martedì 12 luglio 2011

Il padre di Gurdjieff


"Sforzati sempre e in tutto di ottenere allo stesso tempo,
l’utile per gli altri e il dilettevole per te."
(Hodja Nassr Eddin)

Gurdjieff racconta che, nel corso dei suoi viaggi in Asia e in Africa, spesso veniva creduto “un mago e un esperto in questioni dell’aldilà” perciò, tutti coloro che lo conoscevano con quella fama si ritenevano in diritto di disturbarlo con le loro curiosità sull’aldilà e sui fatti della sua vita personale e sulle sue idee. Anche se era stanco si ritrovava a rispondere perché, altrimenti, si sarebbero offesi per la sua scortesia e lo avrebbero diffamato mettendo in giro delle maldicenze sul suo conto.

Perciò si era deciso a scrivere sia delle sue idee impostate come “materiale preparatorio costruttivo” nel racconto della sua autobiografia ma, per comodità, nel raccontare risponderà alle domande più ricorrenti che gli sono state rivolte dalla gente. Siccome la prima domanda è sempre quella che riguardava gli incontri con delle persone straordinarie aveva deciso di articolare il racconto in modo da poter rispondere a queste domande, ma soprattutto voleva rispondere alla prima domanda riguardo agli uomini straordinari.

In questo modo aveva la possibilità di poter rispondere alle curiosità future facendo il rinvio alla lettura del capitolo relativo al quesito, sebbene andrebbe specificato ciò che si intende per “uomo straordinario,” poiché ognuno ha le sue idee soggettive. Secondo Gurdjieff “può venire chiamato straordinario soltanto l’uomo che si distingua da quelli che lo circondano per le risorse del suo spirito e che sappia contenere le manifestazioni provenienti dalla sua natura, pur mostrandosi giusto e indulgente verso le debolezze altrui. Siccome il primo uomo di questo genere che mi fu dato da conoscere e la cui influenza lasciò una traccia sulla mia vita fu mio padre, è da lui che comincerò…”

Il padre era molto famoso come asowt, cioè poeta-bardo ed era conosciuto con il nome di Adas, nell’ampia zona tra la Transcaucasia e l’Asia Minore. Nella zona gli asowt erano molto rispettati e gli uomini che si consacravano a questa carriera potevano anche essere illetterati, ma dovevano avere una memoria e una vivacità di spirito così straordinarie da ritenersi prodigiose. Essi dovevano ricordare innumerevoli racconti e poemi, e cantare a memoria lunghe melodie, ma erano anche in grado di cantare abbandonandosi alle ispirazioni e improvvisando su temi determinati.

Non era difficile che avvenissero delle dispute accese che già nella sua infanzia erano diventate assai rare, ma aveva potuto sentire quei bardi ed era rimasto colpito dalle loro prodigiose memorie che gli permettevano di cambiare velocemente i temi e le cadenze per ritrovare la rima poetica al momento giusto. Molti venivano dalla Persia, dalla Turchia, dal Caucaso e perfino dal Turkestan e si esibivano davanti a un auditorio considerevole cimentandosi nelle dispute musicali in un torneo poetico organizzato seguendo una sua ritualità.

Nella gara veniva sorteggiato il cantore che poneva all’avversario un quesito religioso o filosofico, oppure lo invitava a spiegare un mito, una leggenda, oppure a spiegare una credenza molto diffusa: l’altro rispondeva facendo il componimento melodico nella lingua turco-tartara, che era la lingua comune diffusa in quei luoghi che avevano tutti dei diversi dialetti locali. La competizione poteva durare dei giorni, delle settimane e anche dei mesi, e finiva con la vincita di premi come bestiame, tappeti e altri oggetti offerti ai partecipanti da coloro che assistevano.

Nell’infanzia ebbe modo di partecipare a tre tornei di cantastorie, perché il padre veniva invitato a quelle serate in cui erano interpretate le leggende che suo padre raccontava anche in famiglia, infatti molte notti venivano trascorse con le storie dei grandi popoli dell’antichità e degli uomini straordinari del passato, con racconti su Dio, sulla natura e su ogni meraviglia, ma tutte finivano con un racconto tratto dalle Mille e una notte. Fra le storie sentite dal padre ce n’è una che restò nel tempo e che fu il “fattore spiritualizzante” che gli dischiuse “la comprensione dell’incomprensibile” e riguarda la “Leggenda del diluvio prima del diluvio” che fu al centro della discussione con un suo amico.

L’amico era l’arciprete della cattedrale militare, padre Bors, che era venuto per ascoltare il Canto XI della saga di Gilgamesh in cui si narra come la terra di Suruppak fu distrutta dalle acque: nell’occasione suo padre disse che la storia era precedente ai babilonesi, perché risaliva ai sumeri, perciò aveva ispirato il mito del diluvio biblico e dell’arca di Noè. Alla discussione era presente anche lo zio di Gurdjieff, e ben presto la disputa divenne così accesa da far dimenticare al padre di mandarlo a letto, poiché i due contendenti erano troppo impegnati: la controversia durò tutta la notte e produsse delle profonde impressioni per i contenuti che vennero discussi, infatti furono basilari nel suo pensiero futuro.

Dopo molti anni, si lesse sui giornali, che erano state ritrovate delle tavolette provenienti dagli archivi del palazzo di Babilonia, ed erano testi vecchi di 4.000 anni di cui si davano delle traduzioni, tra cui il famoso Canto XI della saga di Gilgamesh di cui aveva detto suo padre. Questa notizia lo colpì con una profonda “emozione interiore” unita al rimpianto di non avere prestato una maggiore attenzione alle antiche leggende sentite raccontare nell’infanzia. Dopo il fatto si ridestò la memoria delle storie di suo padre, ed esse gli produssero quei risultati che erano cristallizzati nel suo essere e che emersero come il “fattore spiritualizzante” che gli infuse la comprensione dell’incomprensibile.

Nelle leggende si narra dei tempi antichi di 70 generazioni prima dell’ultimo diluvio - e ogni generazione è di 100 anni – in cui le terre erano al posto del mare e il mare era nei luoghi in cui sono le terre, in cui visse una grande civiltà il cui centro era nell’isola di Haninn considerata il centro della terra, e corrispondente al luogo in cui è la Grecia. I soli sopravvissuti al diluvio furono i frati “imastown” cioè i membri di una confraternita che si erano riuniti in una casta che era diffusa su tutta la terra, ma il cui centro restava sull’isola: essi furono degli esperti astrologi che studiavano il corso delle stelle, perciò si erano diffusi nel mondo.

Per restare in contatto usavano un mezzo telepatico perciò usavano delle pizie che facevano da apparecchio ricevente, infatti entravano in trance per ricevere i messaggi degli altri imastown e li trascrivevano. A seconda del luogo da cui provenivano i messaggi venivano scritti nel verso che era convenuto, perciò le comunicazioni provenienti dall’est rispetto l’isola venivano trascritte dall’alto in basso, quelle del sud da destra a sinistra, quelle dall’occidente, che era Atlantide e i paesi delle Americhe dal basso all’alto, e da sinistra a destra ciò che proveniva dalle regioni europee.

Parlando del padre non si può tacere dell’amico Padre Bors, l’arciprete che fu suo primo precettore e uno dei due uomini che si assunsero l’onere di preparare un ragazzo incosciente alla vita, perciò essi sono le “due facce della divinità del mio Dio interiore” dice Gurdjieff. I due avevano un metodo particolare per disputare che il padre aveva chiamato “kastusilia” traendolo da una parola assira appresa dai miti, e il metodo consisteva in uno che faceva una domanda improvvisa e apparentemente assurda, mentre l’altro doveva dibattere a tono, usando la massima calma e lucidità, perciò fornendo una risposta logica e plausibile.

Ad esempio, una sera Padre Bors entrò nella bottega e chiese a bruciapelo: “Dov’è Dio?” mentre il padre rispose: “Ora Dio è a Sary-Kamys” perciò Padre Bors gli oppose: “E cosa sta facendo?” Il padre rispose che ora Dio stava fabbricando delle scale doppie, sulla cui cima metteva la felicità, perché su quelle scale potessero risalire e discendere tutti gli uomini e tutte le nazioni della terra. Domande così erano comuni tra quei due uomini straordinari sebbene, al tempo gli sembrassero tanto strane ma, quando si impegnò a risolvere quesiti simili, allora quel ricordo diventò molto prezioso.

Suo padre aveva la sua chiara concezione degli scopi della vita, infatti gliela ripeteva di continuo dicendo che l’uomo deve acquisire la propria libertà interiore e deve avere una buona vecchiaia: questo è l’imperativo primario ma richiede l’osservazione di quattro comandamenti, di cui il primo è amare i genitori, il secondo è conservare la propria purezza sessuale, il terzo è saper dimostrare la massima cortesia verso tutti, ma restare interiormente libero senza far conto su nessuno, e la quarta è amare il lavoro in sé e non solo per guadagno. Suo padre lo amava molto essendo anche il suo primogenito tanto che lo sentiva più come un fratello maggiore per tutte le conversazioni e le confidenze.

La famiglia paterna era di origine greca, ma i suoi antenati erano fuggiti da Bisanzio dopo la conquista turca, prima si erano rifugiati in Turchia e poi sulle rive orientali del Mar Nero, infine andarono in Georgia dove c’erano ottimi pascoli per il bestiame che allevavano. Suo padre aveva avuto l’eredità e si era trasferito in Armenia dove il suo cospicuo patrimonio lo rendeva uno dei più ricchi allevatori, finché prese in affitto i capi di bestiame dei vicini più poveri, come si usava fare nel posto, ma un’epidemia di peste decimò tutte le bestie. Il padre volle risarcire tutti del danno avendone la custodia e la responsabilità, perciò da ricco si ritrovò nella miseria più nera con una famiglia di sei persone con moglie, madre anziana e tre figli, di cui il maggiore era Gurdjieff che aveva 9 anni.

La famiglia prima viveva agiatamente, perciò il padre si diede al commercio di legname con annessa falegnameria, ma la scarsa esperienza lo mise in difficoltà, per cui lo zio li aiutò a trasferirsi a Kars. La famiglia si era intanto ampliata di altre tre sorelle minori, per cui non vivevano nell’oro e Gurdjieff aiutava in bottega per racimolare qualche soldo: ben presto divenne esperto di tutte le riparazioni che gli commissionavano. La vita del padre fu una “cornucopia di disgrazie” ma lui conservava sempre la serenità e il distacco dalle sue sciagure osservandole con quella tranquillità che è solo nei poeti, perciò la famiglia risentì di una calda atmosfera di concordia, di amore e dell’aiuto reciproco.

La capacità innata di saper trarre ispirazione dai minimi particolari della vita rendeva suo padre un continuo esempio, infatti era una fonte di coraggio per “la sua libera spensieratezza” ed emanava una felicità di cui potevano godere tutti i suoi familiari. Le sue idee sull’aldilà erano particolari infatti, quando Gurdjieff era adulto gli chiese di spiegare, senza “filosofeggiare” tanto la questione dell’anima, e suo padre negò di credere alla migrazione dell’anima, però affermò di credere che “qualcosa” si possa costruire durante la vita.

Il padre credeva che l’uomo nascesse con una facoltà grazie alla quale alcune esperienze elaborano “una sostanza definita” da cui si forma lentamente un “qualcosa” che acquisterà una vita indipendente dal corpo fisico, perché il “qualcosa” non si altera con il corpo, ma più tardi, seppure sia costituito dai medesimi elementi che costituiscono il corpo fisico. Il “qualcosa” possiede una materia molto più sottile e una sensibilità molto maggiore di quella corporea, ma reagisce a tutte le azioni che sono subite dal corpo, perciò resta assoggettato alla sua influenza prima e dopo la morte del corpo, finché non giunge una completa disintegrazione.

Pur amandolo teneramente il padre lo educò fin dall’infanzia con “persecuzioni sistematiche” per infondergli quegli impulsi che lo avrebbero aiutato nella vita adulta. Uno dei metodi educativi preferiti era quello di addestrarlo con le misure necessarie affinché invece degli impulsi di avversione, disgusto, ripugnanza, vigliaccheria e pusillanimità e simili, nell’animo del figlio fossero sostituiti dal sentimento dell’indifferenza nei riguardi di tutto ciò che desta quei sentimenti. A questo scopo gli nascondeva nel letto una rana, un lombrico, un topo oppure ciò che poteva destare quegli impulsi, oppure lo costringeva a giocare con serpenti non velenosi.

Tra le persecuzioni ve ne era una che destava l’apprensione delle persone di casa, perché lo faceva uscire all’alba e lo spruzzava con l’acqua gelata della fonte, poi lo faceva correre nudo, e malgrado lo amasse molto lo puniva con asprezza se lui si ribellava. Quegli addestramenti furono preziosi nel corso della sua vita futura così piena di viaggi, di avventure e di vicissitudini in cui l’addestramento ad ogni asprezza potrebbe essere testimoniato da coloro che lo videro agire: senza quei momenti non avrebbe mai potuto superare tutto, perciò di questo deve rendere grazie a suo padre.

Nel 1916 suo padre aveva 82 anni, ed era molto anziano, ma era ancor pieno di forza e di vigore e appena qualche filo bianco ornava solo la sua barba. Morì l’anno dopo, ma non per morte naturale, perché fu ucciso quando cercò di proteggere i suoi averi dal saccheggio della casa di famiglia, infatti l’attacco dei turchi contro Aleksandropol fece fuggire tutta la famiglia tranne il padre che non volle abbandonare ciò che aveva. Nella dispersione delle carte di casa vennero distrutti tutti i manoscritti di suo padre, tutti i testi dei canti e delle leggende che erano stati trascritti sotto la sua dettatura, perché furono dispersi dai saccheggi.

La personalità del padre era caratterizzata dall’uso di adoperare sentenze ad ogni occasione, perché sembrava trovare sempre un modo di dire che era il meglio al momento migliore. Questi aforismi sembravano funzionare solo usati da lui, perché se altri li usavano apparivano sempre come sciocchezze e delle stupidità dette a sproposito. Ma, per completare il ritratto del padre va illustrata una sua tendenza naturale che colpiva tanto chi non lo conosceva, infatti molti credevano fosse un uomo privo di senso pratico e mancante d’intelligenza negli affari. Eppure, non aveva alcun tipo di carenza di questo tipo, bensì nella sua più intima natura provava una “repulsione istintiva per l’idea di trarre profitto personale dall’ingenuità e dalla sfortuna degli altri.”

Suo padre era un uomo integro e onesto al massimo grado, perciò non avrebbe mai creato la sua fortuna sulle sventure del suo prossimo, perciò tutti non esitavano a trarre profitto dalla sua specchiata onestà per imbrogliarlo sistematicamente, “cercando inconsciamente di deprezzare così il valore di tale caratteristica, sulla quale poggia l’insieme dei comandamenti del Nostro Comune Padre.” Sebbene fosse vessato dalla sorte e fosse consapevole di essere imbrogliato suo padre non si scoraggiava mai, e non si identificava con nulla, si manteneva sempre libero interiormente perciò restò sempre fedele a se stesso: l’unico cosa che gli dispiaceva era di essere disturbato quando sedeva a guardare le stelle.

Dice che l’unica cosa che un figlio può affermare, fin dal più profondo del cuore è il desiderio di poter diventare come suo padre da anziano. Per varie vicissitudini non gli è stato mai possibile vedere la tomba del padre, e pare impossibile che questo possa avvenire nel futuro, perciò non gli resta che ordinare ai suoi figli, carnali e spirituali, di prendersi l’impegno di ritrovare la sua tomba solitaria e abbandonata all’incuria e di erigere una stele che rechi questa iscrizione:

IO SONO TE,
TU SEI ME,
EGLI E’ NOSTRO,
TUTTI E DUE SIAMO SUOI.
CHE TUTTO SIA
PER IL NOSTRO PROSSIMO.


Buona erranza
Sharatan


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