giovedì 22 novembre 2018

Come comunicare?



“Le parole sono portatrici di comunicazione
e di cura solo quando sono parole leggere e profonde,
interiorizzate e calde di emozione, sincere e pulsanti di vita.”
(Eugenio Borgna)

Comunicare è entrare in relazione con se stessi e con gli altri; comunicare è trasmettere esperienze e conoscenze personali; comunicare è uscire da se stessi e immedesimarsi nella vita interiore di un altro da noi: nei suoi pensieri e nelle sue emozioni. Noi entriamo in comunicazione, e cioè in relazione con gli altri, in modo tanto più intenso e terapeutico quanta più passione è in noi, quante più emozioni siamo in grado di provare, e di vivere.

Se vogliamo creare una comunicazione autentica con una persona, se vogliamo davvero ascoltarla, non possiamo non farci accompagnare dalle nostre emozioni. In ogni forma di comunicazione, e soprattutto in quella terapeutica, l’io si confronta con un tu nell’orizzonte di un noi che si fonde, e trascende, l’io e il tu in una nuova dimensione dalla quale si esce cambiati, e non si è più quelli di prima.

Come comunicare? Si comunica con il linguaggio delle parole, con quello del silenzio, e con quello del corpo vivente. Le parole sono portatrici di comunicazione e di cura solo quando sono parole leggere e profonde, interiorizzate e calde di emozione, sincere e pulsanti di vita; ma gli orizzonti di senso delle parole cambiano nella misura in cui accompagnano al linguaggio del silenzio, e a quello della voce, degli sguardi, dei volti e dei gesti, che contrassegnano i modi di essere del corpo vivente.

Questi sono solo alcuni aspetti della comunicazione, che non è unicamente quella della vita quotidiana, ma anche quella terapeutica, nella quale è necessaria una radicale attenzione alle cose che si dicono, e che possono ridestare le più diverse risonanze emozionali in chi ascolta, e in particolare in chi attenda di essere curato. Ci sono parole, parole emozionali (le sole che contano), capaci di creare ponti di comunicazione fra chi cura e chi è curato, e ci sono parole incapaci di farlo: determinando fratture incolmabili fra noi e gli altri…

Nella definizione che ne è stata data da Hugo von Hofmannsthal, il grande scrittore austriaco dalla straordinaria sensibilità e dalle grandi intuizioni psicologiche, le parole sono creature viventi, ma anche, con una definizione ancora più smagliante, sono prigioni sigillate dal mistero, e ogni volta dovremmo essere capaci di aprire queste prigioni, di togliere loro i sigilli, di farne sgorgare i significati, e di scrutarne le cifre tematiche solo apparentemente oscure, e inesplicabili.

Le parole si modulano, cambiano, si modificano continuamente nelle situazioni in cui ci veniamo a trovare, e negli incontri che abbiamo in vita. Le parole non sono mai inerti e mute ma comunicano sempre qualcosa. Le parole sono impegnative per chi le dice, e per chi le ascolta, cambiano di significato nella misura in cui cambiano i nostri stati d’animo, e non è facile coglierne fino in fondo le risonanze.

Le parole, una volta dette, non ci appartengono più, e sono determinanti nell’aprire il cuore alla speranza, o nel condurli alla disperazione. Le parole cambiano il loro significato nella misura in cui si accompagnano al linguaggio del corpo vivente, del sorriso e delle lacrime, degli sguardi e dei gesti, e anche al linguaggio del silenzio: sì, anche il silenzio parla, bisogna saperlo ascoltare, ed esserne in dialogo senza fine.

Ma altre cose si possono dire delle parole. Le parole non sono di questo mondo, sono un mondo a se stante, ma sono anche creature viventi, e di questo non sempre siamo consapevoli nelle nostre giornate divorate dalla fretta e dalla distrazione, dalla noncuranza e dalla indifferenza, che ci portano a considerare le parole solo come strumenti, come modi aridi e interscambiabili di comunicare i nostri pensieri.

Ma le parole che ci salvano non sono facili da rintracciare. Ma, come trovare e come rivivere, le parole che salvano, e creano relazioni? La salvezza non può venire se non dall’ascolto, dall’ascolto del dicibile e dell’indicibile, che ci dovrebbe accompagnare in ogni momento della giornata, e in ogni situazione della vita. Se le parole non nascono dal cuore, se non sono leggere e profonde, gentili e assorte, fragili e sincere, fanno del male, e fanno del male i gesti che non sanno testimoniare attenzione e partecipazione.

Insomma, le parole che non fanno male, le parole che aiutano le persone che vivono nel dolore o nella disperazione non le troveremo mai se non siamo capaci di immedesimarci nelle loro emozioni, e di riviverle per quanto è possibile dentro di noi. Non ci sono ricette, non ci sono consigli, in questo campo, ed è solo necessario affidarsi alle antenne leggere dell’intuizione e della sensibilità personale.

Certo, non c’è comunicazione autentica in vita, nella vita sana e nella vita malata, se non quando si evitano parole indistinte e banali, ambigue e indifferenti, glaciali e astratte, crudeli e anonime. Le parole giuste, insomma, non possono se non essere quelle gentili e silenziose che non rimarcano le differenze, ma colgono le affinità fra chi soffre di disturbi psichici e chi non ne soffre: almeno in apparenza.

Costa fatica, costa tempo questa educazione alla partecipazione ai pensieri e alle emozioni degli altri, ma è dovere, un dovere inalienabile, farlo anche nella vita di ogni giorno; e quante infelicità, quante sofferenze si eviterebbero, e quante speranze animerebbero le relazioni di cura. Ma, ancora, quanta importanza avrebbe la cosa nel cuore delle famiglie nelle quali oggi non si comunica molto, non si ascolta molto, si creano relazioni in autentiche: incapaci di riempire il vuoto e la solitudine che dilagano nella vita di oggi. (Eugenio Borgna, Parlarsi, Einaudi)

Nessun commento: