lunedì 30 giugno 2008

Le persone che dovremmo amare


In ogni rapporto vi è sempre un qualcosa di impercettibile, di impalpabile e misterioso e, come tutti, mi sono chiesta quale fosse l’elemento che mi attraeva delle persone che ho amato. O meglio mi sono chiesta fino a quale punto avessi mai provato un vero sentimento d’amore forte ed intenso, di quelli che ti coinvolgono corpo anima e mente. Mi sono resa conto che questo è un mix ideale culturale, e che molto del valore aggiunto è costituito da una forte dose di immaginazione, di fantasia e di stereotipi mentali con cui la donna condisce in abbondanza, l’oggetto dei suoi desideri.
In realtà nei rapporti c’è molto più che non la somma degli elementi e le relazioni tra persone non sono equivalenti alla addizione delle parti, per cui avviene che alcune persone che possono essere considerate molto belle da altre, per me risultino del tutto prive d’interesse ed attrattiva. Altre persone, forse neanche belle come le prime mi hanno invece intrigato ed interessato profondamente. E’ molto vero che l’amore vede l’insieme, si ama per la Gestalt cioè per l’insieme.
Una mia vecchia amica, frequentatrice di chat e di contatti virtuali, si è trovata a vivere un flirt che è divenuto un rapporto complesso e sofferto. L’uomo è un personaggio estremamente comune da reperire in rete: ancora giovane e sportivo, sfoggia grande prestanza e vigorìa vitale, lavora, tiene famiglia, pratica sport seriamente ed è un inguaribile narcisista. Evidentemente il mondo della rete, malgrado appaia tanto vario, in fondo è un grande paesone pettegolo.
Se sia per caso o per coincidenza - anche se io ho la mia bella teoria che tengo per me - il nostro Narciso si ritrova ciclicamente in contatto con la mia amica: una donna molto emotiva, passionale ed intellettualizzata, insomma vibrante e sensibile: la vittima ideale per “emulare passioni”. Lui lancia la rete facendosi apprezzare per la sua avvenenza, che testimonia con tanto di foto allegate al suo profilo e si ritrova – come è fatale - circondato da falene e sirenette. Solo che questo lo fa sempre ad un passo dalla network che la mia amica frequenta. Può essere una casualità? Ci credo poco.
A questo punto inizia un giochino di stalli di posizione e di falsi attacchi con veloci fughe, in cui i due fingono di non riconoscersi, poi fanno un passo avanti e si riconoscono ma fatalmente, dopo qualche tempo, arrivano a litigare. Lui rimane indignato perché accusa lei di cose che lei non riconosce, per cui lei si offende e si arrabbia per il modo con cui lui reagisce: solitamente lui è offensivo e crudo. Sicuramente per qualche mese si perdono di vista per poi ricominciare tutto da capo. Io ormai la chiamo la telenovelas, e non perdo occasioni per chiederne le evoluzioni. Ultimamente hanno litigato per cui l’estate vedrà l’assenza di lui dalla network di lei. Anche l’ultima volta che lei mi ha raccontato il solito litigio, sapendo quanto ne sia innamorata mi sono astenuta dal fare commenti, anche perchè benchè consapevole dell’insanità di quel rapporto, ormai lei ne è completamente stregata. La si potrebbe considerare vittima della Sindrome dello Stronzo, e forse lo è pure, ma la cosa è per me più profonda e complessa. Sono due persone che hanno un modo estremamente complementare di comunicare e flirtare, ma vogliono delle cose diverse e nessuno dei due rinuncia ai suoi obiettivi: sono condannati a non incontrarsi mai. Succede spesso. Lei è alla ricerca del suo Sacro Graal: l’amore, la passione e un Principe Azzurro, lui invece si finge Zorro ma in fondo è il sergente Garcia. Insomma vuole il palcoscenico del narcisista, una donna che lo consideri, che lo elegga signore del suo sogno, che lo circuisca con messaggi di fuoco, che lo inebri con immagini seducenti. Tutte cose che lei fornisce con abbondanza, ma alla prova dei fatti, lui più di quello non darà mai: la fine è nell’inizio. Lei rimane frustrata e si consola mangiando dolcetti. Lui adesso sarà in qualche network a cercare contatti simili. Sono certa che certe assonanze comunicative, certi feeling mentali non siano comunissimi, per cui, a meno che non trovi qualcuna più divertente di lei, fra qualche mese sarà di ritorno per un altro giro di valzer, tutto in cerchio e sempre uguale.
L’amore per le persone è costituita da qualcosa che prevarica la singola somma dei tre elementi di cui dicevo: mente, anima e corpo. Forse la ricerca è comunque priva di senso perché è una falsa ricerca. Forse, in attesa che arrivi la persona che incarni tutto quello che vorremmo, potremmo valutare che le cose e le qualità che vorremmo negli altri, sono le cose che già noi siamo. Forse dovremmo pensare che in realtà la controparte perfetta di noi stessi è la parte migliore di noi stessi. Cerchiamo negli altri degli ideali che non vogliono e li condanniamo ad impersonare cose che non sono, che non gli interessa essere. Dovremmo pensare che questo è un atto di grande ingiustizia. Lasciamo che gli altri siano quello che vogliono e di vivere la loro vita. Permettiamo a noi stessi di rivelare il nostro vero essere e non diventiamo il nostro peggiore carnefice.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

venerdì 27 giugno 2008

Il cervello della pecora gay


Qualche giorno fa ho letto la notizia che sarebbe stato scoperto il motivo biologico dell’orientamento omosessuale. Un gruppo di scienziati svedesi del Karolinska Institutet, lo stesso istituto che assegna il Premio Nobel per la medicina, ha osservato con strumenti raffinati ed avanzati il cervello omosessuale maschile ed hanno verificato che esso funziona come quello di una donna. I ricercatori Ivanka Savic e Per Lindstroem hanno usato una Pet (tomografia ad emissione di positroni) e la risonanza magnetica, ed hanno proceduto esaminando gli atlanti cerebrali più aggiornati. Lo studio svedese ha coinvolto circa 90 volontari: 50 eterosessuali e 40 omosessuali ed ha verificato che i cervelli dei gay erano di dimensioni identiche a quelli delle donne etero e che i cervelli delle lesbiche avevano l’emisfero destro più grande come gli uomini etero. Le similitudini riscontrate sono evidenti, tanto che gli studiosi hanno dichiarato che non sembrano effetto dell’apprendimento, ma vi sono legami con l’entità neurobiologica dell’organo cerebrale. Per questo essi protendono per la radice innata dell’omosessualità, determinata da un mix di ormini che agiscono nell’utero materno.
Va chiarito però che la forma non è tutto per il cervello e che esso è determinato dall’attività che svolge infatti, come spiega il professor Gabriele Miceli dell’Università di Trento: “Il cervello è plastico. Cambia a seconda di ciò che facciamo… uno studio sui tassisti di Londra ha dimostrato che le capacità straordinarie di orientamento generano un ippocampo più grande del normale. In un violinista l’asimmetria fra i due emisferi del cervello è accentuata, la corteccia motoria si modifica grazie alla pratica costante e la rappresentazione della mano a livello dei neuroni è più grande e ricca della media”.
Già un anno e mezzo fa, nel gennaio del 2007, alcuni studiosi dell’Oregon State University e dell’Oregon Scienze and Health University avevano condotto dei discutibili esperimenti sulle pecore per cercare di modificarne l’orientamento sessuale. Essi avevano riscontrato che circa il 10% delle pecore-montoni era omosessuale, per cui avevano proceduto inoculando degli ormoni nelle pecore gay per ceracre di riportarli sulla “retta via.” La notizia, riferita dal Daily Mail, aveva scatenato l’indignazione delle comunità gay che avevano lanciato l’allarme sulla possibile ondata di omofobia futura. La stessa Martina Navratilova, da sempre in prima linea nella difesa degli omosessuali, si era detta indignata. Molti avevano visto in questi studi delle repliche degli esperimenti dei nazisti sugli omosessuali negli anni ’40.
Le "Memorie" che Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz, scrisse prima di venire impiccato, descrivono gli esperimenti a cui furono sottoposti gli omosessuali nel campo di Sachsenhausen. Egli dettagliatamente descrive la “rieducazione”
“I risultati migliori si ottenevano con i cosiddetti «Strichjungen». Nel dialetto berlinese erano chiamati così quei giovani dediti alla prostituzione, che intendevano per tal via guadagnarsi facilmente da vivere, rifiutando di compiere qualunque lavoro, sia pure leggero. Costoro non potevano assolutamente essere considerati dei veri omosessuali, poiché il vizio era per essi soltanto un mestiere, e quindi la dura vita del campo e il lavoro faticoso furono per essi di grande utilità. Infatti, nella maggioranza, lavoravano con diligenza e cercavano con ogni cura di non ricadere nell'antico mestiere, poiché speravano così di essere rilasciati al più presto…Anche una parte di coloro che erano diventati omosessuali per una certa inclinazione - coloro che, saturi di provare il piacere con le donne, andavano in cerca di nuovi eccitamenti, nella loro vita da parassiti - poté essere rieducata e liberata dal vizio. Non così quelli ormai troppo incancreniti nel vizio, cui si erano volti per inclinazione. Questi ormai non potevano più essere distinti dagli omosessuali per disposizione naturale, che in realtà erano pochi. Per questi non servì né il lavoro, per quanto duro, né la sorveglianza più rigorosa: alla minima occasione erano subito uno nelle braccia dell'altro, e anche se fisicamente erano ormai mal ridotti, perseveravano nel loro vizio. Del resto, era facile riconoscerli. Per la leziosità femminea, per la civetteria, per l'espressione sdolcinata e per la gentilezza eccessiva verso i loro affini, si distinguevano assai bene da coloro che avevano voltato le spalle al vizio, che volevano liberarsene, e la cui guarigione, ad una attenta osservazione, si poteva seguire passo passo…Non volendo, o non potendo, liberarsi del loro vizio, sapevano benissimo che non sarebbero più tornati in libertà, e questo pesante fardello psichico affrettava, in queste nature in genere anormalmente sensibili, la decadenza fisica. Quando poi vi si aggiungeva la perdita dell'«amico», per una malattia o addirittura per la morte di questi, era facile prevedere l'esito finale; parecchi, infatti, si uccisero. L'«amico» era tutto per costoro, nel campo. Parecchie volte si verificò anche il doppio suicidio di due amici “. La testimonianza di Rudolf Höss dimostra il pensiero nazista sull’omosessuali: una malattia da cui essi vanno guarito per non contaminare la purezza della razza ariana. Questo atteggiamento fu alla base del tentativo di "guarire" gli "irrecuperabili" con l'intervento della medicina.
Un medico danese delle SS, Carl Vernaet, ottenne il permesso di poter sperimentare un suo preparato a base di ormoni che, secondo i suoi studi, sarebbe stato in grado di "guarire" definitivamente i "triangoli rosa". Un certo numero di omosessuali vennero inviati al campo di concentramento di Buchenwald dove Vernaet installò il proprio laboratorio. In via preliminare Vernaet, esaminati i prigionieri li divise in tre categorie: Omosessuali incalliti (che amano lavorare a maglia o ricamare) Omosessuali irrequieti (che oscillano tra virilità e indifferenza omosessuale) e Omosessuali problematici (recuperabili sotto l'aspetto psicologico). La "cura" di Vaernet consistette nell'incidere la cute dell'addome e nell'inserimento di una dose massiccia di testosterone che sarebbe dovuta essere sufficiente per un anno. A distanza di tre settimane l'80% delle persone operate era deceduto ed il 20% rimanente non presentava sintomi di guarigione. Lo stesso insuccesso e le stesse percentuali di mortalità si registrarono nei soggetti "irrequieti" e "problematici".
Questi sono i fatti che la storia ci consegna e sarebbe bene che non si ripetessero. E’ pericolosissimo considerare l’orientamento sessuale delle persone come un fattore biologico. L’amore, sia rivolto a persone dello stesso sesso o dal sesso opposto, non può essere ritenuto una malattia o una disfunzione endocrina, che poi è la stessa cosa. Guai pensare che i sentimenti siano questo! Gli orientamenti sessuali, come i sentimenti, nascono e muoiono, sono variabili e liberi e non sono curabili perché non sono malattie. Come potere pensare che l’amore sia una disfunzione? L’amore è una splendida alchimia.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

martedì 24 giugno 2008

La genetica e le scintille della mente


Nei giorni passati leggevo una notizia che mi faceva riflettere a proposito “dei mondi tratti da falsi principi”e sulle “prigioni immaginarie” cinte dalle “muraglie di ferro” del nostro pensiero, di cui diceva Giordano Bruno. Non sembri forte come affermazione poiché parrebbe che la teoria dell’evoluzione, su cui Darwin ha seminato e tanti altri hanno variamente raccolto, dovrebbe essere radicalmente rivista.
Dalla fine degli anni ’70 fino agli anni ’90 era prevalsa la tendenza evoluzionistica, soprattutto negli studi comparati tra etologia, biologia ed evoluzionismo di Richard Dawkins, sostenuti in “Il gene egoista” (1976 poi 1989) in cui egli afferma: "L'unità fondamentale della selezione, e quindi dell'egoismo, non è né la specie né il gruppo e neppure, in senso stretto, l'individuo, ma il gene, l'unità dell'ereditarietà." Per questo motivo “La qualità predominante di un gene che ha successo è l’egoismo senza scrupoli. E’ questo gene alla base della cattiveria nei comportamenti individuali [ …] Hanno sbagliato tutto. Sono partiti dal presupposto che la cosa più importante dell'evoluzione fosse il bene della specie (o del gruppo) invece che il bene dell'individuo (o del gene).” La prospettiva di Dawkins è rigidamente evoluzionistica, non vi è confutazione della selezione di gruppo, piuttosto l’evoluzionismo viene rinforzato nel gene che agisce in ogni modo possibile al fine della sua sopravvivenza, fino al punto di ridurre gli uomini a "macchine da sopravvivenza, robot semoventi programmati ciecamente per conservare quelle molecole egoiste note col nome di geni." La sua matrice è completamente atea, perché - come afferma ne “L’orologiaio cieco” del 1986 - “La selezione naturale è l'orologiaio cieco, cieco perché non vede dinanzi a sé, non pianifica conseguenze, non ha in vista alcun fine. Eppure, i risultati viventi della selezione naturale ci danno un'impressione molto efficace dell'esistenza di un disegno intenzionale di un maestro orologiaio; che alla base della complessità della natura vivente ci sia un disegno intenzionale, è però solo un'illusione”.
Gli studi sul linguaggio e sulla sua struttura di Noam Chomsky affermano invece che, il comportamento etico richiede abilità specifiche, di tipo essenzialmente cerebrale: i principi etici, lungi dall’essere riservati al campo della religione, sono delle componenti innate della neurobiologia cerebrale umana e costituiscono un software complesso, parallelo alle strutture del linguaggio. Questa concezione viene poi ripresa da Marc Hauser, con la teoria delle “menti morali” in cui il darwinismo viene diluito, affermando una funzionalità degli atteggiamenti etici che vengono premiati poiché “convenienti” alla specie.
Come afferma Antonio Damasio, se nessun comportamento intelligente vede l’esclusione del sistema limbico, che è la sede delle emozioni, e se il loro attivarsi è un mix di corteccia razionale e di nuclei emozionali, allora la conservazione biologica dell’individuo non esclude contenuti etici o emozionali. In questo senso i meccanismi adattivi, anche per gli psicologi cognitivisti come Steven Pinker dell’Università di Harvard, sono attuati per avere cooperazione e la cooperazione aiuta a mantenere la specie. Parafrasando Pascal si potrebbe affermare che il cuore conosce ragioni che la mente, a sua volta condivide pienamente!
Semir Zeki, uno dei più noti neuroscienziati viventi e fra i massimi esperti del sistema visivo, insegnante di Neurobiologia presso lo University College di Londra, nel 2003 in “La visione dall'interno. Arte e cervello” ha esposto un suo studio sul cervello, partendo dalla concezione che l'arte sia uno degli strumenti privilegiati per conoscerlo, perché gli artisti, prima dei neurologi, abbiano affrontato il problema di come il cervello percepisce il mondo, la luce, i colori, il movimento, e a quali regole è sottoposta questa percezione. "Non sono gli occhi che vedono - afferma Zeki - come tutti tendono a pensare, bensì il cervello." Il cervello visivo ci insegna due leggi fondamentali: la legge della costanza e quella dell’astrazione. In virtù della prima, l’oggetto percepito è salvato e colto nella sua interezza al di là del cambiamento; in forza della seconda il cervello, affrancandosi dai limiti del suo sistema di memoria, procede dai particolari al generale, quindi all’universale, dando vita a quelli che Zeki chiama concetti sintetici del cervello e che potrebbero corrispondere alle idee di Platone. “La mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma piuttosto, come legna, di una scintilla che l’accenda e vi infonda l’impulso della ricerca e un amore ardente per la verità” affermava già Plutarco.
L’elaborazione degli ideali – afferma Zeki - è l’inevitabile espressione del nostro modo di acquisire conoscenza, che può gestire enorme masse di dati solo elaborando sintesi: Zeki conclude che siamo esseri essenzialmente sociali e che siamo legati ad un universale ideale di amore romantico, che è una costante di tutti i poeti di tutte le culture. Siamo esseri sociali nati per amare.
E’ del Nobel della medicina Roger Sperry, l’amara metafora della ruota, secondo la quale essa può accellerare o rallentare ma il suo corso è impresso sempre dalla sua geometria, da essa viene sempre determinato il suo comportamento. E con questo determinismo genetico Sperry rialza un’altra alta muraglia!
Alcuni ricercatori canadesi, studiando i collegamenti tra rischio di suicidio e abuso sessuale infantile, hanno potuto lavorare su una banca dati del cervello, la Quebec Suicide Brain Bank, un sistema online di istoteche neurologiche che raccoglie e distribuisce agli studiosi dei campioni su cui studiare. Facendo studi comparati tra cervelli di suicidi e cervelli di persone morte per cause naturali, hanno riscontrato differenze nell’assetto dei “markers epigenetici”, cioè dei rimodellamenti nella struttura della cromatina e che rappresentano una sorta di codice in grado di modulare l’espressione dei geni. Le alterazioni dello spettro della cromatina sono consuete in varie patologie umane, poichè sono sensibili alle influenze ambientali, specialmente nelle fasi precoci della vita, in cui le strutture vengo primariamente plasmate. Tutti i soggetti con variazioni avevano subito abusi sessuali nell’infanzia. Difficile diviene correlare le variazioni dei markers epigenetici con gli abusi, difficile tracciare un legame causa-effetto. Questo legame - secondo la dichiarazione di Moshe Szyf il responsabile delle ricerche alla McGill University – per il momento è stato dimostrato solo negli animali. Gli stessi ricercatori sono stati in grado di rendere reversibile il marchio epigenetico, in ratti con disturbi dell’attacamento, tramite somministrazione di farmaci che hanno modificato gli schemi di metilazione del DNA. Il futuro viene giocato sull’analisi molecolare ai fini della prevenzione di atteggiamenti autolesionistici in coloro che sono stati sessualmente abusati nell’infanzia.
Ma il bello è che l’atteggiamento dell’iniziale gene egoista, del gene adattivo ed opportunista, si scopre che non è poi così immutabile e che le “muraglie di ferro” del nostro essere non sono poi così inviolabili.
Del 2008 è una ricerca dei ricercatori del Preventive Medicine research Institute di Sausalito, in California, con uno studio pubblicato da Proceedings of the National Academy of Science (Pnas), secondo cui dieta e movimento fisico sono in grado di spegnere più di 450 geni "cattivi" e ad accenderne di buoni. Cito dal Messaggero del 22 giugno: “I ricercatori hanno studiato trenta uomini con un basso rischio di cancro alla prostata che si sono sottoposti volontariamente a tre mesi di grossi cambiamenti nello stile di vita, da una dieta ricca di verdura e legumi a una passeggiata di un'ora e mezza al giorno a un'ora al giorno di rilassamento e meditazione antistress. La "terapia" ha avuto successo non solo nell'aspetto esteriore dei soggetti, ma anche nelle biopsie delle loro prostate: i ricercatori hanno infatti trovato modifiche nell'attività di 501 geni, di cui 48 si erano "accesi", e 453 invece si erano "spenti". Di questo secondo gruppo fanno parte diversi geni noti perché promuovono i tumori. «E' una scoperta interessante - dice Dean Ornish, che ha condotto lo studio - perché spesso la gente afferma "cosa ci posso fare? E' nei miei geni". Invece abbiamo dimostrato che può fare molto».
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

sabato 21 giugno 2008

Costruire la resilienza


Il termine resilienza ha vari significati: nell’ingegneria indica la capacità dei materiali di resistere agli urti, in informatica è la capacità di resistere all’usura e di autoripararsi, in ecologia e biologia è la capacità di riparare un danno e nella psicologia è la capacità di superare le avversità della vita. Ma quali elementi entrano in gioco, nella vita delle persone affinchè si riveli la capacità di risollevarsi dopo un trauma o un profondo dolore?
“Ogni persona brilla con luce propria fra tutte le altre. Non ci sono due fuochi uguali, ci sono fuochi grandi, fuochi piccoli e fuochi di ogni colore. Ci sono persone di un fuoco sereno, che non sente neanche il vento, e persone di un fuoco pazzesco, che riempie l´ aria di scintille. Alcuni fuochi, fuochi sciocchi, né illuminano né bruciano, ma altri si infiammano con tanta forza che non si puó guardarli senza esserne colpiti, e chi si avvicina si accende” dice Eduardo Galeano.
In effetti tutti hanno una naturale capacità di recupero da situazioni di profondo stress, da catastrofi, da lutti, da delusioni e fallimenti, ma la velocità ed intensità della reazione dipende dalle capacità individuali e la capacità di usare costruttivamente l’esperienza dolorosa, può essere appresa. Umberto Galimberti, afferma che, una volta la si chiamava "forza d´animo", definita da Platone "tymoidés" e che ne indicava la sua sede nel cuore, poiché qui risiede il sentimento. Ed il sentimento, lungi dall’essere languore o debolezza, è vera forza. Forza di decisione sulla vera strada da seguire, per non sentirci “stranieri nella nostra vita”. Guai a volere seguire una strada che non sia condivisa dal nostro cuore, poiché da questo nasce il nostro male di vivere, la nostra infelicità.
“Il bisogno di essere accettati e il desiderio di essere amati ci fanno percorrere strade che il nostro sentimento ci fa avvertire come non nostre, e così l’animo si indebolisce si ripiega su se stesso nell´inutile fatica di compiacere agli altri. Alla fine l’anima si ammala, perché la malattia, lo sappiamo tutti, è una metafora, la metafora della devianza dal sentiero della nostra vita. Bisogna essere se stessi, assolutamente se stessi. Questa è la forza d´animo.”
Possiamo imparare molto dalle persone che sono state gravemente oltraggiate dalle ferite della loro vita, possiamo vedere con quali strategie hanno saputo riparare ai loro traumi e come sono riuscite a ricostruire una nuova vita, più sana e soddisfacente. Cambiando il punto di vista possiamo scoprire che il trauma rappresenta una sfida che mobilita le proprie risorse interne e che non ci possiamo sottrarre a tale sfida, perché può darci le chiavi di un nuovo corso, migliore e più costruttivo. Avere una buona capacità di autoanalisi rende molto più facile il recupero da delusioni e da traumi, ci rende poi capaci di capire da quale parte riprendere in mano le redini della nostra vita, per potere ripartire con il piede giusto. Comunicare con gli altri e socializzare, mette in evidenza la fondamentale condizione umana, costruita su lezioni anche dure, che però possono farci crescere e migliorare. Albert Bandura, celebre psicologo cognitivista canadese, afferma che l’uomo è in grado di selezionare e strutturare le esperienze che possono agire a loro volta, verso la promozione delle sviluppo o verso la distruzione del proprio Sé. Insomma l’uomo costruisce ciò che vuole costruire, nulla avviene a caso, nemmeno per la psicologia moderna.
Avere sofferto ci rende maggiormente empatici rispetto al nostro prossimo, ci rende più sensibili e recettivi. Cerchiamo allora il significato della nostra sofferenza, come insegna il buddismo, ed impariamo a chiederci che cosa essa ci voglia insegnare. Tutta la vita è un cammino disseminato di sfide e di difficoltà, ed imparare a gestirle e farle fruttare è il solo metodo intelligente per crescere e stare meglio. Certamente è essenziale avere figure di riferimento, persone che ci vogliono bene e che ci sostengano durante il nostro lavoro di ricostruzione, con il loro affetto e la loro comprensione. Un fattore essenziale che aiuta a costruire resilienza, è la capacità di socializzare e di raccontare, il dialogo ed il racconto. Il racconto dell’esperienza subita può anche essere fatto a noi stessi, ma è importante che si abbia il coraggio di dichiarare le cose per come sono. Un valido aiuto è potere usare l’umorismo per ha una forte valenza liberatoria, potere arrivare a ridere del nostro dramma dimostra una grande tolleranza per i nostri errori e per le nostre incapacità, per la parte più maldestra di noi stessi. Cercare occasioni di allegria e di condivisione sociale, aiuterà poi a costruire una nostra immagine sociale non collegata al ruolo della vittima, ma a quella di una persona combattente e di un attivo timoniere.
Così inizia la guarigione e la rinascita alla nuova vita, a cui siamo chiamati spesso cambiando completamente pelle o forse, per la prima volta, indossando i nostri veri abiti, utilizzando il nostro vero essere e guardando con commiserazione l’immagine di chi eravamo: paurosi, mediocri, senza sentimenti e senza nobiltà, senza coraggio, addormentati nel sonno di passioni mediocri e di sentimenti scoloriti. Impariamo ad essere coraggiosi come costoro che, ci ricorda Galimberti, sono muniti “del coraggio del navigante che, lasciata la terra che era solo terra di protezione, non si lascia prendere dalla nostalgia, ma incoraggia il suo cuore. Il cuore non come languido contraltare della ragione, ma come sua forza, sua animazione, affinché le idee divengano attive e facciano storia. Una storia più soddisfacente.”
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

giovedì 19 giugno 2008

Soffritti e timballi con suor Bakhita


Sono trapelate nei giorni passati le solite indiscrezioni sui nuovi palinsesti della Rai, con i programmi che ci accompagneranno nelle lunghe e tediose serate di autunno e inverno. Prima incertezza è sui “pacchi” di Flavio Insinna, che di Insinna forse non saranno più e che potrebbero passare a Piero Chiambretti, Luca Giurato o Max Giusti. Mi sembra promettente questa rosa di candidati, visto che dei tre, due sono dei validi comici per professione ed uno per naturale vocazione. Ma "Tiremm innanz!” come disse Amatore Sciesa che andava alla fucilazione. Passiamo poi a Sanremo e al suo festival che ogni anno vede gli enigmi del tipo “E’ andato bene/è andato male” che saranno sviscerati alla fine della manifestazione, per ora si vedono gli enigmi del tipo “Chi lo presenta? Chi ci metto col nonnetto?” che è uno dei leit motiv annuali. Care e sane vecchie abitudini! Come se un vecchio di più di 50 anni potesse andare bene! E il vecchio di 50 anni è un programma televisivo, in cui il peso dei decenni corrisponde ad un eone della storia della Terra. Nella Tv si ragiona con programmi che, se passano le 5 stagioni già diventano storici, per cui il Matusalemme della Rai, più che assegnato ad un presentatore andrebbe accudito come un vecchio bisnonno centenario. La “badante” di Sanremo potrebbe essere Paolo Bonolis che, senza dubbio, sarà gradito da chi apprezza la conduzione un po’ ruvida, alla Radetzky. Lo vedo adattissimo perché sappiamo bene, come a volte sia necessaria anche una badante severa, soprattutto con un vecchio caratteriale ed ombroso come Sanremo, Baudo ne sa qualcosa!
Non so dire la gioia che mi susciterà la visione in prima serata su Rai Uno, dal novembre 2008, degli innamoratissimi Gigi D’Alessio e Anna Tatangelo, il cui amore sembrerebbe avere felicemente superato i periodi della difesa a colpi di calci e pugni e ora si rivela alla piena luce del sole: portarlo in Rai equivale alla benedizione di tutta la famiglia. Spero solo che così finiremo di leggere in tutti i giornali di gossip le rivelazioni di figli, cugini, nipoti, cognati, fratelli, sorelle, vicini di casa e amici di Gigi e di Anna, della moglie di Gigi, dei figli di Gigi, del cugino di Gigi e forse anche del dentista che ha curate le carie di Gigi sin da quando lui - sia pure essendo uno semplice, uno di noi, come dice spesso - veramente lo era. Finalmente l’uscita in Rai Uno potrà concludere una pletora di illazioni e chiacchiere e fare trionfare la semplice verità, cioè che si amano tanto e lui è cotto di lei come una pera. Lo sapevamo ma vederlo è meglio e un pochino noi li invidiamo! Spero solo che, dopo averci intossicati con i fatti loro, non ci lascino poi del tutto allo scuro dell’evoluzione del loro amore. Lo troverei scorretto, visto che ormai li amiamo anche noi, come fossero uno di noi, come cari cugini. Risentiamoci allora cari Gigi e Anna, non ci dimenticate!
Restando alle conferme, sappiate che non perderemo Antonella Clerici, che diletterà sempre più le nostre serate, ridente, spumeggiante e piena di rouches e volants rosa alla Barbara Cartland, e che squittirà felice zompettando tra soffritti e timballi. Felicemente conserviamo anche Pippo Baudo, che rimane a dilettarci con le sue Serate d’onore. Riconquistiamo poi Lamberto Sposini che prenderà il posto di Michele Cocuzza e che affrancherà La vita in diretta dal gossip, ma non perderemo certo l’amato Cocuzza che passa a Uno mattina. Riavremo anche Pupo, che condurrà una gara tra vip, ed avremo anche fiction, fiction, tanta, tanta e tanta fiction, splendida e su temi nuovi ed inediti, come Pinocchio, Coco Chanel, Einstein, Paolo VI, Puccini, Provaci ancora prof 3 e Suor Bakhita. Suor Bakhita, chi era costei? Aspetto con ansia di vederla! Meno male, sono cose tanto nuove ed io, che mi aspettavo anche una bella fiction su Re Artù sempre attuale, e sulla matrigna di Biancaneve devo rassegnarmi alla loro assenza, perchè mi dicono che Artù potrebbe passare per satira politica, per i possibili giochi di potere sulla gestione della Tavola Rotonda (senza contare che il suddetto era anche cornuto) e che la matrigna di Biancaneve potrebbe rinfocare le ostilità genitoriali, che già sono altamente diffuse. Meglio non istigare gli animi e non rovinare il benessere del paese.
Non mancano imitazioni illustri di famosi programmi Rai del passato, per cui Edmondo Berselli proverà a rifare il Viaggio sul Po, per documentare le trasformazioni del paese, come fece ben 50 anni fa Mario Soldati. Penso proprio che se Soldati tornasse, farebbe fatica a riconoscere il Belpaese e non avrebbe bisogno di discendere il Po, per decidere di ritornarsene felicemente nella tomba. Conserveremo anche Caterina Balivo, Carlo Conti, Lorena Bianchetti, Bruno Vespa e Katia Noventa e avremo ancora l’Isola e Quelli che… della Ventura, senza mancare ai nuovi appuntamenti dedicati alla divulgazione di Piero Angela. Ultima, ma non tra gli ultimi, la buona nuova che avremo il grande ritorno della Carrà, con il suo storico Carramba che fortuna! che sarà ancora abbinato alla Lotteria Italia. Queste scelte saranno sicuramente in grado di confermare la posizione egemone nella conquista della audience, che sicuramente vedrà ancora vincente la nostra Rai, in barba a tutti i moderni studi sul gradimento televisivo.
La rivista NeuroImage ha infatti pubblicato lo studio di alcuni scienziati francesi dell’Università de Picardie Jules Verne di Amiens, i quali hanno dimostrato tramite l’utilizzo di un pletismografo penile, che otto uomini messi di fronte alla visione di tre documentari: uno sulla pesca, uno comico di Mr. Bean e uno decisamente hard, hanno registrato l’erezione solo alla visione della pellicola hard. Solo questa, secondo gli studiosi, avrebbe attivato il telecomando dell’erezione.
C'est la vie qui est si magnifique!
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

sabato 14 giugno 2008

Nei pericoli della democrazia


Nel 1831, Alexis de Tocqueville e Gustave de Beaumont, due giovani magistrati del governo francese, furono inviati in America, per raccogliere informazioni sul sistema carcerario americano, come possibile modello in sostituzione del vecchio sistema detentivo francese. Beaumont e Tocqueville pubblicano nel 1833, al ritorno in patria, il libro “Del sistema penitenziario negli Stati Uniti e della sua applicazione in Francia” a causa del quale, Beaumont è sollevato dalle sue funzioni presso il Tribunale della Seine e Tocqueville, per solidarietà, si dimette dal suo posto di giudice supplente. Tocqueville, che era rimasto affascinato dalla politica americana, scrive un trattato politico-sociale dal titolo “La democrazia in America” che appare nel 1835 e che riscuote un enorme successo. Tra le novità che avevano colpito Tocqueville durante la sua esperienza americana vi era quella dell’uguaglianza delle condizioni e del suo estendersi oltre la vita politica e le leggi. Tocqueville riflette sul futuro della democrazia negli Stati uniti, e sui potenziali pericoli “per la democrazia” e “della democrazia”, poichè la democrazia ha la tendenza a degenerare in “dispotismo addolcito”, ed in America già si ravvisano alcune potenziali debolezze: il dispotismo popolare, la tirannia della maggioranza, l’assenza di libertà intellettuale, ciò che gli sembra degradare l’amministrazione democratica e favorire il crollo della politica pubblica di assistenza ai più deboli, dell’educazione e delle lettere. La tirannia della maggioranza si differenzia dalle tirannie antiche, in quanto agisce sullo spirito e non sul corpo, non usa la forza fisica, ma l’emarginazione. "Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di esseri simili ed eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima… Al di sopra di questa folla, vedo innalzarsi un immenso potere tutelare, che si occupa da solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle loro sorti. È assoluto, minuzioso, metodico, previdente, e persino mite. Assomiglierebbe alla potestà paterna, se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma, al contrario, non cerca che di tenerli in un'infanzia perpetua. Lavora volentieri alla felicità dei cittadini ma vuole esserne l'unico agente, l'unico arbitro. Provvede alla loro sicurezza, ai loro bisogni, facilita i loro piaceri, dirige gli affari, le industrie, regola le successioni, divide le eredità: non toglierebbe forse loro anche la forza di vivere e di pensare?". Il pericolo del dominio assoluto della maggioranza è insito nell’essenza stessa dei governi democratici, poiché nelle democrazie non vi può essere nulla che possa resistere fuori dalla maggioranza, poiché "l’impero morale della maggioranza si fonda, in parte, sull’idea che vi sia più cultura e più saggezza in molti uomini riuniti che in uno solo, nel numero, più che nella qualità dei legislatori". Tocqueville, liberale incline alla democrazia e critico acuto, profondo e preveggente dei mali democratici, anticipa il problema dell'equilibrio fra la libertà individuale e il potere democratico che è poi il problema delle democrazie occidentali odierne. "Vedo chiaramente nell'eguaglianza due tendenze: una che porta la mente umana verso nuove conquiste e l'altra che la ridurrebbe volentieri a non pensare più. Se in luogo di tutte le varie potenze che impedirono o ritardarono lo slancio della ragione umana, i popoli democratici sostituissero il potere assoluto della maggioranza, il male non avrebbe fatto che cambiare carattere. Gli uomini non avrebbero solo scoperto, cosa invece difficile, un nuovo aspetto della servitù… Per me, quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte, poco m'importa di sapere chi mi opprime, e non sono maggiormente disposto a infilare la testa sotto il giogo solo perché un milione di braccia me lo porge". Il diritto della maggioranza a governare, dà "un immenso potere di fatto e un potere d'opinione e nulla più, delle contee e degli Stati, dall'indipendenza della magistratura e dalla sua altrettanto grande mobilità" i cui effetti negativi sono l'instabilità governativa, l'onnipotenza dei governi, la scarsa garanzia contro gli abusi perché l'opinione pubblica forma la maggioranza, e anche l'amore per il benessere, l'accentramento del potere ed il conformismo: "Non conosco un paese dove regni meno l'indipendenza di spirito e meno autentica libertà di discussione che in America.” La democrazia porta in sé un doppio rischio, cioè l’anarchia o la servitù: il timore dell’anarchia conduce gli uomini d’ordine a gettarsi nelle braccia dell’autorità: da qui il pericolo del dispotismo. Con lucidità analizza il meccanismo di tale dinamica, anticipando di 170 anni la critica alla società di massa.
"Può tuttavia accadere che un gusto eccessivo per i beni materiali porti gli uomini a mettersi nelle mani del primo padrone che si presenti loro. In effetti, nella vita di ogni popolo democratico, vi è un passaggio assai pericoloso. Quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente della civiltà e dell'abitudine alla libertà, arriva un momento in cui gli uomini si lasciano trascinare e quasi perdono la testa alla vista dei beni che stanno per conquistare. Preoccupati solo di fare fortuna, non riescono a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. In casi del genere, non sarà neanche necessario strappare loro i diritti di cui godono: saranno loro stessi a privarsene volentieri. Se un individuo abile e ambizioso riesce a impadronirsi del potere in un simile momento critico, troverà la strada aperta a qualsivoglia sopruso. Basterà che si preoccupi per un po' di curare gli interessi materiali e nessuno lo chiamerà a rispondere del resto. Che garantisca l'ordine anzitutto! Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell'ordine è già schiava in fondo al cuore, schiava del suo benessere e da un momento all'altro può presentarsi l'uomo destinato ad asservirla. Quando la gran massa dei cittadini vuole occuparsi solo dei propri affari privati i più piccoli partiti possono impadronirsi del potere. Non è raro allora vedere sulla vasta scena del mondo delle moltitudini rappresentate da pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o disattenta, che agiscono in mezzo all'universale immobilità disponendo a capriccio di ogni cosa: cambiando leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi; tanto che non si può fare a meno di rimanere stupefatti nel vedere in che mani indegne e deboli possa cadere un grande popolo."
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

venerdì 13 giugno 2008

Istruzioni per rendersi infelici


In questi giorni sto leggendo “Istruzioni per rendersi infelici” (1997) di Paul Watzlawick, filosofo, sociologo e psicologo austriaco morto nel 2007. Laureatosi in Lettere moderne e in Filosofia all’Università di Venezia, parlava correttamente oltre che l’italiano, anche francese, inglese, tedesco e spagnolo. Formatosi come terapeuta di stampo junghiano, dal 1960 assunse il ruolo di ricercatore associato al Mental Research Institute di Palo Alto, dove lavorò con Don D. Jackson, Janet Helmick Beavin e Gregory Bateson, diventando il massimo studioso della pragmatica della comunicazione umana, delle teorie del cambiamento, del costruttivismo radicale e della teoria breve fondata sulla modificazione delle idee con cui ci costruiamo la nostra “immagine” del mondo, spesso dissonante con la “realtà” del mondo.
Teoria basilare di Watzlawick è che, le forme psicopatologiche non originano nell’individuo isolato, ma sono prodotte da interazioni patologiche che si instaurano tra individui, quindi è possibile, studiando la comunicazione, individuarne le patologie e dimostrare che è la comunicazione a produrle. Watzlawick intende la terapia non come “guarigione”, ma come “cambiamento”. Per Watzlawick, ciò che noi chiamiamo realtà è un’interpretazione personale, un modo particolare di osservare e spiegare il mondo che viene costruito attraverso la comunicazione e l’esperienza: la realtà non è quindi “scoperta”, ma “inventata”. Da queste invenzioni nascono “stili di vita” che rendono ciechi non solo gli individui, ma anche interi sistemi relazionali umani, come famiglia, aziende, sistemi sociali e politici, nei confronti di possibilità alternative. Watzlawick afferma che, attraverso una nuova formulazione dell’immagine del mondo possiamo inventare nuove “realtà” ed attuare un positivo cambiamento.
Le istruzioni per l’infelicità fornite da Watzlawick vengono in soccorso - in un mondo sommerso da istruzioni di felicità - a coloro che si costruiscono la propria infelicità, per cui il “libro vuole offrire un piccolo, responsabile e consapevole aiuto”, perché “tutti possono essere infelici, ma è il rendersi infelici che va imparato, e a ciò non basta certamente qualche sventura personale,” è necessaria “una metodica e basilare introduzione ai meccanismi più sfruttabili e verificabili dell’infelicità […] una guida che permetterà ai miei lettori più dotati di sviluppare un proprio stile”. L’infelicità più complessa è quella che si costruisce nel chiuso della propria mente, dimostrando che si può vivere in conflitto con sé stessi, con mondo circostante e soprattutto con il prossimo. Ma come vivere essendo quotidianamente avversari di noi stessi? Watzlawick lo afferma possibile, se si abbraccia l’assioma primario che esista un solo punto di vista valido: il proprio. Addivenuti a tale convinzione e convinti che, colui che rimane fedele a sé stesso e ai propri princìpi, non scende ad alcun compromesso, non resta che schierarsi incondizionatamente dalla parte di coloro che scelgono il mondo come dovrebbe essere, e non come è realmente, ed il gioco è fatto. Allora si può resistere all’infinito sulle proprie posizioni. Il solo fatto che il prossimo offra dei consigli, equivale e rifiutarne i suggerimenti, rigettando anche quello che per sé stessi sarebbe il partito migliore. Qui è l’ideale magistrale dell’infelicità a cui si è votati da un genio naturale e spontaneo: l’immagine è quella del capitano che guida impavido, nella notte tempestosa, una nave che anche i topi hanno abbandonato. Ai poco dotati, conclude Watzlawick, si indica questo come un sublime ideale, ma per loro è del tutto irrangiungibile poiché inadatto ai mediocri.
Se il tempo guarisce ferite e dolori, continua Watzlawick, possiamo però difenderci da questa azione riparatoria, e fare del passato una fonte di infelicità. Anche il principiante può operare una trasfigurazione del passato fino a farne comparire una nuova Età dell’Oro irrimediabilmente perduta da cui fare trasudare oceani di tristezza e malinconia. Pentiti o meno, è necessario poi, che il rimorso ed il rimpianto degli errori compiuti resti imperituro ed eternamente presente. Si pensi agli imprinting familiari ed infantili come a stigmate indelebili ed immutabili, per “restare inaccessibile della stanza della nostra indignazione ed impedire che le ferite inferte dal passato giungano a guarigione con delle zelanti leccate” convincersi che “ormai è troppo tardi, ora non lo voglio più”. Usare delle strategie di risposta predefinite e mantenerle a discapito di ogni loro utilità, incrementando sia il disagio che la spesa di curare quella che gli specialisti chiamano “nevrosi”.
Watzlawick continua con esilaranti esercizi per accrescere disagio e infelicità, come nell’esercizio di visualizzazione e percezione ottica di “mouches volantes” da trasfigurare in tumore cerebrale, o di sibili o “tinnitus” acustici da trasformare in una grave malattia. Magistrali sono le osservazioni di coincidenze sfortunate di genere occulto, di cui tutti possiamo essere testimoni se valutiamo le coincidenze sfortunate in merito alla lentezza della fila da noi scelta, dal nostro incappare nei semafori rossi e in tutte quelle occasioni in cui traspare che, una cospirazione cosmica sia stata attuata - a nostra insaputa - per disagiarci e per danneggiarci. Viene da Karl Popper l’interessante idea che la terribile profezia di Edipo si avverò perché egli la conosceva e la sfuggiva: tutto quello che fece per evitarla, lo spinse incontro al suo destino. In questo caso le aspettative preparano la manifestazione dell’evento. Facendo l’esempio delle nazioni, il caso di una di esse che si armi spinge anche le altre a ricorrere agli armamenti per cui, al sorgere dei conflitti, facilmente si passa al fuoco dei fucili. Lo scoppio della guerra, lungamente atteso, finalmente si realizza oggettivamente e realmente: la profezia dell’evento porta all’avverarsi della profezia. Motto e blasone del meccanismo è la frase:”L’ avevo detto io!”
Infiniti sono i metodi con cui Watzlawick, con intelligente ironia e sarcasmo, mette alla berlina i meccanismi più distruttivi del masochismo e della ruminazione mentale, così con occhi acuti ed intelligenti, ci accompagna alla scoperta di idiosincrasie personali e relazionali. Una lettura gradevole e condensata che si chiude con una breve riflessione. Ci mettiamo tanto a capire che la vita è un gioco che possiamo vincere insieme, non appena smettiamo di essere ossessionati dall’idea di dovere vincere qualcuno per non esser vinti? Ci metteremo tanto a capire che in questo gioco così serio, è necessaria la lealtà, la fiducia e la tolleranza dell’altro?
Watzlawick chiude con una citazione tratta da “I demoni” di Dostoevskij in cui, uno dei personaggi più enigmatici del romanzo dice: “Tutto è buono… Tutto. L’uomo è infelice perché non sa di essere felice.. Soltanto per questo. Questo è tutto! Tutto! Chi lo comprende sarà subito felice, immediatamente, nello stesso istante…”
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

mercoledì 11 giugno 2008

Il mito di Pigmalione


Il mito di Pigmalione, uno dei più raffinati narrati nelle Metamorfodi di Ovidio narra la storia di un artista dell’isola di Cipro, che si invaghì follemente di una statua di donna da lui scolpita. Egli disdegnava tutte le donne e ne sfuggiva l’amore ma, narra Ovidio, “Grazie però alla felice ispirazione dettatagli dal suo talento artistico, scolpì in candido avorio una figura femminile di bellezza superiore a quella di qualsiasi donna vivente e si innamorò della sua opera. Pigmalione stesso è preso dall’immagine di quel corpo e contemplandolo concepisce una passione ardente. La bacia e gli sembra di essere baciato, le parla, la stringe e crede che le sue dita affondino nelle membra che tocca: teme perfino che per la pressione spuntino dei lividi sulla pelle. E la colma di tenerezze.” Il suo amore è talmente forte che il giorno della festa di Venere “anche Pigmalione porta il suo dono agli altari, davanti a cui si ferma sussurrando timidamente: "O dèi, se è vero che voi potete concedere tutto, io ho un desiderio: vorrei che fosse mia sposa..." e non osa dire "la fanciulla d'avorio" ma dice "una donna simile a quella d'avorio!". Venere, che ascolta la supplica decide di concedere la sua benevolenza. Quando Pigmalione torna a casa, nell’accarezzare la statua sente sotto le sue dita che la pelle della statua prende calore, nelle sue membra inizia a scorrere il sangue e la donna prende vita sotto il tocco delle sue carezze. Il miracolo viene concesso tramite il tocco dell’amante, ma è ottenuto attraverso la ricerca di Afrodite, cioè della bellezza e dell'amore. Traspare nel mito la massima aspirazione dell’amore: il desiderio di un amore che possegga tutte le caratteristiche del nostro ideale amoroso, un amante forgiato così come il cuore lo desidera. E il cuore desidera trovare nell’altro tutte le cose che gli piacciono e tutte le cose che vorrebbe, insomma un’interfaccia di sè stesso. Un ideale amoroso che un giorno prende vita sotto i nostri occhi e diviene il nostro amore ideale vivente. Parecchi anni fa alla Harvard University, il dottor Robert Rosenthal, diede dimostrazione di quello che viene definito l'effetto Pigmalione, dal nome del mitico re di Cipro che si innamorò della statua di donna da lui stesso realizzata. In modo simile a Pigmalione anche noi fin dai primi attimi in cui conosciamo una persona ci creiamo di essa un'immagine e, conseguentemente, delle aspettative che poi tendiamo a confermare. In tutto questo svolgiamo un ruolo molto più attivo di quanto non si pensi, poiché induciamo l'altro a comportarsi in modo da rispettare l'immagine che abbiamo di lui. Anche qui vale, come in fisica, la legge per cui "ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria". E' quella che Watzlawick chiamerebbe una "profezia che si autorealizza".
In tempi liquidi e mutevoli, in una società in cui la barbarìe e la violenza la fanno da padrone, in tempi di rapporti fragili ed imprevedibili il prezzo che ci troviamo a pagare è il senso di solitudine. Siamo evoluti nella nostra capacità di avere contatti e rapporti multeplici, di vagare anche senza uscire ma il mondo resta escluso dal nostro pensiero, come in un atto di autoerotismo della mente. La società ci spinge a diffidare degli altri per cui ci condanna ad essere precari, nei sentimenti e nelle situazioni in cui vorremmo invece sempre più: tutto e subito. Senza cogliere multeplici opportunità, sembra che il tempo stesso sfugga e tolga vitali opportunità, sembra che la perdita di unicità invalidi tutta la nostra vita; nell’età dell’edonismo il tempo diventa fugace ed insicuro. Attali, indagando sui nuovi sentimenti, ha coniato il termine “netloving” nell’ultimo libro “Amours” edito da Fayard.
"Se le pratiche amorose evolvono allo stesso ritmo delle altre relazioni che governano la nostra società, dovremo confrontarci con la questione di libertà e trasparenza assolute anche nel campo degli affetti. Credo sia urgente parlare di amore perché nelle società che esitano tra ritorno alla barbarie e alla violenza e slancio altruista, l'interesse per il prossimo, l'amore è la sola risposta alla solitudine. Ecco: in questo stato di incertezza generale, l'amore diventa la questione cruciale. L'amore è una ricerca, corrisponde a una dimensione fondamentale dell'uomo che è cercare il superamento di sé. La natura umana è nomade, vuole scoprire: questa scoperta è appunto il superamento di sé".
Avremo quindi networking anche nelle relazioni amorose, e se network significa essere connessi, collegati, sviluppare rapporti, allora dovremo pensare a non avere un solo amante, a non concepire il rapporto amoroso come un rapporto di coppia, ma concepire di potere avere più amanti come già si hanno molti amici. Attali ricorda che la monogamia appare con la Chiesa e che, attualmente nel mondo ci sono multeplici esempi di rapporti amorosi e famigliari molto diversi da quelli a cui siamo abituati. Attualmente in occidente il piacere fisico è svincolato sia dalla riproduzione biologica che dall’amore, lo stesso amore è svincolato dalla tenerezza e dall’affetto, spesso la stessa riproduzione sociale è svincolata da quella biologica, ci sono persone innamorate che non fanno l’amore e persone che fanno l’amore senza essere innamorate. Ma siccome siamo in una società profondamente sleale, in cui viene rivendicato il diritto di cambiare anche radicalmente di opinione, allora dovremmo rassegnarci a pensare ad estendere tale libertà anche nel campo dei rapporti amorosi. L’amore che vediamo sul web, afferma Attali, non è del tutto nuovo: “Due tappe hanno preceduto questa forma di scambio amoroso su Internet. L'amor cortese, un amore astratto, con divieto assoluto di contatto sessuale, e comunque non era questo lo scopo. E poi il carnevale. Il carnevale è Internet. L'uso delle maschere e del travestimento per cambiare identità, l'illusione di essere un altro, la volontà di osare ciò che non potremmo nel quotidiano. In questo Internet non è nuovo, è una generalizzazione di ciò che esisteva già a Venezia". Afferma Attali che "Abbiamo acquisito il diritto di amare successivamente. Siamo passati a una forma di amori simultanei ma nascosti al partner e credo che la prossima tappa, tra uno, forse due secoli, sarà, per chi lo desidera, di amare più di una persona contemporaneamente alla luce del giorno".
Non so dire quale possa essere il futuro dell’amore e il futuro dell’uomo, sicuramente cercherò di leggere il libro di Attali, intanto mi chiedo se l’uomo sarà in grado di rinunciare al sogno di Pigmalione, alla speranza di amare un essere creato dalla mente sullo spettro delle concezioni di perfezione e di amabilità che sono impresse nella nostra anima. Mi chiedo se abbia ancora senso la frase di Osho: "Un amore elevato richiede il tuo essere vulnerabile. Devi abbandonare la tua corazza, e questo è doloroso, devi smetterla di essere costantemente sulla difensiva, devi disfarti della tua mente calcolatrice, devi rischiare, devi vivere pericolosamente. L'altro può ferirti: per questo si ha paura di essere vulnerabili. L'altro può respingerti: per questo hai paura di innamorarti. Vedrai la tua immagine riflessa nell'altro, e potrebbe essere qualcosa di orrendo. Ma evitando le esperienze che la vita ti offre non crescerai mai. Devi accettare la sfida."
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

lunedì 9 giugno 2008

Sono magici quelli che partono…


Ho ritrovato un errante nelle parole di Jacques Attali, francese di origini ebree, nato in Algeria nel 1943, intellettuale, economista, filosofo, storico, insegnate di Economia teorica all'École Polytechnique e all'Università Paris-Dauphine. Dopo la laurea al Politecnico nel 1966 colleziona una serie impressionante di titoli: dottore in scienze economiche, Ingegnere all’Ecole des mines di Parigi, una laurea all’Istituto di studi politici di Parigi. Dal 1981 al 1991 è stato consigliere economico di François Mitterrand, poi fondatore e presidente della Bers, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo dell'Europa dell'Est. Economista appassionato di nuove tecnologie e di Internet, durante il periodo mitterandiano Attali contribuisce alla definizione di Eurêka, il programma europeo di sviluppo delle nuove tecnologie. Nel 1998, fonda «PlaNet Finance», un'organizzazione no profit che finanzia attività contro la fame e la povertà nel Terzo Mondo attraverso il microcredito. Annuncia la promozione di un piano di azione di microfinanza nelle banlieues parigine. Agli oltre ottomila interventi portati a termine dalla Ong di Attali, si aggiunge «Entreprendre en banlieue», un finanziamento a fondo perduto ai disoccupati e agli esclusi per creare la loro piccola impresa: principalmente attività sartoriali, artigianato e piccola ristorazione. Umanista di fondo, Attali si colloca a cavallo della sinistra no global che crede nelle virtù del microcredito, premiate con il Nobel della pace a Mohammed Yunus, ma le mescola con l'evoluzione manageriale del terzo settore e l'apologia della governance delle Ong a supporto degli interventi di assistenza dell'Onu. Nonostante i suoi lavori su Marx, Jacques Attali però non è mai stato un marxista canonico, è piuttosto un esponente di spicco del socialisme libéral, gruppo composito all’interno della sinistra francese. Editorialista dell'"Express", è autore di decine di libri, tradotti in più di venti lingue, tra cui saggi, romanzi, racconti per l'infanzia, biografie e opere teatrali.
Nel suo libro “L’uomo nomade”, Spirali (2006) egli afferma che tutta la storia dell’umanità assomiglia al cammino di una carovana, e porta impresso il sigillo del nomadismo; tutti partecipano all’etica ed alla cultura nomade: il viaggio costituisce l’essenza dell’esistenza. L’uomo è stato forgiato dal nomadismo, ma ancor prima il groviglio delle specie viventi è fatto di mobilità, di slittamenti, di migrazioni, di salti e di viaggi: la storia della vita è nomade ancor prima che compaia l’uomo. L’uomo nasce dal viaggio e sul nomadismo cresce il suo corpo e la sua mente. L’inizio è la corsa di un bipede, circa 5 milini di anni fa, quando l’Australopithecus scende dagli alberi e si alza sulle gambe per correre le terre d’Africa. I nomadi hanno inventato l’essenziale: il fuoco, la caccia, le lingue, l’agricoltura, l’allevamento, i calzari, le vesti, gli strumenti, i riti, l’arte, la pittura, la scultura, la musica, il calcolo, la ruota, la scrittura, la legge, il mercato, l’equitazione, i timone, la marina, Dio, la democrazia. Agli stanziali che verranno andrà l’invenzione dello Stato, delle imposte, della prigione, del risparmio, del fucile e della polvere da sparo.
Durante tutti i secoli i viaggiatori e gli erranti avranno il compito di fare circolare idee e prodotti passando le vie di frontiera e le figure dell’erranza, quali i marinai, i filosofi, gli interpreti, i medici ed i mercanti saranno sempre elementi di vitalità e rinnovamento. Più tardi le file dei nomadi saranno ingrandite da coloro che fuggono: mercanti alla deriva, schiavi in rivolta, servi della gleba scacciati dalle loro terre, creando così i nomadi urbani che sono il fenomeno del capitalismo, nomadismo del salario e del profitto. Molte delle guerre europee sono causate dal conflitto tra stanziali barricati e da vicini travagliati da impulsi nomadi e tutti gli stati totalitari hanno da sempre l’ossessione di volersi sbarazzare dai nomadi, con leggi limitative e coercitive. Oggi l’uomo, dice Attali “sta ridiventando viaggiatore…Oggi più di 500 milioni di persone possono essere considerate nomadi del lavoro o della politica: gli immigrati, i rifugiati, gli espatriati, i senza fissa dimora e i migranti di ogni sorta… Più di un miliardo di persone viaggia ogni anno per piacere o per obbligo…Ogni anno, 10 milioni di persone espatriano: questo, da qui a cinquant’anni, potrà indurre più di 1 miliardo di individui a vivere fuori del paese natale”. Poi ci sono i “nomadi virtuali”, quelli che navigano nell’oceano della rete, che disegnano viaggi senza spazio, che costruiscono reti transnazionali e nuove “communities without propinquity”. L’ultimo grande “impero” stanziale – gli Stati Uniti, superpotenza ma in declino – si trova di fronte gli “innumerevoli nomadi della miseria”, gli “infranomadi”, che “sono e saranno i motori principali della storia, dell’economia e della politica”. “La mondializzazione democratica, così la chiama Attali, passerà attraverso la difficile messa in pratica delle virtù del nomade…e delle virtù dello stanziale…Verrà allora a delinearsi, al di là di immensi disordini, qualcosa come la promessa di un meticciato planetario, di una terra che sia ospitale per tutti i viandanti della vita.”.
Jacques Attali in “Trattato del labirinto” afferma: "Gli antichi ci hanno lasciato tante tracce sui muri, come i prigionieri sulle pareti delle celle, per gridarci di non dimenticare la loro saggezza. Messaggio di sopravvivenza per la specie umana: scoprire quello che siamo, imparare a vivere il tempo come spazio, attingere forza dall'errore, tracciare la vita come un labirinto, improvvisarla incessantemente, farne un gioco, un'opera d'arte, 'restare incatenati di se stessi', come dice Platone, ricercare i cammini della propria serena perfezione in un'ironia distante, nel ricordo dei saperi del nomade, nei piaceri dello scacco o dello smarrimento […] E' molto probabile che questo millennio veda fiorire totalitarismi estremi e oscuri, ottusi settarismi, terrificanti violenze. Ma chi saprà collocare i labirinti di domani nella loro continuità storica e mitologica, chi saprà accettarsi come l'erede di lunghissime peripezie, capirà che l'economia più futurista, la fantascienza più avanzata, la geopolitica più inverosimile trovano posto nei fili intrecciati dalla storia come nuove trasformazioni di un'antica tradizione. L'oblio ucciderà l'uomo. Il ricordo di quello che ha letto nei passi dei predecessori nomadi lo salverà, aprendogli la via a un uso civile delle sue creazioni, a un'economia di piacere, di libertà e di umorismo.
Occorrerà coraggio, perché, all'uscita da ogni labirinto, l'uomo troverà sempre altri labirinti. Labirinti di labirinti. Chi crederà d'incontrare dio; chi la verità; chi uno scetticismo ironico o una disperazione panica. Chi, infine, più semplicemente, un enigmatico e fragile cammino verso la saggezza".
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

domenica 8 giugno 2008

Le persone e i codici della nostra vita


James Hillman ne “Il codice dell’anima” narra il mito platonico di Er - riferito da Socrate - per spiegare la discesa dell’anima nel corpo. Er narra che, dopo la sua morte, si era ritrovato in cammino con molte anime fino ad un luogo meraviglioso in cui vi erano i giudici delle anime. Ad Er i giudici ordinano di ascoltare e poi raccontare quello che sarebbe accaduto. Le anime vengono giudicate ed i giusti vengono premiati, mentre agli ingiusti vengono imposte sofferenze dieci volte maggiori di quelle che avevano causato. Eaco giudica chi viene dall'Europa, Radamanto chi viene dall'Asia, e Minosse funge da giudice d'appello. L'anima e il corpo, separati, conservano ciascuno le proprie qualità e i segni delle attività compiute, che il giudice, senza gli ingombri del corpo e del vestito, può accertare direttamente. Il giudice vede l'anima senza sapere a quale corpo appartiene, e se è flagellata, contorta e piena di cicatrici a causa della sua malvagità, l'avvia in prigione, dove patirà i dovuti castighi. Tutti gli ingiusti vengono perdonati, ma non i tiranni che non potranno ritornare mai più, condannati ai supplizi del Tantalo. Dopo l’espiazione le anime giungono al cospetto di Ananke, che rappresenta la necessità o il destino ineluttabile, la quale sostiene sulle sue ginocchia un fuso in cui girano le otto sfere. Su ogni cerchio sta una Sirena, che emette un'unica nota, e le diverse Sirene tutte insieme producono ruotando un'armonia. Intorno ad Ananke, su tre troni, siedono le tre Moire o Parche. La Moira è la sorte impersonale e cosmica che assegna ad ogni ente naturale una parte, una porzione determinata una volta per tutte e immutabile. Le tre moire sono figlie di Ananke: Cloto, la filatrice, canta il presente, Lachesi, la distributrice, il passato, e Atropo, colei che non può essere dissuasa, l'avvenire. Giunte in quel luogo, le anime vengono presentate a Lachesi, da un araldo che ne comunica le volontà:”O anime che vivete un solo giorno, comincia per voi un altro periodo di degenerazione mortale, portatrice di morte. Non vi otterrà in sorte un daimon, ma sarete voi a scegliere il daimon. E chi viene sorteggiato per primo scelga per primo una vita, cui sarà necessariamente congiunto. La virtù è senza padrone e ciascuno ne avrà di più o di meno a seconda che la onori o la spregi. La responsabilità è di chi sceglie; il dio non è responsabile.” Nella mitologia greca, il daimon è la creatura divina che presiede alla sorte di ciascuno, ma quello che siamo, avverte l’araldo, dipende solo dalle nostre scelte. Dopo aver sorteggiato l'ordine della scelta delle anime, viene loro proposta una grandissima quantità di paradigmi di vita: vite di animali, di uomini, di donne, di tiranni, di successo o fallimentari, di persone oscure o insigni. Ma non c'è un’ordine o disposizione dell’anima, perché ognuna diviene ciò che ha scelto di essere. La selezione dei paradigmi di vita da parte delle anime è uno spettacolo insieme miserevole, ridicolo e meraviglioso. La maggioranza sceglie secondo le abitudini della vita precedente: Agamennone, per esempio, sceglie la vita di un'aquila, e Odisseo, stanco di avventure, la vita tranquilla di un privato. Dopo la scelta, le anime si presentano a Lachesi, dalla quale ciascuna ottiene il suo daimon, perché gli sia custode e adempia quello che ha scelto. Questo guida l'anima da Cloto, a confermare sotto il giro del fuso il suo destino, e poi da Atropo a renderlo inalterabile, e quindi, dal trono di Ananke, verso la pianura del Lete, afosa e senza alberi. Alla fine della giornata le anime si accampano sulla riva del fiume Amelete o Lete, il cui nome significa trascuratezza, incuria e la cui acqua non può essere contenuta da nessun vaso; poichè è la trascuratezza che ci fa dimenticare che noi, avendo scelto, siamo liberi, e che possiamo renderci migliori. Tutte le anime, tranne Er, vengono obbligate a bere quell’acqua e, quelle che non sono frenate dalla “phronesis” discernimento, ne bevono in abbondanza. Poi le anime cadono in un sogno profondo e, a mezzanotte, con un violento terremoto, vengono scagliate nel mondo. Er, che non aveva bevuto l'acqua del fiume Amelete o Lete, si era svegliato sulla pira funeraria, con la memoria del suo mito. Memoria che, conclude Socrate nel suo racconto, anche noi potremo conservare, se attraverseremo bene il Lete e seguiremo la via della “dikaiosyne” giustizia e della phronesis “discernimento” per trovarci bene in questo mondo e nell'altro millenario cammino. Il mito insegna che noi esistiamo in maniera piena solo se sappiamo fare le nostre scelte, se sappiamo, cioè, valorosamente morire e consapevolmente rinascere, senza dimenticare nulla. La ripetizione ossessiva e l'immersione acritica in un flusso non concettuale, incontenibile e indefinibile, proprio come l'acqua del fiume Amelete o Lete, impedendo il ricordo critico della nostra storia, ci toglie la libertà di cambiare. Quella che io scelgo, ricorda Hillman, è l’immagine che mi attrae maggiormente, la “mia giusta eredità”, la porzione assegnatami nell’ordine del mondo, il mio posto sulla terra condensato in un modello che è stato scelto dalla mia anima e che la mia anima conferma di continuo. La mitologia antica localizza l’anima nel cuore, quindi il nostro cuore conserva sempre l’immagine del nostro destino e ci spinge verso di esso, anche se per riconoscere quella immagine spesso occorre una vita.
Spesso ci chiediamo perché alcune persone entrino nella nostra vita e ci sembra che, almeno apparentemente, esse siano scombinate ed inadatte per quello che siamo e per quello che proviamo. Anche se appare incredibile nessuno entra per caso nella vita degli altri, e gli incontri che si fanno, nel percorso e nel progetto di vita che viviamo, sono sempre funzionali alla crescita della conoscenza del nostro vero essere e della consapevolezza che abbiamo delle nostre opportunità. L’incontro non è obbligatoriamente con persone fisiche, spesso è con libri, con maestri spirituali che ci parlano tramite i loro scritti, o con idee che hanno il compito di risvegliare quello che dorme all’interno della nostra anima. Spesso la violenza dell’impatto con persone o sentimenti che esse ci scatenano è incomprensibile, ma anche questi nodi vanno dipanati, per scoprire i motivi della nostra infelicità e costruire un sentimento di sicurezza e gioia.
Dice Hillman che oggi “Siamo avviliti perché abbiamo solo un dio, e questo è l'economia. L'economia è un aguzzino. Nessuno ha tempo libero; nessuno ha riposo. L'intera cultura è sotto una pressione terribile, intessuta com'è di preoccupazioni. E'difficile uscire da questa prigione. Inoltre, vedo la felicità come la conseguenza di ciò che fai.” Anche Goethe diceva che la felicità più grande risiede nel praticare un talento che fa parte della nostra natura,confermando che la felicità è nella scoperta del nostro personale codice dell’anima.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

giovedì 5 giugno 2008

La fine di un viaggio storico, l'inizio di un altro


Da La Repubblica di oggi, il discorso di Barack Obama:
"Questa sera, dopo cinquantaquattro combattutissime sfide, la nostra stagione delle primarie si è finalmente conclusa. Sono passati sedici mesi da quando ci siamo riuniti per la prima volta, sui gradini del vecchio palazzo del Parlamento statale dell'Illinois, a Springfield. Abbiamo percorso migliaia di miglia. Abbiamo ascoltato milioni di voci. E grazie a quello che voi avete detto, grazie al fatto che voi avete deciso che a Washington deve arrivare il cambiamento, grazie al fatto che voi avete creduto che quest'anno dovrà essere diverso da tutti gli altri anni, grazie al fatto che voi avete scelto di dare ascolto non ai vostri dubbi o alle vostre paure ma alle vostre speranze e aspirazioni più grandi, questa notte noi scriviamo la parola fine di uno storico viaggio con l'inizio di un altro viaggio, un viaggio che porterà un'alba nuova e migliore per l'America. Questa notte, io posso venire da voi e dire che sarò il candidato del Partito democratico alla presidenza degli Stati Uniti.
Voglio ringraziare tutti gli americani che sono stati al nostro fianco nel corso di questa campagna, nei giorni belli e nei giorni brutti; dalle nevi dello Iowa, al sole del South Dakota. E questa sera voglio ringraziare anche gli uomini e le donne che hanno intrapreso questo viaggio con me, candidandosi anche loro per la presidenza.
In questo momento decisivo per la nostra nazione, noi dobbiamo essere orgogliosi che il nostro partito sia stato capace di schierare un gruppo di persone fra le più brillanti e competenti che abbiano mai concorso a questo incarico. Non mi sono limitato a competere con loro come avversari, ho imparato da loro, come amici, come servitori dello Stato e come patrioti che amano l'America e sono disposti a lavorare senza risparmio per rendere migliore questo Paese. Loro sono dei leader di questo partito e sono leader su cui l'America farà conto negli anni a venire.
Tutto questo vale in particolare per la candidata che questo viaggio lo ha prolungato più di chiunque altro. La senatrice Hillary Clinton ha scritto la storia, in questa campagna elettorale, non soltanto perché è una donna che ha saputo fare quello che nessuna donna aveva fatto prima, ma perché è una leader capace di dare l'esempio a milioni di americani con la sua forza, il suo coraggio e il suo impegno in favore di quelle cause che ci hanno condotto qui questa sera.
Certamente ci sono state delle divergenze tra di noi negli ultimi sedici mesi. Ma avendo condiviso il palcoscenico con lei in molte occasioni, posso dirvi che quello che spinge Hillary Clinton ad alzarsi ogni mattina – anche quando ci sono poche speranze – è esattamente quello che spinse lei e Bill Clinton a partecipare alla loro prima campagna elettorale, tantissimi anni fa; è quello che la spinse a lavorare per il Children's Defense Fund e a condurre la sua battaglia per la riforma sanitaria quando era first lady; è quello che l'ha portata al Senato degli Stati Uniti e ha dato forza alla sua campagna presidenziale, capace di rompere gli schemi: un desiderio incrollabile di migliorare la vita dei comuni cittadini di questo Paese, per quanto difficile possa essere quest'impresa. Ed è indubbio che quando finalmente avremo vinto la battaglia per un'assistenza sanitaria per tutti in questo Paese, il suo ruolo in quella vittoria sarà stato fondamentale. Quando trasformeremo la nostra politica energetica e sottrarremo i nostri figli alla morsa della povertà, ci riusciremo perché lei ha lavorato perché questo accadesse. Il nostro partito e il nostro Paese sono migliori grazie a lei, e io sono un candidato migliore per aver avuto l'onore di competere con Hillary Rodham Clinton.
C'è chi dice che queste primarie ci hanno lasciati un po' più deboli e un po' più divisi. Ebbene, io dico che grazie a queste primarie ci sono milioni di americani che per la prima volta in assoluto hanno espresso un voto. Ci sono elettori indipendenti ed elettori repubblicani che comprendono che in queste elezioni non si decide solamente quale partito governerà a Washington, ma si decide sulla necessità di cambiare a Washington. Ci sono giovani, afroamericani, ispanici e donne di tutte le età che sono andati a votare in massa, con numeri che hanno battuto tutti i record e hanno dato l'esempio a una nazione intera.
Tutti voi avete scelto di sostenere un candidato in cui credete profondamente. Ma in fin dei conti, non siamo noi la ragione per la quale siete usciti di casa e avete aspettato, con file che si stendevano per isolati interi, per votare e far sentire la vostra voce. Non lo avete fatto per me, o per la senatrice Clinton o per chiunque altro. Lo avete fatto perché sapete nel profondo del vostro cuore che in questo momento – un momento che sarà decisivo per una generazione intera – non possiamo permetterci di continuare a fare quello che abbiamo fatto. Abbiamo il dovere di dare ai nostri figli un futuro migliore. Abbiamo il dovere di dare al nostro Paese un futuro migliore. E per tutti coloro che questa notte sognano questo futuro, io dico: cominciamo a lavorare insieme. Uniamoci in uno sforzo comune per tracciare una nuova rotta per l'America.
Tra pochissimi mesi, il Partito repubblicano arriverà qui a St. Paul, per la sua convention, con un programma diversissimo. Verranno qui per nominare come candidato alla presidenza John McCain, un uomo che ha servito questo Paese eroicamente. Io rendo onore a quello che ha fatto sotto le armi, e rispetto i tanti risultati che ha ottenuto, anche se lui sceglie di negare i miei. Non è sul piano personale che sono in disaccordo con lui: sono in disaccordo con le misure che ha proposto in questa campagna.
Perché se da un lato John McCain può legittimamente rivendicare momenti di indipendenza dal suo partito in passato, non è questa indipendenza il tratto distintivo della sua campagna presidenziale.
Non è cambiamento se John McCain ha deciso di schierarsi dalla parte di George Bush nel novantanove per cento dei casi, come ha fatto in Senato lo scorso anno. Non è cambiamento quando ci offre altri quattro anni delle politiche economiche di Bush, che non sono riuscite a creare posti di lavoro ben pagati, o ad assicurare i nostri lavoratori, o ad aiutare gli americani a sostenere i costi sempre più alti dell'università; politiche che hanno fatto calare il reddito reale delle famiglie medie americane, che hanno allargato il divario tra il grande capitale e le piccole e medie imprese e hanno lasciato ai nostri figli un debito colossale.
E non è cambiamento quando promette di proseguire, in Iraq, sulla strada di una politica che chiede tutto ai valorosi soldati, uomini e donne, che servono nelle nostre forze armate, e non chiede nulla ai politici iracheni, una politica in cui tutto quello che cerchiamo di ottenere sono ragioni per rimanere in Iraq, mentre spendiamo miliardi di dollari al mese in una guerra che non serve nel modo più assoluto a rendere il popolo americano più sicuro. Vi dirò una cosa: ci sono molte parole per definire il tentativo di John McCain di spacciare la sua acquiescenza alle politiche di Bush come una scelta di novità e imparzialità. «Cambiamento», però, non è tra queste.
Cambiamento è una politica estera che non comincia e finisce con una guerra che non avrebbe mai dovuto essere autorizzata e non avrebbe mai dovuto essere scatenata. Non verrò qui a far finta che in Iraq siano rimaste molte opzioni valide a disposizione, ma un'opzione improponibile è quella di lasciare i nostri soldati in quel Paese per i prossimi cent'anni, specialmente in un momento in cui le nostre forze armate sono al limite delle loro possibilità, la nostra nazione è isolata e quasi tutte le altre minacce che gravano sull'America vengono ignorate.
Dovremo essere tanto accorti nell'uscire dall'Iraq quanto poco accorti siamo stati nell'entrarvi, ma dobbiamo cominciare ad andarcene. È tempo che gli iracheni si assumano la responsabilità del loro futuro. È tempo di ricostruire le nostre forze armate e dare ai nostri veterani l'assistenza di cui hanno bisogno e le indennità che meritano, quando fanno ritorno a casa. È tempo di tornare a concentrare i nostri sforzi sulla leadership di al-Qaida e sull'Afghanistan, e di unire il mondo per combattere le minacce comuni del XXI secolo: il terrorismo e le armi nucleari, i cambiamenti climatici e la povertà, i genocidi e le malattie. Questo è il cambiamento.
Cambiamento è capire che per affrontare le minacce dei nostri giorni non basta la nostra potenza di fuoco, ma serve anche la forza della nostra diplomazia, una diplomazia decisa e diretta, in cui il presidente degli Stati Uniti non abbia paura di far sapere a qualsiasi dittatorucolo qual è la posizione dell'America e per che cosa si batte l'America. Dobbiamo tornare ad avere il coraggio e la convinzione per guidare il mondo libero. Questa è l'eredità di Roosevelt, e di Truman, e di Kennedy. Questo è quello che vuole il popolo americano. Questo è il cambiamento.
Cambiamento è costruire un'economia che non ricompensi soltanto i ricchi, ma il lavoro e i lavoratori che l'hanno creata. È comprendere che le difficoltà che devono affrontare le famiglie dei lavoratori non possono essere risolte spendendo miliardi di dollari in altri sgravi fiscali per le grandi aziende e per i ricchi supermanager, ma offrendo uno sgravio fiscale alla classe media, e investendo nelle nostre infrastrutture fatiscenti, e cambiando il modo di usare l'energia, e migliorando le nostre scuole, e rinnovando il nostro impegno in favore della scienza e dell'innovazione. È comprendere che rigore di bilancio e prosperità diffusa possono andare a braccetto, come accadde quando era presidente Bill Clinton.
John McCain ha speso un mucchio di tempo a parlare di viaggi in Iraq, in queste ultime settimane, ma forse se avesse speso un po' di tempo a viaggiare nelle città grandi e piccole che sono state colpite più duramente di tutte da questa economia – nel Michigan, nell'Ohio e proprio qui in Minnesota – comprenderebbe che tipo di cambiamento sta cercando la gente.
Forse se andasse nell'Iowa e incontrasse la studentessa che dopo un giorno intero a seguire le lezioni lavora la notte e nonostante questo non riesce comunque a pagare le cure mediche per una sorella ammalata, capirebbe che lei non può permettersi altri quattro anni di un sistema sanitario che va a vantaggio solo di chi è ricco e sano. Lei ha bisogno che noi approviamo una riforma sanitaria che garantisca un'assicurazione a tutti gli americani che la desiderano, e che faccia scendere il costo dei premi assicurativi per tutte le famiglie che ne abbiano bisogno. Questo è il cambiamento di cui abbiamo bisogno.
Forse se andasse in Pennsylvania e incontrasse l'uomo che ha perso il suo lavoro ma non ha neanche i soldi per pagarsi la benzina per girare alla ricerca di un altro lavoro, capirebbe che non possiamo permetterci altri quattro anni di dipendenza dal petrolio dei dittatori. Quell'uomo ha bisogno che noi approviamo una politica energetica che insieme alle case automobilistiche migliori i parametri di efficienza energetica dei carburanti, e che faccia in modo che le grandi aziende paghino per l'inquinamento che producono, e che faccia in modo che le compagnie petrolifere investano i loro profitti da record in un futuro di energia pulita; una politica energetica che creerà milioni di nuovi posti di lavoro ben pagati e che non potrà essere delegata ad altri Paesi. Questo è il cambiamento di cui abbiamo bisogno.
E forse se avesse passato un po' di tempo nelle scuole della Carolina del Sud o di St. Paul, o dove ha parlato questa sera, a New Orleans, capirebbe che non possiamo permetterci di lesinare soldi per il programma per l'infanzia No Child Left Behind; che è un dovere verso i nostri figli investire nell'istruzione per la prima infanzia, reclutare un esercito di nuovi insegnanti e offrire loro una paga migliore e maggiore sostegno, decidere finalmente che in questa economia globale l'occasione di avere un'istruzione universitaria non dovrebbe essere un privilegio riservato a pochi ricchi, ma un diritto inalienabile di ogni americano. Questo è il cambiamento di cui abbiamo bisogno in America. È per questo che io corro per la presidenza.
L'altra parte verrà qui a settembre e offrirà una serie di politiche e di posizioni molto diverse, e questo è un dibattito che io aspetto con impazienza. È un dibattito che il popolo americano si merita. Ma quello che non si merita è un'altra elezione governata dalla paura, dalla diffamazione e dalla divisione. Quello che non sentirete da questa campagna o da questo partito è quel genere di politica che usa la religione come un elemento di divisione e il patriottismo come una clava, quella politica che vede i nostri avversari non come concorrenti da sfidare ma come nemici da demonizzare. Perché noi possiamo definirci Democratici e Repubblicani, ma siamo prima di tutto americani. Siamo sempre prima di tutto americani.
Nonostante quello che ha detto stasera l'ottimo senatore dell'Arizona, io ho visto molte volte, nei miei vent'anni di vita pubblica, persone di idee e opinioni differenti trovare un terreno d'incontro, e io stesso in molte occasioni ho creato questo terreno d'incontro. Ho camminato sottobraccio con leader di quartiere nel South Side di Chicago, e ho visto stemperarsi le tensioni tra neri, bianchi, e ispanici mentre lottavano insieme per avere un buon lavoro e una buona istruzione. Sono stato seduto a uno stesso tavolo con rappresentanti della magistratura e delle forze dell'ordine e sostenitori dei diritti umani per riformare un sistema della giustizia penale che ha mandato tredici innocenti nel braccio della morte. E ho lavorato insieme ad amici dell'altro partito per garantire un'assicurazione sanitaria a un maggior numero di bambini e uno sgravio fiscale a un maggior numero di famiglie di lavoratori; per frenare la proliferazione delle armi nucleari e per fare in modo che il popolo americano sappia dove vengono spesi i soldi delle sue tasse; e per ridurre l'influenza dei lobbisti che troppo spesso stabiliscono le priorità a Washington.
Nel nostro Paese, io ho scoperto che questa collaborazione non avviene perché siamo d'accordo su ogni cosa, ma perché dietro a tutte le etichette e false divisioni e categorie che ci definiscono, al di là di tutti i battibecchi e le schermaglie politiche a Washington, gli americani sono un popolo onesto, generoso, compassionevole, unito da sfide e speranze comuni. E in certi momenti, è a questa bontà di fondo che si fa appello per tornare a far grande questo Paese.
Così è stato per quel gruppo di patrioti riuniti in una sala a Filadelfia, che dichiararono la formazione di una più perfetta unione; e per tutti coloro che sui campi di battaglia di Gettysburg e di Antietam [luoghi di importanti battaglie della Guerra di secessione, ndt] si impegnarono fino allo spasimo per salvare quella stessa unione.
Così è stato per la più grande delle generazioni, che sconfisse la paura stessa e liberò un continente dalla tirannia facendo di questo Paese una terra di opportunità e prosperità senza limiti.
Così è stato per i lavoratori che hanno tenuto duro nei picchetti; per le donne che hanno infranto il soffitto di cristallo; per i bambini che sfidarono il ponte di Selma [allusione a un famoso episodio delle lotte per i diritti civili degli anni '60, ndt] per la causa della libertà.
Così è stato per ogni generazione che ha affrontato le sfide più grandi, contro ogni speranza, per lasciare ai loro figli un mondo che è migliore, più buono e più giusto.
E così dev'essere per noi.
America, questo è il nostro momento. Questa è il nostro tempo. Il tempo di voltare pagina rispetto alle politica del passato. Il tempo di apportare una nuova energia e nuove idee alle sfide che abbiamo di fronte. Il tempo di offrire una direzione nuova al Paese che amiamo.
Il viaggio sarà difficile. La strada sarà lunga. Io affronto questa sfida con profonda umiltà e consapevolezza dei miei limiti. Ma l'affronto con una fede illimitata nella capacità del popolo americano. Perché se siamo pronti a lavorare per questo obiettivo, e a lottare per questo obiettivo, e a credere in questo obiettivo, allora sono assolutamente certo che le generazioni future potranno guardarsi indietro e dire ai nostri figli che questo fu il momento in cui cominciammo a offrire assistenza sanitaria per gli ammalati e un buon lavoro ai disoccupati; questo fu il momento in cui l'innalzamento dei mari cominciò a rallentare e il nostro pianeta cominciò a guarire; questo fu il momento in cui mettemmo fine a una guerra e garantimmo la sicurezza della nostra nazione e ripristinammo l'immagine dell'America come ultima e migliore speranza per il pianeta. Questo fu il momento – questo fu il tempo – in cui ci unimmo per ricostruire questa grande nazione in modo tale da rispecchiare la nostra vera identità e i nostri più alti ideali. Grazie, che Dio vi benedica e che Dio benedica l'America."
(traduzione di Fabio Galimberti)

E dai! Molla l’osso Hillary!


Le combattute primarie americane vedono ormai innegabilmente la vittoria di Barack Obama, ma la signora Rodham Clinton, sembra l’unica a non volersene rendere conto. Se la voglia di determinazione e la volontà di vittoria sono sintomo di un carattere combattivo e tenace, non di meno, la volontà o meglio, l’ostinazione a volere negare la realtà più smaccata, dimostrano invece una cieca ostinazione che non depone a favore della Clinton.
Anche le persone più vicine alla first lady si richiedono ormai come farle ammettere una sconfitta sancita a colpi di voti e preferenze, una sconfitta implacabile ed innegabile, mentre lei continua a temporeggiare. L’unica a recitare la parte di Pollyanna resta lei, una donna che oggi sembra incarnare più fiduciosa ottusità che ottimismo. Per ora la Clinton si e' congratulata con Obama per la "straordinaria campagna" e lo ha definito "un amico" ma si è riservata di scoprire le sue carte solo dopo avere avuto un summit con i suoi sostenitori, con i leader del partito. Forse dovrebbe ricordare che il partito di cui parla è lo stesso del suo avversario. Dicono che potrebbe puntare alla poltrona di vicepresidente, ma la carica appare impegnativa per una che, in qualche modo già tale carica l’ha ricoperta, seppure in modo indiretto ai tempi della presidenza del marito.
Certamente una donna come Hillary, appare ora molto scomoda ed ingombrante, ancor più dopo una campagna politica dura ed aggressiva, non priva di colpi bassi e scorrettezze. Insomma non sempre Hillary si è segnalata per la classe, e per adesso continua a dimostrare l’ostinazione del mastino.
All’atto della sua candidatura era stata molto criticata per il suo restyling estetico, per un’immagine patinata, un po’ frivola, che non sembrava essere in linea con l’immagine impegnata con cui si era fatta conoscere. Credo che sia tutta una scemata, non era il lifting che poteva insospettire di Hillary, forse ciò che avrebbe dovuto insospettire era la sua appartenenza all’ establishment, la sua appartenenza ad una classe privilegiata a cui Obama si dichiara estraneo. Si è ritrovata di fronte un giovane afroamericano, che vuole rinnovare una nazione che perde in Iraq, una nazione che non dimostra di avere vinto la sua guerra preventiva, che ripensa anche i suoi simboli, che cerca di far risalire il suo dollaro a pezzi, in cui la gente tira la cinghia senza assistenza sanitaria e senza tutele sociali di base. Lo scenario insomma è ben lontano dal sogno americano che avevamo visto sbandierare. I rotocalchi americani si contendono le foto dello sfarzoso matrimonio della figlia di Bush, mentre c’è gente che ha fatto la colletta per inviare soldi al candidato Obama sperando che egli possa incarnare il sogno dei diseredati e delle classi emarginate.
Interessante che la General Motors abbia annunciato che chiuderà alcuni impianti tra cui quelli storici che producono gli Hammer, i giganteschi Suv spocchiosi, per 15 anni il simbolo di un'era di eccessi burini, ma anche di superficiale spensieratezza, simbolo di arroganza, di prepotenza e di esibizionismo. Forse l’America sente la necessità di abbassare i toni, di mantenere un profilo più modesto e meno cafone, consapevole che la presidenza Bush jr. ha consegnato alla storia un paese con un livello bassissimo di simpatie popolari. L’America che non ha mai dimenticato il venerdì nero e che vede le crisi come ricicli e ricorsi di quella debacle epocale, che vede oggi Lehman Brothers, una delle banche d'affari più prestigiose con 158 anni di storia, ma anche Wachovia, quarta banca del Paese, e la Washington Mutual, segnare il passo e accusare la crisi. Questa America vuole una svolta che Hillary non può rappresentare, vuole una svolta generazionale vera. Obama rappresenta quel cambiamento, lui che è veramente “figlio di nessuno” che non rappresenta interessi forti, e che invece sembra incarnare il nuovo sogno americano, la nuova frontiera di speranze, quella che lo stesso John McCain, il candidato repubblicano, non ha i numeri per rappresentare.
Sarebbe quindi il caso che Hillary aprisse gli occhi e mollasse l’osso, dimostrando così di possedere quella intelligenza politica che è necessaria per aspirare alla presidenza del paese più potente del mondo: per ora sta solo dimostrando che ha fatto bene chi non l’ha votata. Obama invece continua la sua marcia trionfale e nel suo discorso dichiara che si sente “un candidato migliore per aver avuto l'onore di competere con Hillary Rodham Clinton” afferma che “Abbiamo il dovere di dare ai nostri figli un futuro migliore. Abbiamo il dovere di dare al nostro Paese un futuro migliore. E per tutti coloro che questa notte sognano questo futuro, io dico: cominciamo a lavorare insieme. Uniamoci in uno sforzo comune per tracciare una nuova rotta per l'America” dice che questo futuro non può venire da“una guerra che non avrebbe mai dovuto essere autorizzata e non avrebbe mai dovuto essere scatenata”. Il suo discorso è pieno delle cose che gli americani si vogliono sentire dire, è pieno dei sogni che da tempo non si permettevano più di avere, è pieno di cose vere e giuste.
“È tempo di tornare a concentrare i nostri sforzi sulla leadership di al-Qaida e sull'Afghanistan, e di unire il mondo per combattere le minacce comuni del 21.secolo: il terrorismo e le armi nucleari, i cambiamenti climatici e la povertà, i genocidi e le malattie. Questo è il cambiamento. […] Questa è l'eredità di Roosevelt, e di Truman, e di Kennedy. Questo è quello che vuole il popolo americano. Questo è il cambiamento. […] questo fu il momento in cui cominciammo a offrire assistenza sanitaria per gli ammalati e un buon lavoro ai disoccupati; questo fu il momento in cui l'innalzamento dei mari cominciò a rallentare e il nostro pianeta cominciò a guarire; questo fu il momento in cui mettemmo fine a una guerra e garantimmo la sicurezza della nostra nazione e ripristinammo l'immagine dell'America come ultima e migliore speranza per il pianeta. Questo fu il momento – questo fu il tempo – in cui ci unimmo per ricostruire questa grande nazione in modo tale da rispecchiare la nostra vera identità e i nostri più alti ideali. Grazie, che Dio vi benedica e che Dio benedica l'America.”
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

martedì 3 giugno 2008

La liberazione dell’altra metà del cielo


Secondo la psicanalisi classica, soprattutto le teorie di Karen Horney, la psicologia femminile risentirebbe del ruolo subalterno che la cultura ha sempre riservato alla identità femminile, infatti le concezioni dell’ordinamento sociale conformate su schemi tipicamente maschili hanno determinato quella precarietà della stima di sé che, nel contesto della cultura occidentale, sembra essere una costante nella storia delle donne. Le donne sono sempre state frustrate nel perseguimento dello loro sviluppo e della loro individualità, ritardo rivelato anche dallo status giuridico femminile, che in Italia ha faticato a riconoscere delle parità tra i sessi. Solo nel 1975 è stata approvata la riforma del diritto di famiglia che, di fatto sanziona la parità dei coniugi e solo dal 1976 le donne iniziano a ricoprire cariche istituzionali. Nel 1978 si approva la legge 194, contenente le Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza, una legge cardine con cui la donna ha guadagnato il diritto all’autodeterminazione, cioè alla possibilità di essere padrona del proprio corpo. Nel 1996 è stata approvata la nuova legge sulla violenza sessuale che diviene reato contro la persona e non contro la pubblica opinione. Nel 1997 si emana la direttiva del governo italiano, per la prevenzione e contrasto di tutte le forme di violenza fisica, sessuale e psicologica contro le donne. E’ del 2001 la legge n. 154 sull’allontanamento del familiare violento per via civile o penale, che prevede misure di protezione sociale per le vittime, quando le notizie di donne uccise, stuprate o umiliate in ogni modo, affollano le prime pagine dei giornali.
L’evidenza che la donna sia ancora lontana dall’avere conquistato una vera autonomia, è un dato di fatto pienamente confermato dalle date suddette ma, a parere mio, la maggiore nemica della donna rimane sempre sè stessa, soprattutto quando, in nome di una errata concezione di parità, si conforma ad atteggiamenti e stereotipìe negative del sesso maschile, per simulare una sorta di pseudo parità della demenza umana.
Sono ancora molte le donne che, dovendo esporsi più dell’uomo per dimostrare le loro qualità, sono disposte a tutto piuttosto di primeggiare, e le donne si allenano fin dall’infanzia alla “competitività”, perché educate a valori stereotipati che definiscono la femminilità in termini di bellezza, sottomissione, negazione dell’io per compiacere gli altri, tutti valori che la società tende a confermare. Queste contraddizioni portano a sentimenti di ostilità contro le altre donne e contro l’universo femminile, aldilà del perseguimento di un vantaggio vero o presunto. Spesso rileviamo sentimenti di tale genere anche tra madri e figlie, soprattutto quando l’invidia della giovinezza o della bellezza e della seduttività diventano elementi focali.
Ho personalmente verificato la verità di questa teoria, sia nell’ambito delle amicizie che delle conoscenze, e devo convenire che, tale comportamento dimostra proprio l’immaturità psicologica che la donna dovrebbe invece sconfessare. Durante una pausa in palestra, ho raccolto il velenoso e svagato commento, di una falsa bionda che mi ha confidato casualmente:”Sai penso che le donne muscolose siano così poco femminili, se fossi uomo credo che mi piacerebbero delle donne dalle curve morbide e molto più femminili.” Sia pure non esageratamente sono muscolosa, e da altri sintomi pregressi, si dà il caso che la donna a cui alludeva la tipetta fossi io, per cui gli ho risposto che, ammesso che fossi stata uomo anche io saremmo stati grossi amici, non avremmo litigato per le donne, infatti a me mi sarebbe piaciuta una pupetta atletica, compatta e veloce con cui divertirmi non poco. Ho sempre trovato le donne tradizionali troppo noiose.
Le differenze tra uomini e donna sono moltissime ovviamente ma, come nemico e nel caso di conflitti all’ultimo sangue, perlopiù l’uomo è stronzo ma la donna diventa straordinariamente perfida. Per questo credo che sia ancora lunga la strada per la conquista di una identità femminile, libera dai ruoli stereotipati che ci vengono consegnati dalla nostra cultura, vedo piuttosto che molte donne vi si sottomettono ancora volentieri, malgrado ci siano strumenti per pensare in modo intelligente. Vedo un perseguimento di modelli errati anche per il genere maschile, apoteosi di falsi miti quali la competitività e l’ostilità, miti irragionevoli in ogni frangente ed in ogni contesto. Io concepisco invece la mente come una risorsa e la limitazione della mente in qualsiasi contesto di un copione culturale rigido, come una castrazione. Per cui il mio pensiero si rivolge sia all’uomo come pure alla donna, e credo che la liberazione della donna possa passare solo dalla liberazione dei generi, dall’affrancamento di entrambi i generi, non solo di quello femminile. La crisi dell’identità personale credo sia generalizzata in entrambi i sessi, senza differenze, soltanto che alla donna è permessa la manifestazione delle proprie debolezze, per cui ha maggiore possibilità di un’elaborazione ed emancipazione dai conflitti, mentre l’uomo è condannato culturalmente ad un maggiore livello di autocontrollo e di rigidità affettiva. Le donne, rispetto agli uomini, sono in maggiore percentuale, rispetto all’uomo, tra coloro che affrontano un percorso di ricerca psicologica e/o terapeutico. Le donne sono maggiormente disponibili a mettersi in crisi: ammettono debolezze e sconfitte, non devono dimostrare sempre di essere forti ed impermeabili. Per la donna è più facile avere dèfaillances senza mettere in crisi la propria femminilità, perlomeno nella maggior parte dei casi, insomma possiamo permetterci il lusso di cadere e soffrire per amore come lo stereotipo romantico vorrebbe, mentre l’uomo non dovrebbe mostrare dolore, piuttosto disprezzo per un indegno oggetto d’amore e passare ad un altro oggetto maggiormente gratificante. Sappiamo tutti invece che questo non è assolutamente vero, e che non rispondiamo, ai casi della vita secondo regole predefinite, che le persone reagiscono secondo i loro sentimenti e non secondo le regole. Tutto questo ci dovrebbe convincere che le conclamate caratterizzazioni di genere sono dannose, che esse sono nefaste in tutti i casi in cui vengano impersonate, a discapito della personalità e dell’individualità del soggetto. Guai a volersi racchiudere su uno stereotipo fisso di femminilità o mascolinità obbligate, ci precludiamo esperienze e contributi che potrebbero farci crescere molto. Ho provato a fare capire ad un mio amico che le donne amano “anche” le fragilità e le debolezze degli uomini, che insomma un po’ di sindrome della crocerossina l’abbiamo tutte, altrimenti non avrebbe avuto senso il successo del film “Io ti salverò”. Ho cercato di spiegargli che nei rapporti d’amore un po’ funziona come nell’immagine taoista della preponderanza del debole, in cui il debole avanza, ma se è il posto degno ed il debole agisce in modo opportuno, di solito nessuno si lamenta.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami