e scettico Vivekananda giudicò quelle parole come il frutto dei vaneggiamenti di un folle. Ramakrishna gli rese omaggio mettendogli in bocca dei dolci, perciò non gli permise di rifiutare l’invito di andarlo a trovare a Dakshineswar.

Quando rientrarono nel salone, Vivekananda restò ancora più stupefatto vedendo che Ramakrishna aveva assunto un atteggiamento normale e assennato. Tornando a casa pensò allo strano personaggio che aveva appena incontrato, ma sentiva una pace interiore che non conosceva. Il secondo incontro avvenne in modo ancora più sconcertante. Infatti, dopo pochi minuti che era entrato a casa del maestro, Ramakrishna gli si avvicinò con atteggiamento estatico, sussurrò alcune parole, lo fissò negli occhi e poi toccò il suo corpo con il piede.

Subito dopo il contatto, il giovane Vivekananda vide che il mondo svaniva, e si sentì sprofondare nel vuoto. Sentendosi sprofondare fu certo di essere vicino alla morte e gridò: “Cosa mi state facendo? A casa c’è la mia famiglia che mi aspetta!” Il maestro rise, lo massaggiò al petto e gli disse: “Stai tranquillo, va tutto bene. Ogni cosa verrà al momento giusto!”

Vivekananda restò sconvolto e fu certo che Ramakrishna gli aveva gettato un influsso ipnotico perciò si arrabbiò con se stesso per non aver saputo resistere al potere di un matto. Com’era stato possibile che lo avesse preso così alla sprovvista? Com’era potuto avvenire a uno come lui che aveva una volontà di ferro? La terza visita non andò meglio malgrado Vivekananda fosse sospettoso e rimanesse in guardia nei riguardi dello strano personaggio. Ramakrishna lo portò in giardino, lo toccò e Vivekananda cadde in trance e perse la conoscenza.

In seguito Ramakrishna gli rivelò che lo aveva mandato in trance per interrogarlo sulle sue vite passate, per conoscere la sua missione sulla terra e per sapere la durata della sua vita presente. Le sue risposte gli avevano confermato quello che lui aveva già intuito. Ramakrishna rivelò agli altri discepoli che Vivekananda aveva raggiunto la perfezione ancor prima della sua incarnazione attuale e che era un grande adepto della meditazione.

Disse pure che, il giorno in cui Vivekananda avrebbe scoperto chi era realmente avrebbe voluto lasciare la terra. In molte occasioni disse che Vivekananda era uno dei sette sacri rishi che vivono nel regno dell’Assoluto e narrò una visione che rivelava la grandezza del suo discepolo preferito. Rivelò che, un giorno, mentre era immerso nel samadhi, aveva visto che la sua mente saliva oltre la sfera del sole e della luna e arrivava nel mondo degli dei.

Poi continuò a salire e oltrepassò anche il mondo degli dei finché giunse nel regno del Trascendente. In quel regno, egli vide i sette sacri rishi immersi in meditazione e pensò che coloro avevano superato anche il livello degli dei. Mentre ammirava i saggi risplendenti di sublime spiritualità vide che una parte dell’Assoluto si materializzava e assumeva l’aspetto di un bambino divino. Il bambino sfiorò il collo di uno dei sette saggi con le sue tenere mani e gli sussurrò qualcosa all’orecchio.

Al tocco gentile del bambino, il saggio si distolse dalla meditazione e lo fissò. Allora il bambino divino gli chiese con gioia: “Io sto scendendo sulla terra. Vuoi venire con me?” Il saggio sorrise e acconsentì poi tornò a immergersi nell’estasi profonda della meditazione. Ramakrishna vide che una piccola parte del saggio scendeva sulla terra ed entrava nella casa dei genitori di Vivekananda.

Perciò quando aveva incontrato Vivekenanda aveva capito che era l’incarnazione del saggio, e aveva capito che lui stesso, Ramakrishna, era il bambino divino che aveva risvegliato il sacro rishi e che gli aveva chiesto di scendere insieme sulla terra. Vivekananda non lo aveva riconosciuto ma, da quando lo aveva incontrato, non riusciva a stare lontano da Ramakrishna.

Esteriormente, il maestro e il discepolo non potevano sembrare più diversi, perché Ramakrishna non era attratto dalla modernità mentre Vivekananda era il simbolo della mente moderna. Vivekananda era uno spirito curioso e vivace, un giovane intellettuale ricco e colto, ma era anche uno scettico razionalista. La sua mente era aperta, ma si rifiutava di accogliere quello che non aveva una spiegazione logica. Non aveva nessuna necessità di avere la guida di un maestro, e non tollerava nessuna interferenza tra lui e Dio.

Vivekananda ridicolizzava le divinità di Ramakrishna, compresa la Dea Kalì, la Grande Madre Divina che il maestro adorava perché le considerava tutte superstizioni o allucinazioni. Vivekananda osservò per 5 anni il suo futuro maestro prima di accettarlo come tale e mise sempre alla prova tutte le sue affermazioni. Accettarlo come maestro e come ideale spirituale gli costò molta fatica. Ma quando avvenne, Ramakrishna ottenne il seguace più devoto e fedele che non lo abbandonò fino alla morte.

Ramakrishna fu molto felice di aver trovato un discepolo che lo accettava solo dopo aver riflettuto e accettato le sue parole. Fu felice di essere osservato con occhio critico dal discepolo, e lo amò perché Vivekananada non gli obbedì mai per soggezione. Ramakrishna non gli chiese mai di rinunciare alla sua libertà mentale e affrontò la sfida dell’intelligenza di Vivekananda con pazienza infinita. Fu così che potè domare un carattere fiero, nobile e ribelle.

In cambio, ebbe il migliore seguace che un maestro può augurarsi di trovare. La presenza di Vivekananda era sufficiente per renderlo felice e, ai discepoli che cercavano di denigrarlo per gelosia, rispondeva che non lo dovevano mai criticare perché Vivekananda era perfetto ancora prima di nascere. Vivekananda ricambiava il suo amore, perché in Ramakrishna vedeva l’incarnazione dello Spirito Divino che non poteva essere contaminato dalla sporcizia del mondo.

Inizialmente, Vivekananda era imbarazzato per l’adorazione che Ramakrishna mostrava nei suoi riguardi e criticava la sua parzialità. Ramakrishna rispondeva che non poteva fare a meno di amarlo e Vivekananda ribatteva che non voleva far parte delle sue fantasie e delle sue allucinazioni. Malgrado tutto Vivekananda non riusciva a fare a meno di andare a trovare Ramakrishna ammettendo che “il Vecchio” lo aveva reso prigioniero con il suo amore. E anche quando ammise la devozione e l’amore infinito che provava per il maestro, per molto tempo continuò a criticava la devozione di Ramakrishna per la dea Kalì.

Il segreto dello strano rapporto tra discepolo e maestro era il fatto che Ramakrishna non pretese mai che Vivekananda rinunciasse alla sua libertà. Ogni volta che il discepolo lo metteva alla prova e qualcuno faceva notare che Vivekananda non aveva un atteggiamento rispettoso, lui rispondeva che lo amava perché non credeva a nulla di cui non fosse convinto. Anche il maestro metteva alla prova il suo giovane discepolo infatti, una volta, lo trascurò volutamente per più di un mese. Poi gli chiese perché si ostinasse a tornare sebbene non gli rivolgesse più la parola.

Vivekananda rispose che non gli interessava che gli parlasse. Lui lo amava, perciò gli bastava solo di vederlo per essere felice. Ramakrishna lo abbracciò tutto felice e gli confessò che aveva fatto un grande sacrificio a ignorarlo e sembrare indifferente, ma voleva metterlo alla prova. Quando Ramakrishna gli disse che voleva trasmettergli i suoi poteri spirituali, Vivekananda rispose che non li voleva perché temeva di usarli per scopi egoistici.

La mente di Vivekananda era stata forgiata a pensare in maniera nobile perciò li accettò solo quando vi fu costretto. Ma volle chiarire che prendeva i poteri del maestro solo per aiutare i deboli, i poveri e gli ultimi della terra. Vivekananda ebbe l’insegnamento di Ramakrishna solo per 6 anni, ma andò da lui ogni volta che aveva difficoltà. Quando il maestro si ammalò di cancro Vivekananda non lo lasciò mai e lo accudì con affetto insieme agli altri discepoli fino alla morte.

Era stato il discepolo che lo aveva compreso meglio e che lo aveva seguito più fedelmente, ma non aveva rinunciato mai al diritto di metterlo alla prova. Anche mentre lo vedeva morire dubitò che fosse stato un vero avatar. Ramakrishna era stremato dal cancro alla gola che gli impediva di mangiare e parlare, ma trovò la forza di dirgli:

“Ancora non sei persuaso? Colui che visse come Rama e visse come Krishna, ha vissuto in questo corpo come Ramakrishna, anche se questo non è comodo per il Vedanta.” Lui non aveva fatto la domanda ma Ramakrishna aveva risposto al suo pensiero. Una settimana dopo la sua morte, Vivekananda passeggiava con un condiscepolo quando Ramakrishna gli apparve rivestito del suo luminoso corpo di gloria. Lo videro e mentre stavano per chiamare gli altri monaci, la figura luminosa di Ramakrishna scomparve.

Buona erranza
Sharatan

martedì 27 ottobre 2015

Quando il sentiero si fa difficile



“Quando il mondo è pieno di malvagità,
trasforma ogni disavventura nel sentiero della Bodhi.”
(Atisha)

“Questo è il consiglio più schietto su come risvegliare bodhicitta: pratica il non causare sofferenza ad alcuno, a te stesso o ad altri e ogni giorno fai il possibile per essere d’aiuto. Se prendiamo a cuore questa istruzione e cominciamo ad applicarla, scopriremo che non è poi tanto facile. Prima di rendercene conto, qualcuno ci ha provocato e, direttamente o indirettamente, abbiamo causato sofferenza.

Perciò, quando l’intenzione è sincera, ma il percorso si fa accidentato, potremmo usare qualche supporto, qualche istruzione fondamentale su come alleggerire e rovesciare le nostre ben radicate abitudini di attaccare e biasimare. I quattro metodi per rimanere al nostro posto ci forniscono proprio tale supporto per sviluppare la pazienza necessaria per rimanere aperti a quello che accade invece di agire inserendo il pilota automatico.

Questi quattro metodi sono: non issare il bersaglio per la freccia, connettersi con il cuore, vedere gli ostacoli come maestri e considerare tutto quello che accade come un sogno. Primo, se non abbiamo issato il bersaglio, non possiamo essere colpiti dalla freccia. Questo significa che ogni volta che rendiamo la pariglia con parole e azioni aggressive, rafforziamo l’abitudine della rabbia.

Finché ci comportiamo così, senza dubbio, moltissime frecce incroceranno il nostro cammino. Le reazioni degli altri ci irriteranno sempre di più. Ma, ogni volta che veniamo provocati, ci viene offerta l’occasione di fare qualcosa di diverso. Possiamo rafforzare vecchie abitudini issando il bersaglio o possiamo indebolirle rimanendo al nostro posto. Ogni volta che sediamo fermi con l’irrequietezza e il calore della rabbia, ci dominiamo e ci rafforziamo. Questa è un’istruzione per coltivare la radice della felicità.

Ogni volta che agiamo per rabbia o la reprimiamo, aumentiamo l’aggressività, diventiamo sempre più simili a un bersaglio ambulante. E, con il passare degli anni, quasi tutto ci fa dar fuori di matto. Questa è la chiave per comprendere, a livello del tutto concreto e personale, come piantare i semi della sofferenza. Dunque questo è il primo metodo: ricordarsi che noi issiamo il bersaglio e solo noi possiamo abbassarlo. Comprendere che, se restiamo al nostro posto quando vorremmo rendere la pariglia, anche se brevemente, cominciamo a dissolvere uno schema di aggressività che, se trascurato, continuerà per sempre a ferire noi e gli altri.

Il secondo metodo è l’istruzione per connettersi con il cuore. Nei momenti di rabbia, possiamo entrare in contatto con la gentilezza e con la compassione che già abbiamo dentro di noi. Quando un pazzo ci ferisce, comprendiamo che non sa che cosa sta facendo. Possiamo entrare in contatto con il cuore e sentire la tristezza perché quella persona ha perso il controllo e si fa del male ferendo gli altri. Anche se abbiamo paura, possiamo non provare odio o rabbia. Piuttosto, ci sentiamo spinti ad aiutare la persona, se possiamo.

In effetti, un folle è molto meno pazzo di un sano di mente che fa del male, perché la cosiddetta persona sana è in grado di rendersi conto che agendo aggressivamente pianta i semi della sua stessa confusione e insoddisfazione. La sua attuale aggressività rafforza la futura e più radicata tendenza ad agire violentemente. Questa persona sta creando la sua telenovela personale. Questo genere di vita è colmo di dolore e di solitudine. Dunque, questo è il secondo metodo: connettersi con il cuore. Ricordare che chi fa del male non ha bisogno di essere provocato ulteriormente e dunque non farlo.

Il terzo metodo è l’istruzione su come vedere le difficoltà come maestri. Se non abbiamo un insegnante che ci dia istruzioni dirette e personali su come smettere di causare sofferenza, niente paura! La vita stessa creerà le occasioni per farci imparare come possiamo restare al nostro posto. Senza il vicino sconsiderato, dove coglieremmo l’opportunità per praticare la pazienza? Senza il prepotente in ufficio, come troveremmo l’occasione per conoscere l’energia della rabbia tanto intimamente che perda il suo potere distruttivo?

Il maestro è sempre con noi. Il maestro ci mostra sempre con precisione dove siamo, incoraggiandoci a non parlare e a non agire negli stessi vecchi schemi nevrotici, incoraggiandoci anche a non reprimerci, a non dissociarci e a non piantare i semi della sofferenza. Dunque, alla persona che ci fa paura o ci insulta reagiamo come abbiamo già fatto centomila volte o cominciamo a risvegliarci e a restare finalmente al nostro posto?

Proprio nell’attimo in cui stiamo per perdere le staffe o ritrarci nell’oblio, ricordiamo: siamo guerrieri in formazione a cui viene insegnato come stare seduti con l’asprezza e il disagio. La sfida è di stare e rilassarci dove siamo. Il problema con queste, come con tutte le istruzioni, è che abbiamo la tendenza a essere troppo seri e rigidi. Quando ci viene insegnato a cercare di rilassarci e di essere pazienti, diventiamo tesi.

A questo punto entra in gioco la quarta istruzione. È utile pensare alla persona arrabbiata, alla rabbia stessa e all’oggetto della rabbia come fossero un sogno. Possiamo guardare la nostra vita come un film in cui interpretiamo temporaneamente il ruolo del protagonista. Anziché darle tanta importanza, possiamo riflettere sull’insostanzialità della nostra attuale situazione. Rallentiamo e ci chiediamo:

“Chi è questo monolitico me che si sente tanto offeso? E chi è quest’altro che riesce a provocarmi tanto? Che cosa sono la lode e il biasimo che mi prendono all’amo come un pesce, che mi catturano come un topo nella trappola? Come mai queste circostanze hanno il potere di spingermi come una pallina da ping-pong dalla speranza alla paura, dalla felicità alla sofferenza?”

Tutto questo dramma della lotta del sé, dell’altro può essere considerevolmente alleggerito. Contemplate le circostanze esterne, come pure le emozioni e l’enorme senso dell’ego come passeggeri e insostanziali, come un ricordo, un film, un sogno. Quando ci svegliamo al mattino, sappiamo che i nemici del sogno sono l’illusione. Quella realizzazione recide il panico e la paura.

Quando ci ritroviamo catturati nell’aggressività, possiamo ricordare: non c’è alcun fondamento per attaccare o per reprimere. Non c’è fondamento per l’odio o per la vergogna. Possiamo perlomeno cominciare a mettere in discussione le nostre convinzioni. È possibile che, sia che siamo svegli sia che siamo addormentati, stiamo solo passando da uno stato di sogno all’altro?

Questi quattro metodi per rovesciare la rabbia e imparare un po’ di pazienza provengono dal Tibet, dai maestri della scuola Kadampa dell’undicesimo secolo. Queste istruzioni hanno incoraggiato i boddhisattva principianti nel passato e sono altrettanti utili nel presente. Questi maestri consigliavano di non procrastinare. Spingevano a utilizzare le istruzioni immediatamente, proprio oggi, proprio nell’attuale situazione.” (Pema Chondrom, Consigli a un guerriero compassionevole: avere il coraggio del Buddha nelle avversità della vita, Mondadori)

domenica 25 ottobre 2015

I sei bardo



“Pure con una lampada fra le mani
un cieco non vede la sua strada”
(Proverbio tibetano)

Viene insegnato che tutta la dottrina del Buddha è contenuta nella dottrina del bardo, e che quelli che vogliono conquistare la buddhità in una sola vita devono mettere in pratica i sei bardo. Un bardo è uno stato che “non è né qui, né lì” ossia è uno stato intermedio. Tutti gli uomini vivono 6 tipi di bardo, infatti vivono il bardo naturale della vita attuale, quello allucinatorio del sogno, quello dell’assorbimento meditativo, quello doloroso della morte, quello luminoso dell’avvenire e il bardo karmico del divenire.

Il bardo naturale della vita si vive nel tempo che passa tra la nascita e la morte, perciò ora viviamo nel bardo della vita attuale. La condizione umana è tale da imporre una riflessione sul tempo che ci resta da vivere per fare attenzione a non sprecarlo. Spesso sprechiamo la nostra vita in modo inutile e siamo troppo pigri o veniamo distratti da attività infruttuose.

Non ci ricordiamo o non sappiamo che, dal modo in cui viviamo il presente, dipenderà la vita che potremo avere in futuro. Se facciamo il bene e evitiamo il male arriveremo al momento della morte senza avere rimpianti: questo è l’insegnamento del primo bardo. Il bardo di sogno si vive nel tempo tra l’addormentarsi e il risveglio. Questo bardo somiglia alla morte da cui si differenzia solo perché è di minore durata. Durante il sonno si annullano le percezioni sensoriali e si entra nell’alaya cioè si entra nello stato dell’incoscienza.

In seguito si riaffermano gli stati dell’aggrapparsi e della percezione illusoria perché siamo stimolati dall’energia karmica della nostra ignoranza. Come risultato vediamo che gli oggetti dei sensi si esprimono nello stato di sogno con rappresentazioni che sorgono come oggetti di sogno. La coscienza, che non può muoversi all’esterno, usa gli oggetti interni in modo allucinatorio e ingannevole, infatti questo bardo è detto bardo allucinatorio.

Nel bardo di sonno la coscienza viene ingannata e vaga tra le immagini delle percezioni sensoriali che ha assorbito di giorno. Il dormiente sogna vedendo soltanto le illusioni che ha creato con la sua immaginazione. Molti dicono che noi siamo illusione e che tutto è sogno, ma noi crediamo che la vita del sogno è irreale mentre la vita da svegli è la sola vita reale.

Per i Buddha, sia i sogni che la vita da svegli sono illusori perché sono stati fluttuanti, irreali e impermalenti. Se guardiamo le cose della vita le vediamo finire in un attimo, perché tutto è destinato a svanire in un attimo. Tutto scorre e svanisce velocemente, perché la vita è un flusso costante: questa è la verità ovvia che ci sfugge. Ma noi siamo legati solo alle percezioni sensoriali perciò crediamo che tutto quello che abbiamo siano nostro e che possa durare per sempre.

Questa è la causa per cui restiamo nel samsara, perciò dobbiamo lavorare tenendo conto di tutte le illusioni. E allora preghiamo di saper vedere l’illusorietà del bardo di sogno valutandola come un’illusione. Dobbiamo lavorare anche con il sogno unendo le percezioni diurne e le percezioni notturne. Se avremo l’apprendimento dell’impermanenza della vita ne ricaveremo molti benefici. Il bardo dello stato meditativo è quello che abbiamo nell’equilibrio della meditazione.

Questo bardo è diverso da quello che viviamo nella percezione illusoria della vita. È uno stato di quiete, stabilità e concentrazione fresco e puro come quello dell’oceano che è immobile perché si sono placate tutte le sue tempeste. Ma non possiamo viverlo se la mente resta piena di pensieri o imprigionata in correnti mentali sotterranee e sottili che s’intrecciano confusamente tra loro.

Si dice che i meditanti non devono cadere in preda di pensieri che arrivano come ladri che ci tolgono la presenza mentale e la diligente concentrazione che sono necessarie per entrare nella meditazione. Il bardo di sogno e il bardo dello stato meditativo sono suddivisioni del bardo della vita presente, nel quale è inclusa anche la pratica buddista. E seppure avvenisse in modo intermittente può venire attuata tutta la vita, perciò si può avere la speranza di riuscire.

Il doloroso bardo della morte accade quando sentiamo che la vita ci sfugge perché siamo malati, vecchi o per qualsiasi altro motivo. A quel punto vediamo che tutto quello che abbiamo compiuto è inutile, perché dobbiamo lasciare ogni cosa. Anche se abbiamo tutto l’oro della terra non possiamo portarci via nulla. Quanto arriva il momento di andare via non teniamo più nulla.

Portiamo con noi solo il karma positivo o negativo, le nostre azioni diventano l’unico bagaglio che terremo con noi. Qualcuno avrà perfezionato la pratica del trasferimento della coscienza, e saprà proiettare il suo principio di coscienza nel campo puro. In questo modo potrà riprendere il corso del progresso spirituale che ha fatto. Seppure fossimo esperti dovremo morire senza provare rimpianti, e avremo fatto un bel favore a noi stessi.

Molti insegnano a restare consapevoli nel momento della morte. Dobbiamo avere il tempo di tagliare le catene che ci legano ai beni terreni, perché questo legame ci riporta nel samsara. Ma se sappiamo trasferire la nostra coscienza in una terra pura appena cessa il respiro, abbiamo la condizione migliore per continuare la nostra evoluzione. A ogni buon conto è meglio prepararci al passaggio in modo che la morte non venga inattesa.

Se siamo pronti non avremo una morte dolorosa o difficile, e andremo incontro al momento cruciale senza avere paura. A ogni buon conto, il momento giusto per prepararsi è adesso, cioè nel bardo della vita presente. Va saputo che, con la morte, il corpo si dissolve perché i cinque elementi si separano. Questo inizia quando cessa il respiro e finiscono i movimenti interni.

Quando l’essenza bianca che abbiamo ricevuto da nostro padre e quella rossa che abbiamo ricevuto da nostra madre si fondono, in quel momento, la mente lascia il corpo. La mente di chi non ha nessuna esperienza si disperde in una profonda incoscienza. Ma la mente dei maestri e di chi si è preparato si dissolve nello spazio puro e in una grande luce. Il frutto della pratica è avere la capacità di perdersi in una luce pura e incontaminata come il cielo.

Se una persona si è addestrata a vedere la luminosità durante la meditazione, non appena la luce si presenta dopo la morte avviene l’incontro tra la luminosità madre e la luminosità figlia che permette la liberazione. Chi la pratica la chiama “dimorare nel thuktam” ossia meditare nel momento della morte. Solitamente, al momento della morte, giunge l’oscurità e la coscienza si perde nelle percezioni del 5° bardo ossia nel bardo della realtà assoluta.

In questo bardo sorgono divinità pacifiche e divinità iraconde, perché entrambi sono presenti nella nostra consapevolezza. Il loro arrivo è preceduto da suoni e da luci che spaventano quelli che non hanno dimestichezza con quelle realtà. Ma appena scompare la paura anche i suoni e le immagini svaniscono. Il bardo del morire va studiato con quello della realtà ultima, infatti dopo che i 5 elementi svaniscono anche la coscienza si perde nello spazio puro e immacolato colmo di luce.

Se non conosciamo questo bardo e non siamo preparati, non sapremo riconoscere la grande luce. Quella luce non dura a lungo se non viene riconosciuta, se invece la riconosciamo dura più a lungo. La cosa più importante è restare consapevoli quando arriva il momento della nostra morte, e riuscire a recidere l'attaccamento alle cose. È importante anche invocare il nostro maestro affinché possa aiutarci a raggiungere un campo puro, dopo la nostra morte.

Una preghiera concentrata e molto sentita riesce sempre utile, perché può raggiungere un Buddha compassionevole che, sentendosi invocare per nome, verrà a sbarrare la strada dell’infelice rinascita in regni inferiori. Quando la morte causa la separazione tra il corpo e la mente resta soltanto un corpo sottile e luminoso. Resta un corpo luminoso che ci crea l’impressione di poter vedere il cammino che si sta facendo. Per questo motivo gli esseri che vagano nel bardo del divenire si vedono e si sentono tra loro.

La caratteristica bardo del divenire è che quando la coscienza di bardo vuole trovarsi in qualche luogo, essa vi si ritrova subito. Il corpo di bardo è un corpo mentale che può andare ovunque, e che può essere presente in ogni luogo. Chi è morto da poco può sentire quello che avviene dopo la sua morte. La mente di bardo del morto gioisce o soffre mentre vaga nello stato intermedio.

Nel bardo del divenire restano solo quelli che, nella vita, non hanno fatto il male ma neppure il bene. Chi ha fatto solo il male, non entra nel bardo del divenire, ma rinasce subito nei regni inferiori, invece chi ha fatto solo il bene entra subito in una terra pura. In genere, chi è vissuto come un essere che non ha fatto troppo male ma neppure troppo bene dovrà entrare nel bardo del divenire che prevede la sofferenza.

Si racconta che quando Avalokiteshvara, il Grande Buddha della Compassione, perse la speranza di riuscire a salvare tutti gli esseri senzienti la sua testa si spezzò in undici pezzi e il suo corpo si frantumò in mille pezzi per il dolore. A quel punto gli apparve il Buddha Amitabha che benedisse ogni frammento del suo corpo in modo che Avalokiteshvara poté rinascere con undici teste, mille braccia e mille occhi per poter continuare a lavorare alla salvezza di tutti gli esseri senzienti.

Buona erranza
Sharatan

martedì 20 ottobre 2015

La vita nel sonno



“Ogni notte apri agli spiriti la loro gabbia,
senza che dominino o che vengano dominati.”
(Jalaluddin Rumi, Mathnawi)

La vita umana trascorre nell’alternarsi di tre stati: la veglia, il sonno e il sogno. A livello scientifico si afferma che la coscienza è attiva solo nello stato di veglia perché nel sonno siamo incoscienti mentre, nel sogno, mettiamo in scena le rappresentazioni simboliche del nostro inconscio. Invece, a livello spirituale, il sonno, il sogno e la veglia possiedono un significato molto diverso e profondo. A livello spirituale si può osservare che, quando ci addormentiamo, subiamo una scissione delle parti che ci formano. Infatti il corpo fisico e quello eterico restano nel letto, mentre il corpo astrale con il suo nucleo cioè l’io, si staccano dagli altri 2 involucri e salgono nei mondi spirituali: e la scissione accade ogni volta che ci addormentiamo.

Al risveglio, rientriamo negli involucri lasciati nel letto e ritroviamo la realtà che avevamo lasciato. Ma riportiamo, dal mondo spirituale, dei contributi molto diversi da quelli che potremmo acquisire nella vita quotidiana. Mentre dormiamo viviamo una condizione molto diversa da quella che la nostra coscienza vive durante la vita ordinaria. La nostra coscienza ordinaria è il frutto del riflesso del mondo esterno ma, mentre dormiamo, entriamo nel mondo spirituale che usa una logica molto diversa da quella a cui siamo abituati.

Mentre dormiamo entriamo in un mondo fatto di luce, viviamo in un mondo pieno di pura luce vibrante e vivente. Da questo mondo riportiamo le forze necessarie per rinnovare e ritemprare il corpo fisico. Di giorno, quando siamo svegli, siamo degli uomini terreni e attraversiamo la luce con il corpo fisico, ma non la possiamo percepire, anche la nostra percezione avviene tramite l’anima e lo spirito. Mentre siamo addormentati, il corpo astrale con il nucleo dell’io, entrano nel mondo che risplende di luce calda e vibrante, perciò diventiamo degli esseri spirituali fatti di luce pulsante.

Nel sonno diveniamo una nuvola di luce che splende nella luce cosmica. Nel sonno, diventiamo una nuvola luminosa e calda che si perde nella luce cosmica. Ma questo non vuol dire soltanto che si diventa esseri molto caldi e luminosi, ma significa anche che viviamo in un enorme intreccio di potenti forze cosmiche. Queste forze, di giorno, sono contenute nei nostri pensieri perché noi viviamo all'interno delle idee e dei concetti che diverranno i nostri pensieri. E questa è la cosa più difficile da comprendere per la logica consueta.

La luce cosmica viene attraversata da molte forze creative. Queste forze sono visibili nelle stelle che agiscono attivando il fiorire della vita vegetale e sul funzionamento dell'organismo degli animali. Le forze della luce esistono anche in modo indipendente da ciò che si mostra nella realtà materiale, perché provengono dal mondo spirituale. Mentre dormiamo, sperimentiamo la luce e assorbiamo tutte le forze creative della luce che vengono a intessere l’essere.

L’essere sente di essere luce in mezzo alle altre creature fatte di luce. Mentre dormiamo, il corpo astrale e l’io, vivono come nuvole luminose che fanno parte della luce cosmica, sentono la pura spiritualità vivente. Sentendoci luce nella luce e calore nel calore ci percepiamo come spirito che fa parte di un mondo colmo di spirito. Il calore che sentiamo non è il calore del mondo fisico: è un calore pieno di amore “vibrante e rinforzante.” Mentre dormiamo impariamo che siamo esseri fatti d’amore e sappiamo che non potremmo essere altro che questo.

Dormendo, entriamo nel mondo spirituale e impariamo a vivere delle esperienze piene d’amore. La notte, impariamo a vivere in mezzo a entità che sono composte d’amore, che basano sull’amore la loro esistenza e che traggono dall’amore la loro stessa essenza. Entriamo nel mondo spirituale e impariamo che non potremmo essere altro che amore perché il mondo dello spirito è colmo d’amore, perché l’amore è la base dell’esistenza universale: e tutto questo lo impariamo durante il sonno.

Ma potremmo ancora non capire lo scopo dell'esperienza, se non diciamo che il sonno è la preparazione alla morte. Non a caso si disse che il sonno è il fratello minore della morte. Perciò se, dopo la morte, non vogliamo entrare nei mondi spirituali nel modo sbagliato dobbiamo aumentare la nostra capacità di amare altrimenti vivremo molte esperienze ma esse ci risulteranno oscure e saremo smarriti, angosciati e passivi durante il passaggio dalla vita alla morte.

Nel mondo terreno non conosciamo l’amore spiritualizzato, ma conosciamo solo l’amore passionale fatto di materialità. Nel mondo spirituale esiste solo amore spiritualizzato, perciò dobbiamo diventare coscienti di questo. Dobbiamo vedere l'esperienza del sonno come una prova di questo grande passaggio. Ma riusciamo a farlo solo se aumentiamo la nostra capacità di amare, altrimenti tutto questo ci resterà oscuro. L’apprendimento sul modo giusto di affrontare l'ingresso nel mondo spirituale avviene con o stato di sonno, avverte Steiner.

Ma lo comprendiamo se lasciamo il pensare usato dal corpo fisico e dall’eterico che giacciono nel letto. Va saputo pure che il corpo eterico continua a pensare anche durante il sonno, in quanto conserviamo la nostra capacità di pensare anche mentre l’anima è assente. in questo modo sapremmo pure che quello che giace nel letto continua a spingere le onde del suo pensiero. E quando, al risveglio, ritorniamo a immergerci nei 2 corpi che avevamo lasciato ritroviamo i nostri pensieri. Al risveglio, ritroviamo sempre i nostri pensieri.

Ad ogni risveglio, rientrando nell'involucro fisico ed eterico, si produce un’onda più densa che entra dentro un mare meno denso, e sentiamo che c'è un arresto. Il corpo astrale e l’io che, dormendo, hanno vibrato nella luce e nel calore cosmici ricolmi d’amore, al risveglio, si ritrovano immersi nei veicoli densi e nei pensieri consueti. Ma non li comprendono subito perciò l’arresto è percepito come un sogno del mattino. Di solito, si attribuisce un’importanza ridotta alla vita onirica, oppure viene creduta importante solo per lo studio dell’inconscio individuale, ma non viene considerata importante per acquisire una profonda conoscenza del mondo.

In realtà, il sonno e il sogno possiedono grande importanza perché sono lo spiraglio attraverso il quale mondi diversi dal nostro possono affacciarsi nel nostro mondo. A causa di questi equivoci siamo indotti a credere che il sogno sia un residuo della vita di veglia, infatti si crede che il sogno mostri ciò che non possiamo fare o quello che non sappiamo essere durante la vita di veglia. Si dice che sogniamo ciò che non possiamo trovare o non possiamo fare da svegli. Tutto questo contenuto diventa il nostro sogno, e ogni desiderio inappagato e l'illusione diventa un sogno notturno.

Ma la verità è ben altra, infatti il dormiente estrae il suo corpo astrale e il nucleo dell’io fuori dall'involucro fisico e dall'eterico, e si ritrova a essere l’entità che ha già percorso molte vite terrene. Le parti più forti dell’essere sono sempre l’io e il corpo astrale, perché essi conservano tutti i ricordi delle vite terrene passate. Tutti questi ricordi possono pervadere l’anima e lo spirito dell’entità che sogna alcune tracce dei suoi più antichi ricordi. Al nostro interno conserviamo la struttura complessiva di tutto quello che siamo, e molto di questo diventa la rappresentazione dei nostri sogni notturni.

La vita onirica non si capisce perché le immagini oniriche vengono condizionate dai nostri pensieri. Ma, durante il sonno non abbiamo la rappresentazione completa di tutto il nostro essere, perciò le immagini del sogno mostrano una drammatizzazione camuffata e parziale di tutto quello che l’uomo ha già vissuto in passato. Durante il sogno, l’uomo ha un rapporto con se stesso che è molto diverso da quello che vive da sveglio. Il sogno ci mostra quello che accade nel mondo sensibile, ma ce lo mostra in un modo totalmente trasformato.

Per questo motivo, nel sogno, tutto diventa possibile, persino fare dei voli acrobatici anche aver bisogno di avere l'aereo. Queste cose sono chiamate rappresentazioni fantastiche, perché la coscienza consueta non le può ammettere usando la sua logica. Ma il sogno le rende e le mostra come realtà possibili. Per questo il sogno va visto come una condizione di negazione delle leggi di natura, perciò ci insegna a entrare in contatto con il mondo che agisce usando leggi diverse da quelle comuni.

Nel sogno avviene un conflitto tra le leggi che regolano il mondo sensibile e quelle che regolano il mondo soprasensibile: questo è il punto più difficile da capire. Sappiamo che il dormiente fa uscire il corpo astrale composto di luce spiritualizzata, colmo di calore e di amore cosmico: questo è il contenuto del nostro corpo astrale. È essenzialmente il corpo astrale che ha bisogno di farci uscire fuori dal nostro involucro fisico e dal corpo eterico. È l’astrale che vuole fuggire per ritrovare la familiarità con il mondo soprasensibile.

L’astrale è abituato a vivere con regole diverse da quelle fisiche. L'astrale cerca un mondo che sia libero da ogni vincolo, perché vuole essere libero. Egli cerca un mondo che gli consenta di avere la libertà e la mobilità adatte alla plasticità dell’io che conserva al suo interno. Ogni notte l’io viene portato nel mondo spirituale, dal suo corpo astrale. In quel luogo l’io è libero di essere e di fare tutto quello che vuole. Durante il sonno, l’io continua a lavorare a quello che dovrà completare quando sarà ritornato nel mondo dello spirito da cui è disceso.

Buona erranza
Sharatan

lunedì 12 ottobre 2015

Osserva te stesso



Se ti ami, osservati.
Veglia durante
una parte della notte.

Prima di mostrare il cammino
ad altri
consolidalo in te,
se vuoi evitare la sofferenza.

Pratica ciò che predichi.
Prima di cercare di correggere
gli altri fa una cosa più difficile:
correggi te stesso.

Tu sei il tuo solo maestro.
Chi altro può guidarti?
Diventa padrone di te stesso
e scopri il tuo maestro interno.

L’inconsapevole è spezzato dal male
che lui stesso fa,
come una pietra
è spezzata da un diamante.

E’ soffocato dal male
che lui stesso fa
come un albero è soffocato
da un rampicante.

Da sé si riduce in uno stato
che solo il suo peggior nemico
potrebbe augurargli.

E’ difficile fare
ciò che ci è veramente d'aiuto.
E’ facile fare del male,
fare ciò che ci nuoce.

L’inconsapevole si fa beffe
della saggezza,
deride coloro che seguono
la via della consapevolezza
e si perde in false dottrine.

Il frutto delle sue azioni
è la sua rovina,
come avviene
per la canna di khattaka,
che muore dopo aver fruttificato.

Facendo del male,
tu stesso ti corrompi.
Ma facendo del bene,
tu stesso ti purifichi.

Tu sei la fonte di ogni purezza
e di ogni impurità.
Nessuno può purificare
un'altra persona.

Non trascurare il tuo compito
per intraprenderne un altro,
per quanto grande possa essere.

Scopri il tuo compito
e dedicati a esso
con tutto il cuore.

(Dhammapada)

sabato 10 ottobre 2015

Di cosa abbiamo paura?



“È possibile che la mente si vuoti completamente della paura? Qualsiasi genere di paura alimenta l’illusione, ottunde e restringe la mente. Dove c’è paura, non può esserci libertà e senza libertà non c’è amore. Sono molte le paure che abbiamo: abbiamo paura del buio, paura di quello che dicono gli altri, paura dei serpenti, paura del dolore fisico, paura della vecchiaia, paura della morte. Abbiamo un’infinità di paure. Ma è possibile essere completamente liberi?

Vediamo bene che effetto ha la paura su di noi: ci induce a dire bugie, ci corrompe in vari modi, paralizza la mente, la restringe. Finché avremo paura, non riusciremo a fare luce e ad indagare su certi angoli bui della mente. È normale, è logico cercare di proteggersi fisicamente, è un’esigenza istintiva stare lontani da un serpente velenoso, non avvicinarsi all’orlo di un precipizio, non farsi investire dal tram e così via.

Ma ora sto parlando dell’esigenza di proteggerci psicologicamente, che ci fa avere paura delle malattie, della morte, di un nemico. Quando cerchiamo la nostra soddisfazione, nel dipingere un quadro, nel fare della musica o nelle relazioni che abbiamo, non possiamo evitare la paura. Allora l’importante è renderci conto di quello che accade effettivamente dentro di noi, osservando e imparando. Non serve chiedere come si fa a liberarsi dalla paura. Se tutto quello che vi interessa è liberarvi dalla paura, troverete modi e mezzi per fuggirla, ma in questo modo non saprete mai che cosa vuol dire essere liberi.

Abbiamo paura di quello che dicono gli altri, abbiamo paura di non raggiungere i nostri scopi, di non avere successo, di non avere occasioni. E insieme a tutto questo ci portiamo dietro un grande senso di colpa: abbiamo fatto qualcosa che non avremmo dovuto fare, oppure ci sentiamo in colpa per quello che facciamo. Siamo sani mentre altri sono poveri e malati, abbiamo tutto il cibo che vogliamo, mentre altri muoiono di fame. Più la mente indaga, approfondisce e pone delle domande, più cresce l’angoscia e il senso di colpa...

È la paura che ci spinge a cercare un maestro, un guru; è la paura che ci fa dare tanta importanza alla rispettabilità, a cui teniamo incredibilmente: vogliamo essere persone rispettabili! Avete intenzione di prendere il coraggio a due mani per affrontare i fatti della vita, oppure vi accontentate di ragionare sulla paura, di trovare delle spiegazioni che soddisfino la mente, prigioniera della paura? Come affronterete la paura? Accendendo la radio, leggendo un libro, andando al tempio, aggrappandovi a un dogma, a una fede?

La paura è un’energia che distrugge l’essere umano. Fa avvizzire la mente, deforma il pensiero, induce a creare teorie sofisticate e sottili, impone assurde superstizioni, dogmi, fedi. Se vi rendete conto della distruttività della paura, che cosa farete per mantenere limpida la mente? Voi affermate che scoprendo la causa che genera la paura, potrete liberarvene. Ma è proprio così? Non è scoprendone e conoscendone la causa che eliminerete la paura. Non potete sbarazzarvi della paura senza capire la natura del tempo, senza rendervi conto cioè della natura del pensiero e della parola.

A questo punto sorge la domanda: può esserci un pensiero senza che ci sia la parola? Si può pensare senza ricorrere alle parole, che sono memoria? Signori, se non capite la natura della mente, se non vedete come si muove, se non vi interessa conoscere voi stessi, dire che dovete essere liberi dalla paura ha ben poco significato. La paura fa parte di quel contesto che è l’intera struttura della mente. Se volete vedere ed approfondire tutto questo, avete bisogno di energia. Non sto parlando dell’energia che traete dal cibo che mangiate e che fa parte delle necessità fisiche.

Per vedere, nel senso che intendo io, ci vuole un’enorme energia, mentre voi l’energia la sprecate lottando con le parole, opponendo resistenza, condannando, dando importanza alle vostre opinioni che vi accecano. Tutta la vostra energia se ne va così. Ma se prendete in considerazione quell’atto di percepire, di vedere, potete ancora aprire la porta. Perché obbediamo, copiamo, seguiamo qualcuno? Perché ci comportiamo così? Abbiamo paura di vivere nell’incertezza. Vogliamo certezze: vogliamo la sicurezza finanziaria, vogliamo regole morali certe, vogliamo essere apprezzati, vogliamo avere una posizione sicura.

Non vogliamo trovarci nei guai, non vogliamo avere a che fare con preoccupazioni, dolori, sofferenze. Vogliamo sentirci al sicuro. Così, che ne siamo consapevoli o meno, la paura ci spinge ad obbedire a un maestro, a un capo, al prete, al governo. Ed è la paura che ci impone di non fare qualcosa che danneggi gli altri: la paura di essere puniti. Così, dietro quello che facciamo, dietro la nostra avidità, i nostri desideri, i nostri obiettivi, si nasconde l’esigenza di avere certezze, il bisogno di sentirci al sicuro.

Ma finché non avremo risolto il problema della paura, finché non ne saremo liberi, non avrà molto significato obbedire o essere obbediti. Quello che conta è capire la paura giorno per giorno, è vedere i tanti aspetti sotto i quali essa si mostra. Quando in noi c’è libertà dalla paura, affiora quella qualità interiore che è comprensione, che è la capacità di stare soli senza accumulare conoscenza o esperienza. Solo così può esserci quella straordinaria chiarezza necessaria alla scoperta della realtà. Di che cosa abbiamo paura? Di un fatto o dell’idea che ne abbiamo? Abbiamo paura delle cose come sono o abbiamo paura di quello che pensiamo esse siano?

Prendiamo la morte, per esempio. Abbiamo paura di quel fatto che è la morte oppure ci spaventa l’idea della morte? Il fatto è una cosa, mentre l’idea che ce ne siamo fatti è tutt’altra cosa. Ho paura della parola morte o del fatto in se stesso? Siccome la parola, l’idea mi spaventano, non sono in grado di capire il fatto, non guardo mai veramente, non sono mai in relazione diretta al fatto. Solo quando c’è completa comunione tra me e il fatto non esiste paura.

La paura c’è quando non sono in comunione col fatto; e non potrò essere in comunione col fatto finché mi ferma un’idea, un’opinione, una teoria su quel fatto. Quindi deve essermi ben chiaro se ho paura di una parola, di un’idea, oppure se è il fatto che mi spaventa. Quando sono di fronte a un fatto, non c’è nulla da capire: il fatto è lì e posso affrontarlo. E se è la parola che mi fa paura, allora devo comprenderla, scavando a fondo nelle implicazioni che quella parola comporta.

La mia opinione, la mia idea, la mia esperienza, la mia conoscenza a proposito di un fatto creano la paura. Prende consistenza un processo di verbalizzazione nel quale viene dato un nome al fatto, che viene identificato e giudicato. Ma finché il pensiero porta avanti questo processo, assumendosi il ruolo di un osservatore che giudica il fatto, è inevitabile che ci sia paura. Il pensiero proviene dal passato; per esistere ha bisogno di simboli, di immagini, di un processo di verbalizzazione.

Finché è il pensiero che guarda il fatto e lo interpreta, ci sarà inevitabilmente paura. C’è la paura fisica. Quando vi imbattete in un serpente o in un animale selvaggio, istintivamente avete paura; è normale, è logico, è naturale che sia così. In realtà non si tratta di paura ma di un desiderio di auto-protezione. E questo è normale. Ma il desiderio di proteggersi psicologicamente, il desiderio di sentirsi completamente al sicuro, porta con sé la paura. Una mente che ha una continua esigenza di certezze è una mente morta, perché la vita non ha certezze, nella vita non c’è nulla di permanente...

Quando venite in contatto diretto con la paura, tutta la vostra struttura nervosa reagisce. Allora, se la mente non si rifugia nelle parole, se non fa nulla per sottrarsi a questa situazione, non si crea quella divisione che esiste tra l’osservatore e la cosa osservata, definita come paura. La mente che fugge si separa dalla paura. Ma quando è capace di rimanere in contatto diretto con la paura, allora non c’è un osservatore, non c’è nessuno che dica: “Ho paura”.

Nel momento in cui siete in diretto contatto con la vita o con qualsiasi cosa, non c’è divisione. È questa divisione che porta con sé la competizione, l’ambizione, la paura. Allora, quello che importa non è come fare per liberarsi dalla paura. Se cercate un modo, un metodo, un sistema per liberarvi dalla paura, continuerete a rimanerne prigionieri. Mentre, se capite che cos’è la paura - e questo è possibile solo quando ne venite in diretto contatto, come venite in contatto con la fame o col timore di perdere il vostro lavoro - allora fate qualcosa.

E scoprirete che la paura se ne va. Tutta la paura, non solo qualche suo aspetto particolare. La paura trova varie scappatoie. La più comune e l’identificazione: l’identificazione col proprio paese, con la società, con un’idea. Vi siete accorti di come reagite di fronte a una processione religiosa o a una parata militare? O quando il vostro Paese corre il pericolo di essere invaso? Vi identificate con la vostra patria, con un’immagine, con un’ideologia.

Altre volte vi identificate con vostro figlio, con vostra moglie, con un’attività particolare o con uno stato di tranquillità. L’identificazione è un processo che consente di dimenticare se stessi. So che, finché ho coscienza di me stesso, ci saranno dolore, lotta e una paura senza fine. Ma se mi identifico con qualcosa di più grande, di più degno di me, se mi identifico con la bellezza, con la vita, con la verità, con la fede, con la conoscenza, almeno per qualche tempo, ho la sensazione di allontanarmi dal “me”, da quello che sono.

Quando parlo della mia patria, almeno per qualche momento dimentico me stesso. E anche quando parlo di Dio, dimentico me stesso. Se posso identificarmi con la mia famiglia, con un gruppo, con un partito politico, con un’ideologia, provo un momentaneo sollievo. Ora, sappiamo che cos’è la paura? Non consiste forse nell’incapacità di accettare quello che è? Dobbiamo capire in che modo stiamo usando la parola “accettare”. Questa parola nel modo in cui la sto usando non implica alcuno sforzo, la percezione di quello che è non implica affatto accettazione. Quando non vedo con chiarezza quello che è, allora si pone la questione di accettare qualcosa.

Così la paura è incapacità di accettare quello che è. Tempo significa spostarsi da quello che è per andare verso quello che dovrebbe essere. Ora ho paura, ma un giorno non ne avrò più. Questo significa che per liberarmi dalla paura ho bisogno di tempo. O almeno, siamo convinti che sia così. Ci vuole tempo per modificare quello che è in quello che dovrebbe essere. E questo tempo implica anche uno sforzo per superare l’intervallo tra quello che è e quello che dovrebbe essere.

La paura è qualcosa che non mi piace e quindi farò uno sforzo per comprenderla, per analizzarla, per sezionarla; cercherò di scoprirne la causa, oppure farò di tutto per evitarla. Tutto questo comporta uno sforzo, che noi ormai siamo abituati a fare. Viviamo costantemente nel conflitto tra quello che è, e quello che dovrebbe essere. Quello che dovrei essere è un’idea, e un’idea è immaginazione, non è il fatto, non è quello che sono. E quello che sono può essere cambiato solo quando capisco il disordine creato dal tempo. Allora, è possibile che mi liberi completamente dalla paura, all’istante?

Se consento alla paura di continuare, creerò altro disordine; perché è evidente che il tempo estende il disordine e non é certo un mezzo per liberarci definitivamente dalla paura. Non esiste un processo graduale che consenta di togliere di mezzo la paura, così come non esiste un processo graduale che consenta di sbarazzarci del veleno del nazionalismo. Se siete nazionalisti e tuttavia affermate che col tempo si affermerà la fratellanza tra gli uomini, state accettando che ora ci siano guerre, odio, infelicità e quelle divisioni spaventose che separano gli esseri umani. Quindi il tempo crea continuamente disordine.” (Jiddu Krishnamurti)

giovedì 8 ottobre 2015

Sublimità



Un tempo a Benares, nel regno di Kasi, regnava re Brahmadatta. A quei tempi nel grembo della regina consorte venne concepito colui che sarebbe diventato il futuro Buddha e quando l’Illuminato nacque venne chiamato Mahimsasa. Quando il bambino aveva pochi anni al re nacque un secondo figlio ma, poco dopo il parto, la madre del futuro Buddha morì. Il re nominò come regina consorte un’altra donna che amava appassionatamente. Dalla loro felice vita coniugale nacque un bellissimo bambino che fu chiamato principe Suriya. Vedendo la bellezza di quel bambino, il re si sentì pieno di gioia e disse alla regina: “Mia adorata, voglio concederti un favore come premio per questo splendido figlio.”

La regina ringraziò il marito e disse che avrebbe tenuto il desiderio per un altro momento. Ora non avrebbe saputo chiedere nulla, perché il re la rendeva così felice che non chiedeva altro. Passarono gli anni e quando il principe Suriya ebbe raggiunto la maggiore età lei disse al marito: “Alla sua nascita mi hai promesso un favore, ora è arrivato il momento di chiedertelo. Voglio che mio figlio sia nominato re.” Il re Brahmadatta obiettò: “Sai che ho due figli che non hanno mai dimostrato di essere indegni di avere il mio regno. Sai che non è possibile dare il regno a tuo figlio.”

La regina reagì male, si mostrò assai indispettita e non smetteva di essere adirata. Allora il re pensò: “Temo di averla sottovalutata: questa donna è malvagia e credo sia capace di fare del male ai miei cari figli." Quindi convocò i due principi e disse: “Adorati figli, quando è nato vostro fratello Suriya ero così felice che ho concesso a sua madre di chiedermi un favore. Lei mi ha chiesto di lasciare il mio regno a suo figlio. Io ho rifiutato e lei si è adirata al punto che la reputo capace di farvi del male per raggiungere il suo scopo. Andate a nascondervi nella foresta e tornate solo dopo la mia morte per rivendicare il trono.”

Dopo aver detto queste parole li baciò piangendo entrambi e volle che partissero. Mentre i due principi stavano uscendo dal palazzo, in cortile, incontrarono il principe Suriya che volle sapere dove andassero. Quando il ragazzo seppe il motivo della loro furtiva partenza non volle sentire ragioni e partì insieme a loro. Viaggiarono fino all’Himalaya e un giorno, mentre il futuro Buddha si riposava all’ombra di un albero chiese al fratello Suriya: “Suriya caro ti prego di scendere fino allo stagno, di bagnarti e di bere ma, tornando, portaci un po’ d’acqua raccolta con le foglie di loto.”

Va saputo che lo stagno era stato affidato a un demone acquatico di nome Vessavana. Però il dio che glielo aveva affidato aveva posto due condizioni e gli aveva imposto: “Ricordati che puoi divorare tutti quelli che si bagnano nelle acque, fatta eccezione per quelli che conoscono le cose di natura divina. Inoltre non potrai avere neppure quelli che non entrano nel tuo stagno.” Da quel momento il demone regnò incontrastato nello stagno e divorò tutti quelli che scendevano nelle sue acque, e che non sapevano la risposta all'enigma sulla natura divina.

Il principe Suriya, che non sapeva nulla di questo, andò allo stagno senza aver sospetti. Vessavana lo afferrò e gli impose l’enigma. Il principe terrorizzato trovò la forza di dire: “Le cose che hanno natura divina sono il sole e la luna!” Il demone sogghignò: “La risposta è sbagliata e tu non sai proprio nulla!” Quindi lo portò nella sua dimora dove lo imprigionò. Quanto il futuro Buddha vide che il fratello più piccolo non tornava, mandò suo fratello Canda a cercarlo. Naturalmente Canda fu catturato dal demone che pose anche a lui il suo quesito: “Conosci la natura delle cose divine?” Il principe Canda rispose: “Sono i quattro punti cardinali.” Il demone rispose: “No carino, hai detto proprio una cosa sbagliata!” e poi lo afferrò e lo portò nella sua dimora.

Il futuro Buddha notò che anche l’altro fratello non tornava, perciò pensò: “Non vorrei che fosse accaduto qualcosa di male ai miei fratelli.” Perciò decise di andare allo stagno dove vide le orme dei due principi che andavano verso l’acqua, perciò comprese che quella misteriosa sparizione era opera di un demone. Si cinse con la sua spada e impugnò il suo arco e si accoccolò vicino alle rive dello stagno e si mise ad aspettare. Il demone vide che il futuro Buddha non era intenzionato a scendere in acqua, perciò decise di assumere le sembianze di un vecchio boscaiolo.

Il demone finse di arrivare in quel mentre e lo salutò cordialmente: “Amico mio, anche tu sei stanco per il viaggio? Perché non fai un bel bagno, ti riposi e mangi fibre e steli di loto? Quei fiori sono tanto belli che puoi usarli pure per ornarti a festa e deliziarti con il loro profumo.” Appena lo vide, il futuro Buddha non ebbe dubbio che lui fosse il demone perciò gli rispose: “Sei tu che hai catturato i miei due fratelli?” Il demone rispose sfrontato: “Si, e allora?” il futuro Buddha gli disse: “Vorrei saper per quale ragione.” Il demone spiegò che tutti quelli che scendevano nello stagno erano sua preda di diritto.

Allora il futuro Buddha chiese: “Ma tutti, proprio tutti? Se sicuro che puoi prendere tutti?” Il demone parlò con aria di sufficienza: “Ma certo che tutti, chiaramente facendo eccezione per quelli che sanno qual'è la natura delle cose divine.” Il futuro Buddha chiese: “Ma tu sei veramente interessato a conoscere queste cose?” Vessavana rispose: “Ma certo che sono interessato. Se sai qualcosa parla dimmelo, e io ti ascolterò!” Il futuro Buddha disse: “Parlerei volentieri ma sono troppo sporco per il viaggio.” Il demone lo invitò a fare un bagno e lo rifocillò con cibo e acqua, poi lo adornò con fiori e lo profumò con aromi pregiati. Infine lo fece accomodare su un divano posto al centro di un lussuoso padiglione.

Il futuro Buddha si accomodò e fece sedere il demone ai suoi piedi, poi gli disse: “Adesso prestami orecchio. Ascolta, ma ascolta con molto rispetto quali sono le cose con natura divina, poi recitò: Quelli dotati di verecondia e scrupolosità, concentrati nel bene e nella giustizia, le persone per bene: di questi si dice, sono di natura del divino in questo mondo.” Il demone si compiacque molto nell’ascoltare l’esposizione della dottrina, e disse: “O grande saggio, mi compiaccio per la tua conoscenza, perciò devo rilasciare uno dei tuoi fratelli. Ma dimmi quale vuoi che ti renda.”

Il futuro Buddha, senza esitare, gli rispose: “Rivoglio indietro il fratello più giovane.” Il demone gli obiettò: “O saggio, sembra che tu conosca le cose di natura divina, ma non sai comportarti di conseguenza.” Il futuro Buddha chiese: “Perché dici così” E il demone: “Lo dico perché mi chiedi il più giovane trascurando il rispetto e la precedenza che va data al più vecchio.” Il futuro Buddha gli disse: “O demone, io conosco le cose di natura divina e mi comporto di conseguenza. Devi sapere che sono venuto in questa foresta proprio a causa del mio fratello più giovane.

Per farlo re al mio posto, sua madre era disposta a tutto e, per salvarci, mio padre ci ha fatto fuggire. Il fratello più giovane ha voluto seguirci a ogni costo, perciò nessuno mi crederebbe mai se raccontassi che è stato divorato da un demone padrone di uno stagno. Quindi, è per la paura del biasimo che ti chiedo il più giovane.” Il demone approvò con ammirazione: “Bene, molto bene grande saggio, tu conosci le cose di natura divina e ti comporti di conseguenza.” Poi gli restituì entrambi i fratelli. Allora il futuro Buddha gli disse:

“Amico mio, poiché hai compiuto delle cattive azioni sei stato condannato a rinascere come demone. Sei rinato come un demone e ti nutri di carne e di sangue altrui perciò fai solo il male. Se ti ostini in questa cattiva condotta non potrai mai liberarti dall’inferno, e dal dolore di un orribile destino. Salvati, allontanati dal male e pratica il bene!” Così avvenne che il futuro Buddha riuscì a convertire un demone e dopo la sua conversione visse come suo ospite. I tre fratelli godettero della sua protezione per vari anni finché, un giorno, il futuro Buddha guardò le stelle e seppe che il padre era morto.

Allora il futuro Buddha fece ritorno a Benares e rivendicò il trono. Nominò vicerè suo fratello Canda, e nominò comandante in capo di tutte le armate il fratello Suriya. Fece costruire per il demone, che aveva portato a corte, una splendida dimora in un luogo meraviglioso, e fece in modo che non gli mancasse mai nulla. Gli fece allestire un meraviglioso giardino in cui non mancarono mai le più belle specie di fiori per fare delle ghirlande di cui adornarsi; gli fornì i cibi più raffinati e gli aromi più preziosi. Il futuro Buddha regnò con giustizia per molti anni e poi trapassò portandosi dietro le sue buone azioni mentre avanzava lungo il cammino della sublimità.

Buona erranza
Sharatan