lunedì 27 giugno 2011

Il ruggito del leone


“Vittorioso io sono e onniveggente,
per sempre distaccato da ogni cosa.
Liberato da tutto e dalla sete,
autodidatta e senza alcun maestro.

Non v’è per me maestro, né compagno;
non v’è in cielo, né in terra alcuno che mi sia pari.
Io sono il Signore del mondo, il supremo maestro:
estinti gli attaccamenti, vi sono io,unico e risvegliato.”

(Majjhima Nikaya, Opamadhamma)

Nel buddismo si afferma che la vita porta dei problemi, perché l’uomo deve affrontare il problema delle credenziali che lo fanno sentire sicuro nelle sue illusioni, perciò i problemi vengono per offrire l’opportunità di riflettere sulla nostra ricerca di sicurezze e per farci riflettere sulla nostra percezione del mondo. Nel buddismo tibetano usano l’espressione “ruggito del leone” per affermare che ogni stato mentale è sfruttabile per aiutare la nostra meditazione sulla vita.

Lavorando con le emozioni si agisce sul 5° skandha cioè sulla coscienza, ma anche sul 4° skandha collegato a “concetto” e “intelletto,” infatti le emozioni devono essere viste come delle formazioni che influiscono su determinati distretti energetici. Le forme di energia sono paragonate all’acqua e il pensiero viene paragonato al pigmento colorato che può tingere l’acqua con le sfumature più variegate e con tinte più forti o più tenui: quando le acque delle emozioni e i colori dell’intelletto si mescolano si formano le nostre colorate emozioni.

I nostri concetti mentali forniscono all’energia delle emozioni un livello e una posizione interiore che sono più o meno elevate e che possono essere intense o superficiali, perciò esse rivelano il senso del rapporto del soggetto con le sue energie, infatti le emozioni diventano molto potenti e vivide. Le emozioni causano problemi perché il rapporto che abbiamo con loro non è chiaro, infatti nel 5° skandha l’ego diventa molto forte avendo acquisito il senso del sé, perciò riesce a esercitare un maggiore controllo e si crea ciò che Chogyam Trungpa chiama un conflitto tra il sovrano e il suo primo ministro.

La condizione è quella del re che non si fida più del ministro più fidato: il consigliere è diventato più potente del suo sovrano, perciò il rapporto di fiducia si è interrotto. Con le emozioni avviene ugualmente, perché noi non abbiamo la fiducia interiore di saper padroneggiare le emozioni e questo ci causa il dolore, in quanto c’è il timore che l’emozione possa travolgerci fino a privarci dell’identità. E’ il fatto di non poter contare su un affidabile centro di controllo interiore che attiva il conflitto tra la forza delle emozioni e il nostro timore di dover soccombere a una forza a cui non possiamo resistere, per questo è necessario imparare come controllare le nostre emozioni.

Solitamente avviene una dura battaglia interiore tra noi e le nostre emozioni, perciò la guerra esiste anche tra noi e le nostre proiezioni, per cui il conflitto viene esteso fino al mondo esteriore. Se vediamo la situazione così, spiega Chogyam, tutto diventa estremamente logico e trasparente, sebbene sia necessario saper discriminare tra “vedere” perciò percepire le cose per come sono e “guardare” che è compiere uno sforzo inutile e dannoso di utilizzare delle credenziali e delle proiezioni per avere un rapporto con il mondo.

Ma tutte le sicurezze fondate sull’inganno e sulle illusioni offrono una felicità e un conforto temporanei, sebbene vi sia un modo molto rozzo di guardare al mondo che è un modo molto più facile di vivere. Infatti esiste l’uso delle proiezioni, che è un modo molto infantile di usare il mondo e di manipolare la realtà che ci causa la ripetizione delle medesime situazioni. Questa maniera di vivere non costituisce un modo fluido di trattare con il mondo, poiché è un modo di vedere rigido che vede tutto in uno spazio congelato e solidificato.

Questo modo di vedere considera il mondo come una sostanza molto dura munita della qualità del metallo o della plastica, poiché tutto è artificioso e artificiale e anche i colori non sono visti come sono, perciò sono privi di luce e trasparenza, ma diventano colori plastificati e falsi come la barriera dualistica che ci rende ciechi al vedere completo. Questo non vuol dire che non siamo consapevoli delle qualità materiali, poiché sappiamo riconoscere se un muro è stato costruito con la pietra o il mattone, ma significa saper apprezzare le vere consistenze dei materiali.

La capacità di percezione che diventa necessaria, dice Chogyam, è assai più psicologica che fisica, perché si allude alla durezza mentale e alla qualità metallica che equivale a considerare il mondo solo nella sua versione solida, che è un modo assai interessante, perché questa percezione è molto individualizzata e riguarda il livello più centralizzato e il tema di fondo, perciò la nostra vera “coscienza del sé.” L’obiettivo finale è quello di sperimentare una “shunyata,” cioè una totale assenza di concetti e di etichette mentali, perciò il fine è la liberazione dalla barriera dualistica che limita la nostra visione.

Ma un obiettivo elevato è molto lento, perciò si costruisce facendo dei piccoli passi prima di poter giungere a vedere il pensiero con tutte le sue tinte e con tutta l’intensità della sua forza, in modo che la visuale divenga chiara e completa. Ogni processo del pensiero e dell’emozione avviene in un luogo che è privo di spazio infatti è in nessun luogo, perciò il suo unico spazio è “lo spazio positivo degli abili mezzi, e dell’operare con le situazioni di vita quotidiana.” L’aspetto positivo delle emozioni e il loro potere creativo avviene tramite lo spazio dell’esperienza, anziché attraverso il loro prodotto: se non abbiamo problemi con la percezione dello spazio anche l’emozione cesserà di creare dei problemi.

Questo processo positivo significa essere “una sola cosa con le emozioni,” che è un’alleanza preferibile al conflitto, infatti la repressione porta alla compressione energetica che causerà l’esplosione della reazione di ciò che viene oppresso. L’opzione diversa è quella di farsi trascinare, perciò consentire l’accesso all’emozione per essere completamente trascinati fino a perdere ogni riferimento e ogni controllo mentale restando in completo asservimento della confusione di mente e di materia. Probabilmente l’espressione espressa in modo totale diventa un modo per alleviare la tensione facendola sfogare, ma l’indulgenza rafforza il difetto rendendolo ancora più potente, perciò è sicuro che così non potremmo costruire alcun controllo sulle nostre emozioni.

L’unico modo intelligente di agire sulle emozioni è quello di entrare in contatto con “la loro sostanza fondamentale, con la loro qualità astratta,” infatti la loro essenza fondamentale è l’energia: la qualità dell’emozione è sempre l’energia. Se impariamo a gestire tutte le forme di energia con cui entriamo in contatto anche l’emozione cesserà di essere un problema, poiché quando esiste un rapporto non c’è paura di sostenere un confronto, infatti restiamo rilassati e abbiamo la tranquillità e l’agio di poter vedere chiaramente la questione.

L’ultima fase con cui si struttura l’ego è quella in cui entra in gioco la coscienza e i concetti mentali, perciò diventa evidente che essi non possono essere eliminati, ma che dobbiamo saper vedere le cose per come sono per diventare abili a trasmutare le loro confuse qualità, in qualità che siano trascendenti. Chogyam Trungpa ci ricorda che l‘ego non è obbligatoriamente un nemico, poiché esso fa parte di noi perciò non possiamo attaccarlo e ucciderlo, poiché sarebbe l’esito letale dell’organismo suicida.

L’ego è assai potente perciò sa trasformare in solida materia anche la sostanza eterica più sottile, ma la spiritualità non prevede nessun atto di lotta e nessuna guerra, poiché lo spirito è amore perciò è nonviolenza. La nostra scissione è prodotta dall’unica barriera che non può essere abbattuta a colpi d’ariete, perciò è il nostro ego che deve imparare ad adattarsi e deve imparare a pensare in modo più fluido e creativo.

Il buddismo usa l’immagine del ruggito del leone per onorare questa coraggiosa intenzione, poiché la volontà di lavorare sul caos per ripristinare l’ordine è la capacità di saper padroneggiare ogni situazione. Quando arriva il leone ed emette un ruggito si ristabilisce l’ordine nel serraglio animale che era in fermento, perciò il leone ripristina la sua signoria, poiché afferma una indiscutibile superiorità rispetto agli altri animali. Saper riportare l’ordine diventa possibile se impariamo a usare le nostre percezioni sensoriali per acquisire una nuova sensibilità e sappiamo analizzare il fluire delle nostre emozioni.

Questa cognizione ci offre una visuale evolutiva completa, poiché le emozioni si possono vedere, ascoltare, odorare, toccare e trasmutare, in quanto esse non possono essere evitate ma devono passare nel fine setaccio della nostra percezione più profonda. Nel vedere le emozioni vi è consapevolezza che esse richiedono uno spazio per svilupparsi, poiché questo dato è oggettivo e non richiede alcuna spiegazione, in quanto nell’uomo avvengono le emozioni e questo va accettato come caratteristica del genere umano.

Quando impariamo ad ascoltare come nascono le nostre emozioni impariamo a sentire la pulsazione delle energie che salgono, perciò sentiamo l’ondata energetica che cresce come una marea, infatti sappiamo indagare il punto da cui hanno origine e conosciamo il tipo di percorso che attuano quando fluiscono verso di noi. Nell’odorare le emozioni c’è una similitudine nella capacità di apprezzare un cibo sapendo valutare l'odore, perciò significa saper prevedere se il cibo è buono dal fatto che l'odore è gradevole: l‘olfatto aiuta l’appetito, perciò il buon odore fa intuire se un cibo è buono e se è adatto al nostro gusto.

Imparare a toccare le emozioni significa che sappiamo percepire l’essenza della situazione, perciò sappiamo sentire una situazione in modo così concreto da poterla quasi toccare in modo concreto. L’energia delle emozioni non è una componente sbagliata o distruttiva, sebbene possa essere una modalità goffa e inesperta di far circolare il flusso energetico: ogni nostra manifestazione che sia attiva, passiva o avida, può diventare una modalità personale di approcciare al mondo, se la sappiamo trasmutare adeguatamente. Trasmutare non significa voler cambiare la qualità fondamentale delle emozioni infatti, come nella pratica alchemica del trasmutare il piombo in oro, non si rifiuta la qualità fondamentale del materiale, ma si diviene abili a modificarne l’aspetto e la sostanza.

E’ così che si percepiscono equilibratamente le emozioni, poiché non possiamo lasciare che l’emozione giunga per travolgere ogni cosa, poiché l’emozione sa strappare ogni ormeggio e rende necessarie delle credenziali che ci rendono schiavi e vittime dell’odio o dell’amore. Illudersi di poter vivere senza provare delle emozioni è come fare un gioco suicida, perciò appare più strategico e opportuno imparare a direzionarle. Diventiamo vittime delle emozioni quando ne siamo devastati, perciò quando perdiamo la testa e il caos viene a sommergerci, perciò nascono l’aggressività e la depressione che sono le reazioni estreme della mente infelice.

Trasmutare significa avere il coraggio di andare fino in fondo, significa non avere paura di lasciarsi andare e sapere come poter cedere all‘emotività, infatti quando l’emozione giunge non ti ripari e non la rifiuti ma corri per accoglierla come una parte intima e gradita. Le nostre emozioni non sono delle estranee, perciò non possiamo temerle o combatterle essendo una nostra componente, infatti possono diventare una parte manovrabile. Le nostre emozioni assomigliano alla danza, perché la danza sa rendere armoniose e fluide tutte le parti del nostro corpo, così deve diventare anche la collaborazione tra noi e le nostre emozioni in modo che possa risuonare un ruggito da leone.

Ogni volta che cessano le resistenze interiori si crea un’onda ritmica, poiché la musica e la danza sono sempre unite: tutto ciò che è inserito nel ritmo samsarico è composto di sostanze che possono essere trasmutate, ma il nostro egocentrismo ci spinge a costruire delle toppe con cui rinforziamo le lesioni delle nostre armature interiori. Ogni toppa che aggiungiamo ci rende sempre più problematico il movimento, soprattutto se rinforziamo le giunture degli snodi energetici: ogni nostra preoccupazione è rivolta a salvare le apparenze delle credenziali, perciò rattoppiamo le nostre armature e rinforziamo le strutture che possono franare.

L’uomo può restare mummificato nelle sue protezioni, poiché le toppe possono impedire ogni movimento e renderci immobili come cadaveri, perciò possiamo costruirci una protezione che sia totale, sebbene possa risultare troppo poco pratica. Con il ruggito il leone affermiamo che siamo in grado di dominare la sostanza delle nostre emozioni, infatti ne riconosciamo ogni sfumatura poiché è fatta della nostra materia, perciò la sappiamo padroneggiare come un territorio su cui esercitiamo un pieno dominio.

Nell’arte indiana si rappresenta il ruggito del leone con quattro leoni uniti nel dorso e con il viso rivolto nelle quattro direzioni per simboleggiare un procedere privo dell’essere, perciò il saper camminare senza un dorso. Una persona priva di paura può andare ovunque, perché il suo procedere possiede la sicurezza interiore che si irradia in ogni direzione. L‘immagine dei Buddha dalle mille facce o dal milione di volti che guardano in ogni direzione esprimono il concetto della consapevolezza panoramica che vede ovunque, perciò non possiede alcun lato da cui un nemico possa attaccarla di sorpresa.

Il ruggito afferma il coraggio di saper sfruttare ogni cosa della vita, poiché nulla è buono o cattivo ma tutto diventa utile se sappiamo renderlo fruibile, perciò ricercare delle credenziali appare un gioco inutile e ridicolo. La vita diventa completa se la vediamo come un pranzo, infatti se abbiamo fame vogliamo avere velocemente un cibo e non abbiamo tempo di leggere un menù. L’assonanza con la vita è nell’imparare che dobbiamo saperci nutrire di ogni cibo che troviamo, poiché non sempre possiamo scegliere dal menù, ma possiamo imparare come elaborare le sostanze per rendere commestibile tutto quello che la vita ci offre.

Quando il leone fa risuonare il suo ruggito ci comunica che ha imparato a fare l’elaborazione anche senza l’aiuto di una fonte esteriore, poiché se la funzione si è ben stabilizzata la capacità relativa si attiva in modo automatico, perciò sappiamo che è sufficiente che il leone giunga nella foresta per ristabilire la pace. Quando saremo diventati più abili arriveremo al punto in cui non avremo più bisogno nemmeno di ruggire per affermare la nostra autorità, poiché sarà sufficiente la semplice presenza del leone per riportare la pace nella foresta.

Buona erranza
Sharatan

giovedì 23 giugno 2011

Avviluppati nell’ego


“L’illusione in cui vivevi si dissipa.
La tua anima sanguina, ma la maschera cade,
e una menzogna finisce.
Perdi una gioia, ma acquisti una verità.
Di che cosa ti lamenti?”

(Gustave Thibon)

Chogyam Trungpa scrive che è facile seguire un approccio spirituale, soprattutto se pensiamo di ottenere la salvezza, la liberazione e se speriamo di manifestare dei miracoli con cui possiamo dimostrare di essere degli illuminati agli occhi del mondo. Ragionando così, rischiamo di restare incatenati alla “aurea catena della spiritualità” che, per quanto fatta d’oro finissimo incastonata con pietre preziose e rifinita con tarsie molto raffinate, resta pur sempre una catena che ci tiene prigionieri.

Molti approcciano alla spiritualità pensando di ottenere l’arricchimento dell’ego, perciò finiscono per impersonare un materialismo spirituale che è un processo evolutivo degno di un organismo suicida. Vi sono poi le lusinghe di ottenere il potere di risolvere i nostri problemi, perciò pensiamo di usare degli strumenti magici per risolvere i problemi di nevrosi, di depressione, di aggressività e i problemi affettivi e sessuali che affliggono gli uomini moderni.

E’ una grande delusione verificare che dobbiamo abbandonare tutte le nostre aspettative, perciò possiamo restare delusi e insoddisfatti scoprendo che è necessario abbandonare ogni impresa personale e ogni senso dell’ego. Per l’ego, l’illuminazione equivale al momento della morte, perché ogni “me” e ogni “mio” viene ucciso con la morte dell’osservatore. Seguire un sentiero spirituale è molto doloroso, poiché è un continuo atto di smascheramento, infatti l’illuminazione distrugge tutte le maschere di cui si riveste l’ego.

L’illuminazione toglie dal nostro volto ogni strato protettivo che vi era stato accumulato, perciò vengono tolti tutti i veli insieme alle maschere e ogni strappo diventa l'insulto e l'affronto all’importanza dell’ego e al nostro egocentrismo: l’illuminazione è la sconfitta dell’aspetto egoico. L’illuminazione richiede la rinuncia a ogni ambizione dell’orgoglio, perché lo smascheramento ci fa cadere sempre più in basso, finché si cade sulla terra come un soggetto infimo e come il più piccolo degli esseri.

Per diventare adatti all’evoluzione spirituale è necessario divenire come un granello di sabbia che non coltiva delle ambizioni o delle aspettative, perciò non ha bisogno di fronzoli ornamentali: è solo così, dice Chogyam Trungpa, che la pratica spirituale acquisisce un’utilità concretamente utilizzabile. L’approccio alla vita deve essere semplice e diretto in modo che restiamo ricettivi agli insegnamenti che giungono da un fatto, da un individuo oppure da una lettura: ogni cosa deve poter diventare un insegnamento per migliorare la qualità della nostra vita.

Ogni cosa diventa una conferma e un incoraggiamento, poiché non esiste una lusinga che possa corrompere l’umile granello di sabbia. Dal punto di vista dell’atomo di polvere che è situato nello spazio infinito dell’universo, tutto è luminosità e spazio, poiché lo spazio è così vasto che il granello non può frenare o impedire nulla: il granello non vuole essere considerato, perciò nulla gli manca. Se siamo in grado di diventare come questo granello, insegna Chogyam Trungpa, possiamo diventare l'imperatore del mondo.

L’uomo si aggrappa a tutto, perciò lotta per impedire che la trasformazione lo ponga davanti a quello che muta, infatti la trasformazione deve iniziare con la morte del vecchio per dare spazio al nuovo, che è anche il vero significato del detto di Gesù: “Lasciate che i morti seppelliscano i morti.” Sappiamo che è necessaria la fine delle cose che sono giunte al termine, affinché possa restare spazio per la nascita di cose nuove e migliori, ma resta la nostalgia del cordone ombelicale da cui siamo stati separati, perciò resta percepibile e innestata nel nostro dolore e nel disagio interiore che sono latenti nell’uomo.

Anche l’abbondanza non può evitare che emerga il doloroso sottofondo con cui l’uomo conosce l'incompletezza, perciò sperimentiamo un dolore che ascende usando una scala con tre gradini. Il primo dolore, dice Chogyam Trungpa, è quello fondamentale che conosciamo nella scissione primaria, ma impariamo anche a conoscere quel dolore intermittente che nasce quando trasciniamo un fardello troppo oneroso, che solo per pochi attimi ci viene sottratto per essere ricollocato, subito dopo, sul nostro collo come uno giogo oppressivo.

Il dolore che si assomma è quello che sorge dall’insicurezza della vita sulla terra, perché è l’insicurezza che spinge all’attaccamento al mondo e che causa il nostro dolore più intenso. Queste tre forme di dolore sono quelle che l’ego sperimenta nelle varie fasi della sua vita e nelle situazioni in cui si confronta con il mondo e con le sue trasformazioni. Queste sensazioni esistono sebbene cerchiamo di sfuggirle fingendo la felicità e la sicurezza, infatti il dolore può essere tanto pervadente da diventare un dolore permanente e continuo.

Lo sforzo illusorio di tenersi aggrappati alla felicità e al mondo sono le condizioni esterne a cui l’ego si aggancia per esistere, infatti l'ego vive illudendosi di ottenere la continuità, poiché si rifiuta di credere che la vita sia transitoria e sia una continua evoluzione. Ottenere delle certezze è il sogno, perciò l’ego ci nutre di inganni e di finzioni con cui sa legarci alla materia tramite queste illusioni e confusioni da cui nascono tutti gli attaccamenti e l’aggressività che opprimono l'uomo: perciò diventiamo incapaci di apprezzare l’istante, che è l’unica vita e l’unica sostanza che si può trattenere concretamente.

Crediamo di vincere l’ego usando le mutevoli condizioni umane, pur sapendo che la loro discontinuità non può offrirci alcun appoggio sicuro, infatti usiamo un paradosso che non può offrire alcun riparo dalla sofferenza. E' essenziale conoscere come l'ego sa costruire i confini del suo territorio, poiché ci rende consapevoli dei meccanismi che usiamo per trasformare delle proiezioni in credenziali che sanno simulare una consistenza e un'importanza che nessuno deve millantare.

Le nostre incertezze ci spingono a ricercare solidità, perciò un punto di riferimento esterno e “qualcosa” di solido a cui ancorarsi: è qui che la burla diventa evidente, dice Chogyam Trungpa, sebbene l’uomo non sembra divertirsi affatto. La beffa è nel credere nella solidità del “me” opposto “all'altro.” Questa è la patologia umana che crea “fissazioni” basate sul nulla: infatti l'uomo crea la solidità usando l'esistenza di un "uno" che emerge per contrasto con lo "zero" che è il Tutto infinito, perciò l'uomo nega che la potenzialità infinita sia superiore alla singola manifestazione.

Ogni volta che cerchiamo solidità siamo sul bordo di consistenze fittizie nel samsara del ripetersi delle illusioni, e l'illusione è credere che possa esistere una solidità che sappia garantirci, per questo restiamo invischiati nelle beffarde illusioni del mondo. Lo scherzo cosmico è nell'illusoria costruzione di un senso concreto per una entità che non ne ha alcuna necessità, perciò avviene un processo di sviluppo dell'ego che il buddismo vede come un percorso in 5 fasi che vengono chiamate “skandha” o sezioni.

Secondo il buddismo l'individualità inizia a costruirsi quando impara ad usare questi cinque aggregati differenti che corrispondono ai cinque involucri che vengono sviluppati per strutturarci. L’ego nasce a causa della nostra ignoranza fondamentale, in quanto ignoriamo l’apertura, l’intelligenza e la fluidità dello spazio. Quando incontriamo delle lacune in cui percepiamo un vuoto temiamo che la nostra esistenza abbia dei lati inquietanti, perciò entriamo nel primo skandha, quando nasce il sospetto che qualcosa vada storto e che possano accadere fatti imprevisti. Questa sensazione attiva la reazione della catena karmica con la percezione di sensazioni di confusione e disperazione estreme e inspiegabili che sono avvertite nell’ansia.

La paura di perdere il sé e l’assenza dell’ego diventano la paura di una minaccia sconosciuta, perciò l’ego si aggrappa disperato al suo territorio e “congela” il suo spazio nella sua ignoranza che è testarda e ostinata. Scoprire l'assenza dell'ego causa il nostro rifiuto interiore di una realtà inaccettabile, perciò siamo disposti ad attaccarci a qualsiasi illusione possa aiutarci a negare l'inaccettabile.

Nella fase successiva facciamo il tentativo di tenerci occupati con delle cose che sappiano distrarre la nostra attenzione dalla solitudine, perciò chiudiamo la struttura della nostra catena karmica. Il karma dipende dalla relatività, poiché ognuno reputa come “sua” una cosa differente, perciò esso si ripresenta e si ripete sempre identico ogni volta che il medesimo contesto si ripresenta. Nel secondo skandha otteniamo la sensibilità e la capacità di percepire il ritorno delle nostre azioni, infatti impariamo che il voler confermare delle proiezioni interiori usando delle credenziali esteriori può inserirci in un circolo vizioso di ripetizioni infinite.

Nella terza fase sappiamo costruire tre comportamenti impulsivi con cui impariamo a gestire le nostre proiezioni, cioé l’indifferenza, la passione o l’aggressività. Nella strategia dell’indifferenza, la sensibilità che vogliamo evitare viene intorpidita, così da renderla inoffensiva, perciò ci forgiamo una armatura interiore che serve a questo scopo. La strategia della passione è come l’ossessione di prendere per divorare, poiché la passione funziona magnetizzando le sostanze, infatti cerchiamo di ottenere ciò di cui avvertiamo carenza, perciò allunghiamo i tentacoli per poter afferrare ciò di cui abbiamo bisogno.

La strategia aggressiva sorge dalla percezione di una minaccia alla nostra sopravvivenza, poiché avvertiamo che dobbiamo difenderci a ogni costo: ma questa strategia di povertà e carenza sorge dall'insicurezza interiore di poter difendere noi stessi e trattenere ciò che sentiamo "nostro". Dal terzo skandha nasce il meccanismo di “percezione/impulso reattivo” in cui l’ignoranza, la sensibilità e l’impulso che segue la percezione diventano il “nucleo” dei nostri meccanismi istintivi e delle strutture primarie usate per controllare il nostro terreno d’azione, perciò immaginiamo l’uomo come un radar che usa tre tipi di sensori funzionanti sia in modo autonomo che correlato.

Se l’ego fermasse la sua evoluzione e non trovasse delle forme più raffinate per controllare il corpo, saremmo degli antropoidi ancor più arretrati di come sembriamo, infatti l’ego non esisterebbe senza l’intelletto. L’ego non potrebbe perfezionarsi senza la creazione di concetti che possono dare un nome alle cose per riordinare le informazioni che riceviamo. L'uomo ha necessità di organizzare e incasellare il mondo per controllarlo, infatti strutturiamo le categorie mentali usando le etichette dei concetti per conservare il ricordo dei loro contenuti.

Nella quarta fase l'ego deve imparare a gestire le categorie mentali per poterle usare nel riordino del suo mondo, perciò nella fase finale sorge la necessità di un fissativo che perfeziona e che stabilizza le capacità che abbiamo acquisite. Questa funzione verrà svolta dalla coscienza, che è lo strumento più efficace che abbiamo, perciò costituisce il mezzo più idoneo per mantenere il contatto tra il nostro versante istintivo e quello intellettuale, infatti la coscienza riesce a completare la struttura con cui l'ego sa dominare il mondo.

Buona erranza
Sharatan

martedì 21 giugno 2011

Tu eri destinato


Tutto questo
è la preparazione a camminare nel mondo
come Luce.
Adesso sei stato trovato,
e il rincorrersi di molte vite è terminato.

A mano a mano che ogni strato di polvere
viene tolto
dalla superficie,
il Tu
che hai conosciuto

deve disperdersi.

Lascia che questa Luce divenga
il Tuo discorso & il Tuo silenzio.

Lascia che il dolore
che ha dimorato in te
muoia.

Lascia che le persone
che Ti amano
Amino Se Stesse.

Lascia che la terra tremi,
che le stelle brucino
che i cieli si squarcino
quando tu lo farai.

Per quanto dolorosa sia questa parte,
Tu eri destinato
a conoscere la tua Luce.


(Melanie Claire)

domenica 19 giugno 2011

Le vie del Sé


“Per prima cosa tutti voi non dovete credere a nulla,
e secondo non dovete fare nulla che non comprendete”

(Georges I. Gurdjieff)

C’è veramente bisogno di imparare le vie del Sé, di diventare sempre più intimi con i pensieri del cuore, di allenare la mente a lavorare con questi pensieri. E’ necessario accentuare la positività riguardo alle nostre capacità, è necessario accrescere la nostra compassione, andare verso la tolleranza, è necessario andare verso la creatività personale e verso la manifestazione dei nostri talenti: insomma dobbiamo avere una maggiore fiducia nel futuro.

Molti pensano che la conoscenza e la saggezza porteranno molti frutti spirituali, ma l’obiettivo diventa insostenibile se non sono rafforzate e illuminate dall’amore umano. Per questo il primo apprendimento è l’amore, ma quando si impara tramite cognizioni, queste ci rendono amabili e seducenti poiché aiutano l’esibizione della personalità e dell’intelligenza, ma la persona diventa sterile e fredda, poiché è priva dell’amore che trasforma l’erudizione in comprensione.

Nella cultura cinese vi è il simbolo taoista dello Yin e Yang, in cui il cerchio è diviso in una parte nera che ha un punto bianco al suo centro e una parte nera che ha un punto bianco: questo simbolo afferma che è vero che si distingue il nero dal bianco, ma la realtà è frutto di quell’equilibrio. Così dovremmo vedere la parte oscura di noi stessi, cioè la parte che percepiamo come la più miserabile.

E’ invece molto più diffusa l’immagine di una guerra tra i guerrieri della luce e i guerrieri dell’oscurità: è invece nella corretta interpretazione del simbolo taoista che dovremmo fare il riequilibrio tra i due aspetti. E’ in questo riequilibrio che va inquadrato il lavoro da compiere sul sé ombra. E’ assolutamente impossibile negare l’aspetto predatore dell’animo umano, come è impossibile negare di poter provare gelosia, cupidigia, invidia odio e vendetta e tutti gli altri difetti e vizi, ma sappiamo anche che noi siamo tutt’altro e molto di più.

Nel lavoro sul riequilibrio tra le tendenze più infime a cui può giungere l’animi umano, perciò dagli abissi interiori fino alle vette delle aspirazioni più nobili è stato collocato il lavoro che l’uomo, sommo artigiano dell’architetto celeste, deve saper compiere su se stesso. E’ davvero una grande conquista vedere il lato oscuro del sé come una risorsa e non come un difetto, e sentire che abbiamo un cuore potente e coraggioso, perciò sentirsi come un leone che è capace di dominare. Questo è il passaggio che gli sciamani chiamano la scelta dell’animale totem a cui assomigliare, poiché dobbiamo scegliere se diventare il cacciatore-totem oppure il predatore assassino.

L’animale totem può muoversi furtivamente nei sogni e tornare indietro per riferire le notizie di altri mondi e di altre dimensioni, così può aiutarci nella nostra ricerca di verità. E allora tutti gli aspetti del nostro sé ombra non appaiono poi così sudici o disgustosi se usiamo il potenziale creativo ed evolutivo delle nostre tendenze interiori, e se li vediamo come aiutanti nella nostra ricerca.

I lati oscuri come quelli luminosi sono influenzati non dalla natura dell’essere, ma dalle emozioni che li alimentano, per questo va raffinato il livello delle emozioni facendo chiarezza sul miscuglio di emozioni che offusca e opprime la nostra mente. Per questo dovremmo egualmente raffinare i nostri desideri fisici e il nostro desiderio di ricerca della conoscenza. In questo modo passiamo dal regno del dualismo yin e yang al ritmo dell’armonioso fluire dell’energia che circola liberamente in tutti i nostri chakra.

Finché non c’è il riequilibrio dei nostri lati oscuri con quelli luminosi vedremo le persone come catalizzatori negativi o positivi, infatti vedremo bianco o nero a seconda delle proiezioni che faremo sul mondo esterno e sulle persone, che è il modo indiretto di lanciare fuori il nostro lato luminoso e oscuro. Dobbiamo vedere in modo positivo anche quei momenti di buio in cui pensiamo che non possiamo farcela, perché nel momento vediamo che c’è un cattivo atteggiamento nel modo in cui siamo coinvolti, quindi abbiamo l’opportunità di migliorarlo.

Osserviamo quei pensieri e quei meccanismi che sono alla base dei pensieri, osserviamo i commenti che facciamo riguardo a quel tipo di pensieri, poiché spesso vi sono giudizi che vengono emessi sulla qualità del pensiero. Scopriremo che possono esistere delle voci che devono essere messe in un archivio segreto della memoria più profonda, ma queste voci non devono rimanere confuse con le voci che ci parlano tramite il sogno e tramite la riflessione.

In un archivio segreto e inaccessibile vanno rinchiuse le voci che parlano con parole che non sono le nostre, cioè tutte le voci dei genitori, dei guardiani e dei censori, dei profeti e delle autorità esteriori, perché l’unica voce che dobbiamo ascoltare, quando facciamo il riequilibrio interiore è una presenza interiore amorevole e compassionevole. Ma le vie dell’amore sono difficili, per cui spesso sono usate le forme del trauma per richiamare alla coscienza gli elementi che ci indeboliscono in modo che il dolore diventa un fissativo che rafforza l’attenzione su quello che ci distorce e confonde.

L’equilibrio del sé richiede il coraggio di superare sfide molto dolorose, ma nulla possiamo fare se non siamo innamorati di noi stessi, poiché è necessario innamorarci di noi stessi per poter vedere con compassione all’alternarsi di luce e di ombre che sono nelle eclissi del bene e del male presenti nel carattere di tutti. Un sé che è squilibrato produce un blocco energetico e quindi un tipo di energia che funziona come catalizzatore per il tipo di lezione di cui l’entità ha bisogno per apprendere la lezione che è necessaria allo sblocco e quindi all’evoluzione.

L’evoluzione interiore del sé si compie tramite tutte le lezioni che vengono imparate, ma questo non ha nulla a che vedere con la precisione con cui si eseguono i compiti o con il livello di miglioramento di questa precisione. Il miglioramento è nell’essere dell’entità, nel modo in cui essa reagisce, nella libertà e nella spontaneità con cui offre il suo amore, nella cura che dedica a coloro che pensa, nelle cose con cui occupa la sua mente, e negli ideali e nei sogni che gli stanno a cuore: il miglioramento dell’essere è nella capacità di creare luoghi di luce a cui può spingere il suo spirito.

Questo è il motivo per cui scrivono che l’equilibrio non giunge per coloro che si illudono di dirigere con abilità e con precisione la loro vita ma giunge per chi sa amare profondamente. Per questo motivo nessun equilibrio e nessuna saggezza viene dal pensare di avere come unico fine l’equilibrio stesso, poiché nessuno conosce se stesso fino in fondo, in quanto il sé è sempre cieco. Ricercare l’equilibrio è il fine, ma può nascondere l’insidia nell’orgoglio di credere di possedere la saggezza, perciò diventa l’arroganza del possesso delle verità assolute.

Siamo parte dell’energia, siamo un aspetto della consapevolezza, noi siamo un magma incandescente che si raffredda perdendosi nelle false concezioni del mondo che ci privano della nostra potenza. Per questo le nostre azioni possono perdere la loro efficacia e possiamo divenire dei continenti sconosciuti a noi stessi se crediamo di conoscere ciò che possiamo diventare. Ricordiamoci che siamo la scintilla di una luce più grande, che è molto più grande di quanto si possa percepire e che è in continuo miglioramento, poiché siamo in una realtà che è in espansione.

L’uomo teme di guarire dalla dualità, poiché vede l’evoluzione che è una via infinita come un percorso che richiede lo sforzo della volontà e l’esercizio di crescenti competenze, perciò l’uomo teme il suo risveglio, poiché non ama sottoporsi alla disciplina. Dobbiamo sapere che l’uomo muore solo quando gli diventa impossibile di poter lavorare al suo raffinamento, perciò solo l’amore per il nostro raffinamento ci deve dare la gioia di continuare.

L’uomo non deve sentirsi imperfetto e indegno perché il peccato non esiste, infatti l’uomo pecca solo quando non riesce a destarsi dal sonno, perciò non può colpire il suo bersaglio. L’uomo vive addormentato nei suoi sensi offuscati, per questo dobbiamo ricordare che è l’amore per questo lavoro che ci offre la gioia di fare. L’uomo deve migliorarsi perché ama farlo e perché deve sentire nel cuore, nella mente e nello spirito l’amore di essere il fiume armonioso che scorre verso l’oceano.

Buona erranza
Sharatan

mercoledì 15 giugno 2011

Risorgere dalla radice terrestre


“Siamo disposti o no ad ammetterlo,
noi siamo piante che devono crescere radicate nella terra,
se vogliamo fiorire nell’etere e dare i loro frutti”

(Johann Peter Wenzel Hebel)

Gurdjieff paragona la condizione umana a quella del prigioniero che deve diventare consapevole della sua prigione poiché, se l’uomo non sa di essere in prigione non può attuare nessun piano di fuga. Nessuno può tentare la fuga se non è insofferente alla sua prigione, poiché non possiamo liberare chi vuole restare dov’è, infatti nessuno può essere costretto a lasciare una condizione che non vuole abbandonare, perciò non possiamo considerare a favore ciò che ci si oppone.

Se l’uomo è insofferente alla sua prigione e se vuole scappare deve trovare chi è già evaso e gli può indicare la via e i mezzi adatti per l’evasione. Le potenzialità umane sono straordinarie, infatti l’uomo può aspirare anche all’immortalità, ma questo non significa che il progresso sia garantito e neppure che tutti ne siano capaci, per questo diventa necessario ricordare ciò che l’uomo può divenire, perché la “sequenza corretta del suo possibile sviluppo” ci rammenti le potenzialità straordinarie di cui siamo forniti.

La conoscenza ci fa acquisire maggiore modestia perché l’uomo deve smettere di millantare il possesso di qualità che è ben lontano dall’avere, infatti i progressi sono possibili, ma solo a costo di molta fatica e molto sacrificio. L’evoluzione richiede sforzi ma, soprattutto richiede degli sforzi che siano consapevoli dell‘obiettivo: la predisposizione a faticare è il requisito essenziale e l’interesse per il lavoro si verifica valutando il possesso di questa attitudine.

L’uomo deve faticare per lo sviluppo, infatti può definirsi completo solo quando possiede quattro corpi che sviluppa tramite delle sostanze sottili e raffinate. Questi corpi devono potersi sviluppare compenetrandosi uno nell’altro, perciò devono saper funzionare in reciproca relazione, ma devono essere anche capaci di funzionare in modo indipendente uno dall’altro, perciò devono essere sia collegati che autonomi. Sull’evoluzione sarà bene sapere che non può esistere un’evoluzione meccanica, perché possiamo evolvere solo sviluppando la volontà di voler lavorare in modo sempre più specializzato.

La possibilità evolutiva inizia dal corpo fisico, poiché esso possiede una organizzazione talmente complessa che ci permette di sviluppare “un organismo nuovo e indipendente” che offre alla nostra coscienza uno strumento più sensibile e più elevato del corpo fisico. L’evoluzione avviene se separiamo “il sottile dal denso” che è il lavoro specializzato a cui l’uomo si dedica quando possiede la consapevolezza della sua condizione e se possiede la volontà di voler cambiare.

Nella discriminazione tra denso e sottile vanno usati gli “idrogeni” delle nostre capacità migliori per portarle ad un livello ancor più elevato, perciò facciamo il raffinamento in modo sempre più accurato e come in ogni lavoro che è molto complesso potremmo anche non riuscire a conseguire dei risultati, ma il fatto di aver tentato lo sforzo diventa sufficiente per poter avere una possibilità futura, che non è un fatto scontato, poiché tutto va saputo meritare.

Secondo la concezione cristiana il primo corpo che possediamo è quello carnale, il secondo corpo è quello naturale dei sentimenti e dei desideri, il terzo corpo è quello spirituale del pensiero e il quarto corpo è il “corpo divino.” I teosofi dicono che il primo corpo è quello fisico, il secondo corpo è quello astrale dei sentimenti e desideri, il terzo corpo è quello mentale e il quarto corpo è quello causale che è il corpo della volontà di chi ripone in se stesso la causa delle sue azioni.

Gli indù usano la simbologia della carrozza e del cocchiere, perciò dicono che il primo corpo è la carrozza cioè l’involucro carnale, il secondo corpo è il cavallo delle emozioni, il terzo corpo è il cocchiere che è il pensiero, mentre il quarto corpo è il Padrone che è l’Io, la coscienza e la volontà.

Seppure con diversi termini la ripartizione è presente in tutte le dottrine però, tutti dimenticano di dire che l’uomo non nasce con i suoi corpi sottili e che tali corpi vanno coltivati in modo artificiale, perciò la coltivazione può essere ostacolata o facilitata da alcune condizioni.

Nulla si ottiene senza fatica e senza la discriminazione, infatti l’organismo deve saper elaborare le sue sostanze nutritive per portandole dallo stato grezzo in cui sono inutilizzabili a quello raffinato in cui si possono usare, sia in senso fisico che cosmico.

L’uomo deve rendere il suo corpo più raffinato, affinché anche la coscienza sia elevata agli stati più alti dei centri superiori: i nutrienti da usare sono le componenti del cibo che mangiamo, l’aria che respiriamo e le impressioni sensoriali, sebbene crediamo di poter mangiare solo i cibi che permettono la nostra sopravvivenza fisica.

L’uomo che funziona come una macchina dipende solo dalle sue impressioni esteriori, perciò tutto gli accade mentre egli vive passivamente rendendo vero il detto che: “Polvere sono e polvere tornano a essere.”

Gli uomini inerti sono degli organismi con materiali che muoiono e che sono sepolti, perché nulla resta dopo la loro morte: essi mangiano per mantenere un’apparente vita fisica, ma non hanno nulla che possa essere permanente e che sappia sopravvivere.

Solo se il corpo fisico produce delle sostanze fini che lo sanno nutrire egli può accrescersi, infatti può sfruttare le sue scorte energetiche per sviluppare il suo corpo astrale, ma la formazione richiede l’ulteriore accumulo di surplus di energia da usare per sviluppare il corpo mentale, perciò sono necessarie delle ulteriori sostanze raffinate di cui disporre per la costruzione del quarto corpo superiore.

Il nostro organismo deve saper produrre dei surplus crescenti facendo degli incrementi energetici per formare dei corpi che sanno dominano le strutture inferiori, fino al corpo superno che possiede delle capacità sconosciute e superiori.

Chiaramente l’evoluzione è possibile solo in determinate condizioni, poiché è un lusso anche saper sviluppare il corpo astrale, poiché non tutti possono tornare sulla terra per rivestire nuovamente l’involucro fisico, perciò questo dono non va disprezzato poiché l’incarnazione ci offre l’opportunità di completare l‘evoluzione.

Saper sviluppare un corpo astrale è essenziale, poiché esso sopravvive alla morte del corpo fisico e permette la rinascita: il corpo astrale permette una nuova incarnazione entro il tempo in cui resta permanente, infatti in seguito anche il corpo astrale deve dissolversi non essendo immortale.

Poiché il corpo astrale dura molto tempo dopo la morte del corpo fisico si crede che sia facile da ottenere, ma il suo sviluppo è un vero lusso, dice Gurdjieff. Ma se pensiamo che qualcosa sopravvive alla morte, poiché permane è solo perché l’uomo sa creare “qualcosa capace di resistere alle influenze esterne“ facendo una “cristallizzazione” che permette la permanenza di qualità che acquisisce.

La cristallizzazione si ottiene con la “fusione” in un nucleo interiore di prerogative che guadagniamo durante la dura lotta tra “si” e “no” e come frutto del duro lavoro interiore che è necessario per ottenere quello che può resistere per sopravvivere anche alla morte fisica. La cristallizzazione è costituita dalla “certa fusione delle qualità interiori dell’uomo: una certa indipendenza dalle influenze esteriori” prodotta per frizione, cioè come risultato della lotta delle nostre opposte tendenze.

Se l’uomo vive senza provare dei conflitti interiori, allora egli vive in modo passivo e meccanico, perciò tutto gli accade e lui vive seguendo la corrente, infatti è passivo in un mondo immobile, perciò tutto sarebbe immutabile.

Se l’uomo sente una rivolta interiore e sa lottare per andare verso una direzione che avverte come definita, allora riesce a sviluppare delle caratteristiche permanenti e specifiche, infatti inizia a cristallizzare queste particolarità: questo è lo strumento per costruire il nucleo che dobbiamo saper nutrire come un bambino e che permette il perfezionamento futuro.

La cristallizzazione è la capacità che usiamo per creare la forza interiore che ci rende capaci di sopportare ogni cosa pur di poter ottenere ciò che vogliamo, perciò rappresenta la determinazione di una volontà irriducibile. Dobbiamo anche sapere che questa capacità è indipendente dalla qualità del desiderio e dalla nobiltà dell‘obiettivo che ci siamo prefissati, in quando è possibile poter sviluppare qualunque facoltà se usiamo lo sforzo continuo, il lavoro e la determinazione di voler essere vincenti.

Solo la cristallizzazione permette di conservare le caratteristiche in modo indipendente dalle condizioni esterne e offre una consistenza che possa restare: tutte le sostanze che mangiamo ci sono necessarie per vivere, perciò sappiamo come usare il cibo e l’aria per conservare la vita dell’organismo. Abbiamo molta difficoltà a capire come i suoni, le immagini e gli odori possano plasmarci, infatti spesso ci dimentichiamo del fatto che l’energia possiede delle precise qualità di vibrazioni, perciò dimentichiamo che l’energia è un nutrimento.

Le impressioni sensoriali entrano nel corpo come energie che ci nutrono impregnando il nostro corpo, perciò dobbiamo saper usare ciò che ci nutre sapendolo usare in modo adeguato e completo. L’impatto delle emozioni diventa lo shock che può stimolare una trasformazione, poiché senza stimolazioni non possiamo trasformare dei vili metalli in oro, perciò resteremmo dei materiali inerti.

Solo l’azione del mondo ci permette di produrre quegli idrogeni sottili che sanno fornire una consistenza alla sostanza che sarà cristallizzata, infatti senza cibo e acqua possiamo vivere molti giorni, ma senza aria e senza impressioni sensoriali resistiamo pochissimo tempo.

Il flusso delle impressioni sensoriali funziona su di noi come una puleggia che è collegata all’albero motore, perché il mondo ci offre sempre l’impulso per evolvere: Il motore è il mondo circostante e la natura che ci trasmettono il loro movimento energetico usando le impressioni sensoriali con cui ci sottraggono all’inerzia. Tutto quello che esiste possiede uno scopo e una finalità evolutiva, perché tutto l’universo è in evoluzione, perciò tutto insegna come poter andare verso la nostra meta se impariamo ad applicare la legge dell’ottava a tutto quello che accade nella nostra vita.

Buona erranza

Sharatan

domenica 12 giugno 2011

Il sogno dell’anima


“Il dubbio cresce con la conoscenza”
(Johann Wolfgang von Goethe)


La realtà assoluta è Coscienza allo stato puro, poiché essa include tutto essendo più assoluta della luce che varia d’intensità se è modificata la sua velocità: la Coscienza è più assoluta della materia che è la manifestazione dell’energia, poiché anche l’energia è prodotta dalla vibrazione della Coscienza. La scienza cartesiana afferma che la coscienza è il prodotto dell’attività cerebrale, infatti lo esprime nel detto: “Penso dunque sono” con la teoria che è l’attività cerebrale che produce la consapevolezza.

Nelle filosofie orientali si crede che la consapevolezza discende dalla Coscienza pura per produrre il pensiero, infatti per pensare è necessario avere una coscienza, perciò una tale concezione richiede una disposizione mentale inconsueta per la nostra struttura mentale. Secondo queste filosofie, il pensiero è presente anche in assenza del cervello fisico, e la realtà può essere non solo reale ma anche potenziale: nulla si potrebbe manifestare se non fosse insita una potenzialità di attivazione di quella determinata realtà.

Se non ci fosse un’energia potenziale non ci sarebbe movimento perciò sarebbe assente anche l’energia cinetica, e anche la vita sulla terra non ci sarebbe se non si fossero concretizzate le condizioni che la resero possibile, perciò la vita sarebbe rimasta latente. La capacità di saper discriminare e l’intervallo tra latenza e potenziale d‘azione, perciò l’assenza di percezione oppure la piena comprensione è resa possibile dalla capacità di avere la percezione spirituale, perciò dal possesso della sensibilità alle sfumature più raffinate.

La Coscienza è il prodotto e non è la causa della manifestazione materiale, infatti la coscienza può esistere anche attraverso l’attività del cervello, ma non ha la necessità della materia per poter esistere. Anche la fisica ci dimostra che non esiste alcuna differenza tra i minerali ed i tessuti nervosi, poiché entrambi sono responsivi alle stimolazioni sperimentali, sia pure nelle loro specifiche coscienze e con le loro particolari sensibilità.

La Coscienza usa il cervello per manifestarsi, perché per avere esperienze materiali deve usare la materia concreta, ma questo è possibile solo perché tale prerogativa è potenziale nell’organismo, perciò attualizzabile come una possibilità che è innata. Nella Bhagavad Gita è scritto che la Coscienza perfetta è ovunque e che nulla può alterarla, infatti il cervello è come una finestra da cui la consapevolezza si affaccia per osservare il mondo usando un punto di vista e una prospettiva che è particolare di quella prospettiva

Nell’uomo la percezione è condizionata e offuscata da un vetro spesso e appannato che impedisce di vedere con chiarezza le cose, perché quando la Coscienza si proietta nel mondo deve assumere una forma materiale, perciò deve usare le qualità e le caratteristiche di quella struttura per poter operare. Quando la Coscienza si manifesta come una forma minerale diventa solida, salda e immobile come la roccia, quando si manifesta nel mondo vegetale assume la forma dell’erba, dei fiori e degli alberi che hanno un movimento lieve e che conservano solo le tracce di una vaga e sognante “immaginazione cosciente.”

Nella manifestazione della struttura animale si sperimentano i movimenti del corpo e si percepisce l’intelligenza intuitiva che è insita nell’istintività, perché anche l’animale possiede una coscienza, ma solo l’uomo possiede la consapevolezza che sa trascendere il corpo e la mente. Solo l’uomo può andare oltre la sua forma fisica e crescere all’infinito sapendo salire fino alla Coscienza superiore, poiché questo non ci è precluso dal fatto di avere una forma materiale

L‘uomo possiede delle potenzialità superiori che sono insite nella sua struttura primaria, perché gli vennero impresse come un marchio insieme alle sue personali peculiarità. Molte volte vediamo che l’uomo non è perfetto ma questo è irrilevante, poichè sappiamo vedere oltre la fisicità, perciò possiamo conoscere superando l’illusione della materia. I maestri ricordano che non abbiamo delle parti ritenute come superiori o inferiori, poiché dobbiamo saperci espandere solo in relazione al nostro sé, perciò come una coscienza che trova l'evoluzione solo a partire da se stessa.

Per questo dobbiamo ritornare verso il nostro centro che è anche la verità comune a ogni insegnamento spirituale, infatti Gesù disse: “Il Regno di Dio è dentro di voi” (Luca 17,21). Anche la scienza ci dimostra che l’universo ha iniziato la sua espansione solo in relazione a se stesso e che l'espansione continua, perciò così agisce anche la coscienza umana. L’uomo deve saper dirigere correttamente le sue espansioni e le sue contrazioni interiori per agire sul mondo, poiché l’uomo è l'artefice del suo destino

La coscienza umana si espande e si contrae seguendo l’impulso dei sentimenti e delle emozioni, infatti l’uomo deve direzionare intenzionalmente le energie interiori e deve imparare come espandere al meglio il suo essere. I maestri ci insegnano che la via preferenziale è nell’attivazione dei centri superiori e dei sentimenti più sublimi, in quanto la forza dell’amore, della compassione e della tenerezza sanno elevare l’uomo e sanno attivare le sue migliori potenzialità.

Se la nostra energia viene contratta dalla negatività della paura, della rabbia e della violenza siamo nella trappola delle regioni inferiori, poiché quei veleni distruggono la nostra pace e ci lasciano nella desolazione del nulla: questa condizione è simboleggiata nella cacciata di Adamo che non sapendo bilanciare le opposte tendenze del bene e del male perse il suo Paradiso. L’immagine illustra anche l’opposizione tra i nostri impulsi inferiori e quelli superiori, che rappresentano l'opportunità di potersi espandere all’infinito, poiché l’elevazione diventa possibile se sappiamo attivare l'ottava superiore in tutte le situazioni.

L’inferno è vissuto nei livelli più bassi della coscienza essendo annidato come un serpente energetico nei chakra inferiori, infatti essi sono collegati al nostro sviluppo primitivo che reca l’impronta degli istinti primari, perciò non possiamo trascenderci se non sappiamo orientarci verso i chakra più elevati. Con il ripristino dell'equilibrio energetico possiamo giungere nella Coscienza che è pura, poiché usa la Luce dell'intelligenza che sa illuminare discriminando oltre le apparenze con la consapevolezza dell’Essenza suprema.

Nella nostra spina dorsale è impressa la mappa per il ritorno, perciò conserviamo in noi la nostra memoria, infatti la spina dorsale è il tunnel che è usato dall’energia per circolare nel microcosmo umano ed è il medesimo percorso che la coscienza può usare per risalire. L’uomo percepisce l’inquietudine dell’anima che preme, infatti la materia è oppressa dalla memoria del suo Paradiso perduto e vuole ritrovare la beatitudine della Pura Coscienza.

Questa nostalgia ritorna nel sogno dell’anima che conserva questa memoria nostalgica, infatti l’anima soffre per la scissione sperimentando la prigionia della materia nella depressione, nella tristezza e nella disperazione. Ricerchiamo affannosamente la felicità con l’accumulo della materia per la sua solidità tangibile sebbene la materia non offra la sazietà, infatti sviluppa l’avidità dell’accumulo della sostanza così poco appagante. Per fuggire la fame consumiamo il cibo, i soldi, il sesso e il potere diventandone schiavi non sapendo essere i padroni dei nostri averi.

Concentrando le nostre energie nel conseguimento del piacere in cui l’amaro prevale sul dolce anche la sofferenza può divenire un piacere, perché l’uomo può amare anche la privazione se viene addestrato così, e se questa opinione viene accettata intimamente. L’incarnazione ci assoggetta alla materia con l’illusione dei nostri limiti fisici e mentali perciò la materia può limitare la nostra espansione, se riesce a tenerci assoggettati nei vincoli del corpo e della mente.

La materia ci rende poco percettivi perché ci struttura usando delle sostanze pesanti, perciò l'evoluzione è cercata dall’anima che rivuole ciò che ha perso. L'uomo oltrepassa la sua percezione ordinaria quando usa equilibratamente la concretezza e l'astrazione, infatti possiamo pensare le presenze intangibili sentendole interamente come presenti e concrete, perciò possiamo usare questa capacità per costruire un paradiso nel nostro cuore e così possiamo ritrovare la nostra beatitudine originaria.

Buona erranza
Sharatan

mercoledì 8 giugno 2011

La voce della sabbia


Un vecchio fiume si ritrovò davanti alla sabbia del deserto, dopo aver perduto la sua strada: da giovane era disceso dalla montagna con forte impeto procedendo maestoso e potente mentre percorreva delle ampie vallate e scorreva nelle città, conoscendo genti, vedendo animali feroci e osservando i fatti mirabili che erano accaduti lungo le sue rive. Aveva percorso il lungo cammino scorrendo sempre fiero e nobile, finché la malasorte lo aveva condotto a quel vicolo cieco, perciò il fiume si commiserava e si chiedeva di quale peccato orrendo si fosse macchiato per dover finire i suoi giorni trasformato in una putrida palude.

Aveva provato a spingere un suo piccolo rigagnolo verso la sabbia per vedere se quell’immensa distesa di sabbia si potesse superare, ma la sabbia aveva assorbito l’acqua e il fiume si era ritirato terrorizzato: pensare di attraversare il deserto era pura follia, concluse sconsolato. Non vedeva modo di oltrepassare quella distesa di morte, perciò si disperava davanti all’ostacolo insormontabile. Mentre provava, con altri tentativi, di oltrepassare il deserto, sentì una voce sommessa che proveniva dalla sabbia che gli sussurrava: “Se il vento può volare oltre il deserto, anche un fiume lo può fare!” A quella flebile voce, il fiume rispose, obiettando, che le acque non sanno volare come il vento.

Allora la voce delle sabbie gli suggerì: “Lasciati andare alle dolci brezze e affidati alle correnti. Lascia che il vento possa assorbirti per portarti oltre le sabbie.” A quelle parole il fiume sentì nascere una forte ribellione interiore non volendo lasciarsi condurre da un elemento così imprevedibile. Come poteva lasciarsi dominare dall’aria, lui che era sempre stato un elemento di terra? Le sue onde avevano creato cascate, le sue correnti avevano spinto mulini, le sue acque avevano irrigato i campi, da lui il mondo solido aveva tratto la vita, poiché aveva fertilizzato i campi coltivati dagli uomini.

Quella era la sua vita, quello era il suo cammino e non voleva mutare la sua sorte, poiché sapeva che lo attendeva un futuro ancora più glorioso: non era assolutamente disposto a farsi assorbire e trasformare perché il suo destino era di attraversare il deserto. La voce delle sabbie tornò a sussurrare: “Ascoltami! La vita è una continua trasformazione, perciò fatti raccogliere dal vento e fatti trasportare oltre il deserto. Quando avrai superato l’immensa distesa di sabbia potrai ricadere sulla terra sotto forma di pioggia. In questo modo sarai di nuovo un fiume.”

Ma il fiume ebbe paura e urlò: “Non posso farlo, ho paura. Non l’ho mai fatto e rischio di non essere mai più un fiume, io voglio restare come sono!” E la voce incalzò: “Non puoi farlo, ricorda che tutto è metamorfosi! Se parli così vuol dire che sei un fiume ignorante, perché ignori la tua vera natura. Il tuo corpo di fiume è una forma transitoria che deve cambiare, ma la tua parte essenziale resta e può essere conservata. Devi sapere che il tuo corpo è mutato tante volte, infatti tante volte sei stato portato dal vento a vivere nelle nuvole, e molte volte sei ricaduto sulla terra. Ogni volta hai superato tutti gli ostacoli: sei tornato a scorrere sulla terra e sei tornato come fiume, perciò non hai mai perso la tua individualità.”

Mentre la voce delle sabbie narrava, il fiume ascoltava in silenzio, poi sentì una sensazione struggente e il ricordo che affiorava simile ad una sensazione dall’aroma dolce e lontano, mentre nella sua mente passarono delle ombre. In lui emersero le immagini in cui era cullato dal vento e veniva trasportato fino alle nuvole, e quel ricordo forse era suo. Perciò disse: “Forse mi ricordo di un sogno con le cose che mi dici. Ma non so se il sogno è quello o questo che ora vivo!” Mentre parlava sentì la voce del cuore che gli chiese: “E se questo sogno fosse il tuo cammino di vita? E se un sogno fosse l‘unico modo per non diventare acquitrino?”

Allora il fiume divenne leggerissimo e si trasformò in bruma per farsi afferrare dalle braccia del vento e volò oltre il deserto, mentre si faceva rapire dall‘estasi del volo lasciandosi portare verso una montagna dove il vento si fermò, mentre la voce del deserto diceva: “Guarda! Su quel magnifico prato su cui cresce l’erba faremo cadere la tua pioggia, poiché lì può nascere un ruscello che saprà diventare un magnifico fiume. Noi sappiamo il posto adatto per ogni cosa, perché conosciamo i mille volti della manifestazione, poiché noi siamo uguali e siamo identici in ogni luogo, infatti le sabbie conservano la memoria del mondo.”

La storia è tratta dall’insegnamento dei sufi e usa la metafora del fiume per indicare la vita, infatti la vita scorre come la coscienza umana che i sufi chiamano “il fiume di consapevolezza“ ancor prima di William James, poiché i sufi considerano la coscienza umana un fenomeno fluido, un movimento e non la credono adatta alla staticità. I sufi affermano che in ogni momento tutto cambia, il mondo, il corpo e il pensiero, perciò tutto l’essere è un flusso. Se cerchi di restare immobile allora diventi infelice, poiché il messaggio è quello di non avere paura del cambiamento che la vita presenta, perché da sempre la vita muta se vuole evolvere e così deve mutare la nostra consapevolezza.

Noi restiamo la trama dell’universo, perché l’essenzialità dell’uomo non scompare ma cambia la sua forma e la sua essenza rimane permanente, poiché l’uomo discende dalla montagna che è Dio, infatti l’uomo scende dall’alto e verso l’alto dovrà tornare. Nella vita la nostra origine è anche la meta del ritorno finale, altrimenti il cerchio non potrebbe essere chiuso, infatti l’appagamento viene quando ci sentiamo completamente integrati in tutti noi stessi, altrimenti corriamo il rischio di finire.

La consapevolezza ci spinge verso il deserto, che è il punto in cui sentiamo che siano scomparsi, perciò avvertiamo la mancanza di senso e crediamo di non avere più prospettive, perciò l’uomo conosce la condizione di disperazione dell'abbandono, che i mistici chiamano “la notte dell’anima.” Questo è il momento in cui può avvenire lo sviluppo dell’anima, poiché è dall’abbandono che troviamo la forza di superare il deserto, perciò moriamo a ciò che eravamo, e accettiamo di rinascere con una forma e un atteggiamento diverso.

Nulla può restare identico e tutto deve avere la spinta per evolvere, perciò il deserto e la privazione sono necessarie per far comprendere all’uomo che può avere il potere e il successo che desidera, ma restare con la sensazione di essere nel deserto, nella smania e nell’insonnia, poiché il deserto lo circonda ugualmente. Il nostro deserto è la mancanza di valori, il deserto dell’angoscia e dell’assurdità che troviamo nella vita, infatti solo dalla crisi e dal rischio della vita sorge l’opportunità di fare un salto evolutivo.

La crisi diventa un pericolo che viene evitato per merito di nuove strategie e di nuove forme di intelligenza: se la vita è mutazione, allora non possiamo sempre conservare lo stesso atteggiamento che abbiamo usato in passato, in quanto non potremo superare il deserto, insegnano i sufi. Se usiamo l’intelligenza, l’intelligenza ci fa comprendere che, se il problema è nuovo dobbiamo pensare a nuove soluzioni, altrimenti non avremo soluzioni: riuscire ad attraversare il deserto ci porterà delle splendide opportunità e una incredibile integrità.

L’uomo ricerca un nuovo corso per la sua vita, ma per averlo deve abbandonare le sue vecchie abitudini, deve lasciare il passato, deve mutare gli schemi di pensiero e deve acquisire una nuova consapevolezza. Ci preoccupiamo di lasciare ciò che conosciamo perché lo abbiamo collegato con noi stessi, infatti temiamo di perdere la nostra identità, ma dobbiamo sapere che la nostra essenza rimane, sebbene la nostra forma debba cambiare.

Nell‘abbandono, dicono i sufi, scopriamo che la nostra essenza non può essere persa, perché l’essenziale è ciò che è impossibile rinnegare, perciò non dobbiamo temere se la vita diventa maestra e ci toglie qualcosa, poiché ciò che ci viene tolto era la parte non-essenziale. La vita porta via solo ciò che non serve e ciò che non è stato mai nostro, e la cosa avviene che noi ne siamo consapevoli o meno: la vita ti offre ciò che sei e ti toglie quello che non sei. La gente cerca sempre delle ragioni logiche, ma la vita è solo nell’esperienza, la vita è come l’assaggio di cose diverse, altrimenti come potresti conoscerne il sapore?

Dissolversi per entrare nelle situazioni è come accettare la notte dell’anima, perciò è necessario anche saper trascendere e vedere le situazioni dall’alto: l’unica soluzione è essere nella vita per viverla, perciò farne parte per poter conoscere come trascenderla. Nella vita possiamo scegliere se cambiare oppure se diventare acquitrini: nella vita si può scegliere se essere un codardo oppure si può diventare il temerario che ha il coraggio di fare il salto quantico.

La scelta è possibile se abbiamo la convinzione di voler cambiare, poiché nel mondo che cambia non si può restare fermi. Sono i momenti di crisi che ci permettono di avere la svolta e di poter fare la scelta evolutiva, infatti è solo la paura del deserto che ci impone la scelta. Ma il salto avviene se l’uomo ha il coraggio di cambiare il modo di pensare e se accetta di essere trasformato in bruma, poiché il salto evolutivo è l’unica strada intelligente se l’uomo ascolta la voce dell’intuizione che può trasformarlo in un oceano di consapevolezza.

Buona erranza
Sharatan