lunedì 22 ottobre 2012

Cecità



“L’essenziale è invisibile agli occhi.”
(Antoine de Saint-Exupéry)

Nell'Odissea si racconta che Ulisse, l'eroe simbolo della sagacia e dell'ingegno, scende nell'oltretomba per evocare Tiresia, l’indovino cieco, sul modo di tornare a Itaca. Comunemente l'opera di Omero sembra un racconto di avventure, ma essa è creduta anche un catalogo di miti e di concezioni molto più antiche del tempo in cui fu scritta. Nell'opera, secondo gli studiosi, sono stati inseriti dei miti e delle concezioni che esistevano prima della sua stesura, ma che erano trasmesse solo in forma orale.

Oggi possiamo leggerla in modo filologico, letterario o simbolico, ma leggendo in modo simbolico troviamo degli insegnamenti utili soprattutto nei passi più inconsueti come quello della discesa di Ulisse all'oltretomba. Secondo gli studiosi l'episodio è precedente, e certamente esisteva come racconto autonomo risalente probabilmente ad un'epoca precedente ad Omero che è attestato nell'ottavo secolo a. C. Nell'episodio del viaggio agli inferi si tratta della discesa introspettiva interiore dell'eroe, mentre il rituale del sacrificio usato per richiamare gli spiriti dei morti, ricalca i riti omologhi nei misteri celebrati a Eleusi, presso Atene.

Della conoscenza dei riti di Eleusi si diceva che "di tutte le cose divine concesse agli uomini, è quella che, insieme, dà più brivido e che rende più puri." Gli insegnamenti impartiti nel luogo sacro a Demetra erano tenuti segreti, perciò oggi ci resta poco e frammentario di essi, però sappiamo che vi erano insegnate le "cose più sacre." Il rituale del sacrificio con cui Ulisse richiama le anime dei morti, e l'uso del sangue del capro sacrificato per ridare la memoria ai morti viene testimoniata come tipica di quei riti nelle poche fonti scritte che sono giunte fino a noi, e che raccontano quello che conosciamo.

L'episodio di Tiresia che è inserito nell'opera è ritenuto un "inserto simbolico," poiché si giudica ben poco funzionale al resto del racconto. Molti commentatori ritengono che l'episodio dell'indovino sia astruso dal contesto narrativo, infatti l'aiuto concreto e più funzionale al ritorno di Ulisse viene da Circe che offre la nave e le istruzioni necessarie per il ritorno ad Itaca. Il racconto della discesa nell’Ade è creduta funzionale all'inserimento del simbolismo che si vuole tramandare e che è collegato alle conoscenze iniziatiche dei misteri eleusini che ammaestravano coloro che cercavano uno sviluppo spirituale.

L'episodio insegna in modo velato che l'inconsapevolezza è un difetto insito nella stessa natura umana, infatti la cecità è fatale anche nelle menti più acute. La cecità dell’uomo non è dipendente dall'efficacia della visione degli occhi fisici, infatti anche un cieco può essere veggente. L'incapacità di vedere è presente anche nell'acuto sguardo di Ulisse, che è il preferito di Athena, la dea dell’intelligenza che fu partorita dalla testa, ossia dall'intelligenza stessa di Zeus.

Nel racconto interpretato in chiave simbolica si afferma che, per vedere non è necessario avere una grande intelligenza, infatti anche il simbolo omerico della sagacia e dell'ingegno è carente. Il mito insegna che anche gli uomini scaltri non sanno usare i sensi in modo corretto, infatti essi credono che vedere sia un fatto ovvio, ma il vedere non è una competenza scontata. La cecità è una condizione che è insita nella nostra stessa natura: gli uomini vedono ciò che vogliono vedere e si rendono ciechi a ciò che li scomoda troppo.

La nostra incapacità di sostenere il peso della verità ci impedisce di affrontare la vera realtà. La percezione è sempre condizionata dalla nostra struttura mentale, infatti restiamo ciechi a quello che accade davanti agli occhi se la mente si rifiuta di accettare ciò che vede. Quello che la mente crede come inconcepibile diventa la realtà invisibile, perciò diventa un fatto impossibile. La percezione diventa il gioco dell'automatismo che restringe la panoramica dalla visuale, infatti vediamo in modo sempre più limitato, e l’orizzonte diventa più stretto maggiormente se la cosa sconvolge lo schema mentale abituale.

Gli occhi sono guidati e accecati dai nostri pensieri, dalle nostre aspettative e dalle nostre paure profonde. La nostra limitazione diventa più soffocante se la visione coinvolge la percezione che abbiamo di noi, oppure la percezione degli altri, ma soprattutto se è in entrambi le cose. La qualità della percezione rappresenta il nostro modo personale di essere in rapporto col mondo, infatti è la nostra relazione molto personale con la realtà. Nel modo in cui essa avviene, e nella qualità dell’impatto dei nostri sensi col mondo vediamo se la nostra facoltà percettiva è troppo limitata, oppure se abbiamo un'armoniosa relazione.

Ma se vediamo che scateniamo una guerra contro il mondo, ci possiamo giurare che tra noi e la dura realtà, l'impatto diverrà troppo duro per noi, e saremo noi gli sconfitti finali. Il mito omerico insegna che i sensi sani e la mente acuta e non sono dei requisiti sufficienti per conoscere. Per conoscere correttamente dobbiamo imparare a percepire l’essenziale che si nasconde dietro le apparenze di ciò che vediamo. La mente acuta sembrerebbe un vantaggio, ma può diventare un danno se la presunzione di sapere produce una struttura mentale rigida.

L'intelligenza si irrigidisce se diventa arrogante e presuntuosa, perché suppone di vedere, perciò diventa frettolosa nell'accumulare delle nuove informazioni. La fretta di concludere la raccolta dei dati, e la tendenza a creare etichette per controllare meglio le cose, le persone e le esperienze la spingono a chiedere troppo velocemente i lavori della mente, perciò le idee si comprimono troppo. Il processo del pensiero diventa la scacchiera di bianchi e neri, perciò il pensiero è ripetitivo, perciò i pensieri sono cristallizzati nel medesimo punto di vista.

Se restiamo affacciati alla stessa finestra come possiamo vedere un panorama diverso? Se crediamo una cosa così illogica come possiamo crederci intelligenti? Se siamo così, allora come possiamo negare la nostra cecità? Come possiamo negare che molto di rado ci fermiamo a riflettere sui fatti che crediamo di conoscere bene, e come negare che ci sembra impossibile che l’apparenza consueta possa essere diversa?

Il fenomeno non è strano, perché dimostra la disfunzione della nostra volontà a non sapere e non saper vedere la realtà con chiarezza, perché la paura causa l'incapacità di usare dei punti di vista diversi da quelli usuali. Nei fatti che ci riguardano preferiamo vedere solo ciò che siamo abituati a vedere, perciò delle cose più importanti cerchiamo una conoscenza più limitata, e tanto più ottusa diventa la nostra visione quanto più la realtà è vicina e personale.

Ogni giorno dovremmo imparare a guardare, ma dobbiamo imparare a guardare come se quello fosse il primo giorno in cui usiamo gli occhi, ma è necessario il coraggio di abbandonare gli schemi percettivi abituali. Dobbiamo imparare che è necessario raccogliere sempre delle informazioni più complete e più profonde sul mondo, e su noi stessi, soprattutto se vogliamo vedere per scegliere il meglio di quello che la vita offre.

Buona erranza
Sharatan



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