Oh, le parole prigioniere
che battono battono
furiosamente
alla porta dell’anima
e la porta dell’anima
che a palmo a palmo
spietatamente
si chiude!
Ed ogni giorno il varco si stringe
ed ogni giorno l’assedio è più duro.
(Antonia Pozzi)
La fragilità fa parte della vita, ne è una delle strutture portanti, una delle radici ontologiche. […] Ma come definire la fragilità nella sua radice fenomenologica? Fragile è una cosa (una situazione) che facilmente si rompe, e fragile è un equilibrio psichico (un equilibrio emozionale) che facilmente si frantuma, ma fragile è anche una cosa che non può essere se non fragile: questo essendo il suo destino.
La linea della fragilità è una linea oscillante e zigzagante che lambisce e unisce aree tematiche diverse: talora, almeno apparentemente, le une lontane dalle altre. Sono fragili, e si rompono facilmente, non solo quelle che sono le nostre emozioni e le nostre ragioni di vita, le nostre speranze e le nostre inquietudini, le nostre tristezze e i nostri slanci del cuore; ma sono fragili, e si dissolvono facilmente, anche le nostre parole: le parole con cui vorremmo aiutare chi sta male e le parole che desidereremmo dagli altri quando siamo noi a stare male.
Sono fragili, sono vulnerabili, esperienze di vita alle quali talora nemmeno pensiamo, come sono le esperienze della timidezza e della gioia, del sorriso e delle lacrime, del silenzio e della speranza, della vita mistica; ma ci sono umane situazioni di vita che ci rendono fragili, o ancora più fragili, dilatando in noi il male di vivere, e sono le malattie del corpo e quelle dell’anima, ma anche la condizione anziana quando sconfitti, in particolare, negli abissi della malattia estrema: la malattia di Alzheimer.
Sono situazioni di grande fragilità interiore che la vita, la noncuranza e l’indifferenza, e anche solo la distrazione e la leggerezza altrui, accrescono e straziano. Come non riconoscere (così) nell’area semantica e simbolica, espressiva ed esistenziale, della fragilità gli elementi costitutivi della condizione umana? Cosa sarebbe la ‘condition humaine’ stralciata dalla fragilità e dalla sensibilità, dalla debolezza e dalla instabilità, dalla vulnerabilità e dalla finitudine, e insieme dalla nostalgia e dall’ansia di un infinito anelato e mai raggiunto?
Come non distinguere, in particolare, la fragilità come grazia, come linea luminosa della vita, che si costituisce come il nocciolo tematico di esperienze fondamentali di ogni età della vita, dalla fragilità come ombra, come notte oscura dell’anima, che incrina le relazioni umane e le rende intermittenti e precarie, incapaci di tenuta emozionale e di fedeltà: esperienza umana anche questa, che resiste limpida e stellare al passare del tempo, e alla corrosione che il tempo rischia sempre di trascinare con sé?
La fenomenologia della fragilità non può fare a meno di una riflessione preliminare sulla sua natura di esperienza interpersonale. La fragilità è il nostro destino, certo, ma essa nasce, si svolge e si articola in una stretta correlazione con l’ambiente in cui viviamo, e cioè con gli altri da noi.
La coscienza della nostra fragilità, della nostra debolezza e della nostra vulnerabilità (sono definizioni, in fondo, intercambiabili) rende difficili e talora impossibili le relazioni umane: siamo condizionati dal timore di non essere accettati, e di non essere riconosciuti nelle nostre insicurezze e nel nostro bisogno di ascolto, e di aiuto.
La nostra fragilità è radicalmente ferita dalle relazioni che non siano gentili e umane, ma fredde e glaciali, o anche solo indifferenti e noncuranti. Non siamo nomadi chiuse, e assediate, ma siamo invece, vorremmo disperatamente essere, nomadi aperte alle parole e ai gesti di accoglienza degli altri; e quando questo non avviene, le dinamiche relazionali si fanno oscure e arrischiate: dilatando fatalmente le nostre fragilità e le nostre ferite, le nostre insicurezze e le nostre debolezze, le nostre vulnerabilità. (Eugenio Borgna, La fragilità che è in noi, Einaudi)
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