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giovedì 8 dicembre 2016

Meditazioni sull’amore e sulla compassione



“L’amore è l’unica cosa che raddoppia
ogni volta che la condividiamo.”
(Albert Schweitzer)

Come coltivare l’altruismo? Il praticante buddista medita su quattro atteggiamenti mentali che devono essere accresciuti senza limiti: l’amore, la compassione, la gioia per la felicità degli altri e l’imparzialità. Meditare significa familiarizzarsi con un nuovo modo di vedere le cose. La maggior parte di noi non è affatto sintonizzata sulle onde dell’amore altruista. La nostra concezione della vita e le nostre priorità non considerano il benessere altrui come lo scopo principale.

La meditazione comincia con la compassione, la determinazione ad alleviare il prossimo dalla sofferenza e dalle sue cause. Evocare le molteplici sofferenze degli esseri viventi, in un modo il più possibile realistico, fa provare una compassione senza limiti. Mantenere la continua consapevolezza di queste sofferenze potrebbe però rischiare di farci sentire impotenti e scoraggiati: «Come potrò mai, da solo, rimediare a tanto dolore?»

Si passa allora alla meditazione sulla gioia, pensando a quelli che provano la felicità e possiedono grandi qualità umane e a quelli che hanno coronato con successo le loro aspirazioni costruttive. Allora si gioisce pienamente. Questa gioia rischia però di trasformarsi in cieca euforia. È dunque il momento di passare all’imparzialità, per estendere i sentimenti d’amore e di compassione a tutti gli esseri: amici, sconosciuti e nemici, senza distinzioni.

L’ostacolo che possiamo incontrare è quello dell’indifferenza. Ma ci soccorre l’amore altruistico, il desiderio ardente che tutti gli esseri possano trovare la felicità e le cause della felicità. Se questo amore si evolve nell’attaccamento, torniamo a meditare sull’imparzialità o sulla compassione. Facciamo in modo di sviluppare alternativamente questi quattro pensieri, evitando di cadere nei loro eccessi.

C’è poi un altro metodo che consiste nel lasciare che i pensieri si calmino, fino a raggiungere una condizione di vuoto interiore, per far emergere con chiarezza e forza un sentimento profondo di bontà e di compassione, che ci calma la mente. Ogni essere può raccogliere la totalità del nostro amore. Questo amore deve però associarsi alla comprensione dell’interdipendenza di tutti i fenomeni e di tutti gli esseri.

Compassione e conoscenza sono inseparabili come le ali di un uccello. Così come un uccello non può volare con un’ala sola, senza la compassione la conoscenza è sterile e senza conoscenza la compassione è cieca. Chi ha compreso la realtà ultima delle cose è in grado di sviluppare l’amore e la compassione al più alto livello.

Dalla conoscenza scaturisce spontaneamente una comprensione infinita verso chi, prigioniero dell’ignoranza, vaga nel dolore. La compassione del saggio rischiara senza abbagliare, e riscalda senza bruciare. È dovunque come l’aria.

Un giorno Patrul Rinpoche chiese a Lhuntok, uno dei suoi discepoli, di restare in una grotta a meditare sulla compassione. Inizialmente, il sentimento d’amore verso gli altri era un po’ forzato e artificiale. Ma, poco a poco, la sua mente fu conquistata dalla compassione. Sei mesi dopo, Lhuntok vide passare davanti alla sua caverna, un cavaliere solitario che cantando attraversava la valle.

L’eremita ebbe la premonizione che quell’uomo sarebbe presto morto. Il contrasto tra il suo canto gioioso e la fragilità dell’esistenza lo riempì di una tristezza infinita. In quel momento scaturì dalla sua mente una compassione vera, e non lo abbandonò mai più. Diventò una seconda pelle.” (Matthieu Ricard, Il gusto di essere felici, Sperling & Kupfer ed.)

martedì 15 luglio 2014

Esaltazione dell'ego



“In chi sa essere umile, la vampata d’orgoglio
si dissipa come bruma mattutina.”
(Dilgo Khyentse Rinpoche)

“L’orgoglio, esaltazione dell’io, consiste nell’infatuarsi di qualche qualità che abbiamo o pensiamo di avere. Sbarra il passo ai progressi personali, perché per poter imparare bisogna essere consapevoli della propria ignoranza. Come recita un adagio tibetano: “L’acqua delle qualità non rimane sulla roccia dell’orgoglio” al contrario: “L’umiltà è come un recipiente posato a terra, pronto a ricevere la pioggia delle qualità.”

L’umiltà è un valore trascurato nel mondo contemporaneo. Le riviste ci istruiscono continuamente su come apparire, affermarci e avere un atteggiamento vincente, tutto a scapito dell’essere. Questa ossessione dell’immagine che offriamo di noi è tale che non ci interessa quanto sia pertinente con la nostra persona, ma solo come ci fa sembrare agli occhi degli altri. Ora, quale immagine dare di noi stessi?

I politici e le persone di spettacolo dispongono di consulenti per la comunicazione, incaricati di costruire un’immagine che abbia successo presso il grande pubblico; a volte i consulenti insegnano persino come sorridere! Non importa se la facciata è il contrario di quello che si è veramente: l’importante è essere eletti, famosi, ammirati, adulati. I giornali dedicano sempre più spazio al mondo dello spettacolo , ai vip, alle cose in e a quelle out. Di fronte a questa orgia di frivolezza dell’io, che spazio ha l’umiltà? È una qualità da museo delle virtù desuete?

Il concetto di umiltà è spesso associato a una scarsa considerazione di sé e dei propri mezzi, alla depressione e al senso d’impotenza, se non a un complesso di inferiorità o alla sensazione di non meritare nulla. In questo modo si sottovalutano però i benefici dell’umiltà. Se la boria è l’appannaggio dello sciocco, l’umiltà è infatti la virtù di chi comprende quello che deve ancora imparare e il cammino che deve ancora percorrere.

Gli umili non sono persone belle e intelligenti che si danno da fare per sembrare brutti e stupidi, ma solo individui che non danno importanza al loro io. Non considerandosi l’ombelico del mondo, si aprono agli altri ponendosi nella giusta prospettiva dell’interdipendenza.

Sul piano collettivo, l’orgoglio si esprime con la convinzione di essere un popolo o una razza superiore, detentore degli autentici valori della civiltà, con il diritto di imporre il modello dominante ai popoli ignoranti. È questo un buon pretesto per “valorizzare” le risorse dei paesi sottosviluppati privandoli completamente di quel poco che possiedono. […]

Ma per quale motivo l’umiltà sarebbe una componente della felicità? L’arrogante e il narcisista si nutrono di fantasie lontane dalla realtà, quindi le inevitabili delusioni cui vanno incontro li portano a odiare se stessi per non essere stati all’altezza delle proprie aspettative, e danno un senso di vuoto interiore.

L’umiltà evita invece questi inutili tormenti grazie a una saggezza che allontana le sciocchezze dell’ego. A differenza dell’ostentazione, che ha bisogno di riscontri per sopravvivere, l’umiltà va di pari passo con una grande libertà interiore.

L’umile non ha nulla da perdere né da guadagnare. Se viene lodato, la considera una lode all’umiltà, e non alla sua persona. Se viene criticato, riflette che chi svela i suoi difetti gli rende il più grande dei servizi… e i saggi tibetani ci ricordano che “la migliore istruzione è quella che smaschera i nostri difetti nascosti.”

L’umile, senza speranza né timori, mantiene un’indole spensierata. L’umiltà, inoltre, è un atteggiamento fondamentalmente rivolto agli altri e al loro benessere. Alcuni studi di psicologia sociale hanno dimostrato che le persone con una stima eccessiva di sé presentano una tendenza all’aggressività superiore alla media.

È stato anche evidenziato un nesso tra umiltà e capacità di perdonare: chi si considera superiore giudica con maggiore durezza gli errori degli altri e non perdona facilmente. Per paradossale che possa sembrare, l’umiltà influisce positivamente sulla forza di carattere: l’umile decide in base a ciò che ritiene giusto e vi si attiene, senza preoccuparsi né della sua immagine né dell’opinione altrui. Come dice un detto tibetano: “Esteriormente è dolce come un gatto accucciato in grembo, ma interiormente è difficile da piegare quanto un collo di yak.”

Questa determinazione non ha nulla a che vedere con l’ostinazione e la testardaggine. È la lucida percezione dello scopo che ci siamo prefissati: inutile cercare di convincere un tagliaboschi che conosce perfettamente la sua foresta, a fare una strada che conduce al precipizio. L’umiltà è una qualità che ritroviamo immancabilmente nei saggi. È paragonata ad un albero carico di frutti, i cui rami si piegano verso il suolo.

Il vanesio, invece, assomiglia di più a un albero spoglio i cui rami si protendono orgogliosamente verso l’alto. L’umiltà non tratta mai nessuno dall’alto in basso. […] Spesso gli occidentali si sorprendono nel sentir dire a grandi eruditi e saggi orientali: “Non so niente, non ne suo nulla.”

Credono che si tratti di falsa modestia o di un’abitudine culturale. In realtà nessuno di questi saggi oserebbe mai pensare: “Sono un erudito.” Lo spontaneo disinteresse che hanno per la propria persona non gli impedisce però, quando viene posta loro una domanda specifica su un aspetto filosofico complesso, di rispondere volentieri e senza ostentazione, con la competenza delle loro conoscenze e della loro saggezza. Si tratta di un atteggiamento naturale che, se ben interpretato è toccante e talvolta anche comico, come dimostra un episodio di cui sono stato personalmente testimone.

Un giorno due dei più grandi eruditi del Tibet andarono a far visita a Dilgo Khyentse Rinpoche, che si trovava in Nepal. L’incontro di quelle persone straordinarie era piacevole, gioioso e vivace. Durante la conversazione, Khyentse Rinpoche chiese a entrambi di donare degli insegnamenti ai monaci del nostro monastero.

Uno dei due saggi rispose con candore: “Oh, ma io non so niente!” per aggiungere subito dopo, riferendosi al suo collega: “E nemmeno lui sa niente!” Aveva dato per scontato che anche l’altro erudito avrebbe risposto così! Cosa che fece annuendo con grande vigore.” (Matthieu Ricard, Il gusto di essere felici, Sperling Paperback, 2008)