martedì 23 maggio 2017

L’obbedienza è una virtù?



“...l'obbedienza non è ormai più una virtù,
ma la più subdola delle tentazioni...”
(don Lorenzo Milani)

Secondo i miti giudaici ed ellenici, la storia dell'uomo è stata inaugurata da un atto di disobbedienza. Adamo ed Eva, che abitavano nel paradiso terrestre, erano parte integrante della natura; vivevano con essa in armonia, e tuttavia la trascendevano. Stavano dentro la natura così come il feto sta dentro l'utero della madre. Erano umani, e in pari tempo non lo erano ancora. Tale condizione mutò allorché essi disobbedirono a un ordine.

Il loro atto di disobbedienza ha scisso il legame originario con la natura e li ha resi individui. Il “peccato originale”, lungi dal corrompere l'uomo, lo ha anzi reso libero; è stato esso l'inizio della storia. L'uomo ha dovuto abbandonare il paradiso terrestre per imparare a dipendere dalle proprie forze e diventare pienamente umano. 

Con il loro messianismo, i profeti hanno fornito la conferma all'idea che l'uomo aveva il diritto di disobbedire e che, lungi dall'essere stato corrotto dal suo “peccato”, commettendolo si è affrancato dai legami dell'armonia preumana. Per i profeti, la storia è il luogo in cui l'uomo diventa umano; nel corso del divenire storico, l'uomo sviluppa le proprie facoltà razionali e la capacità di amare, fino a creare una nuova armonia tra se stesso, i suoi simili e la natura.

Questa nuova armonia è designata dai profeti con il nome di “fine dei tempi”, intendendo con questo l'era storica in cui ci sarà pace tra uomo e uomo e tra uomo e natura. Si tratta di un “nuovo” paradiso creato dall'uomo stesso, e che l'uomo soltanto può creare perché è stato costretto ad abbandonare l'“antico” paradiso in seguito alla sua disobbedienza.

Esattamente come il mito giudaico di Adamo ed Eva, quello ellenico di Prometeo concepisce la civiltà umana basata tutta quanta su un atto di disobbedienza. Rubando il fuoco agli dèi, Prometeo pone le fondamenta dell'evoluzione umana. Non ci sarebbe storia umana senza il “delitto” di Prometeo. Il quale, al pari di Adamo ed Eva, è punito per la sua disobbedienza; ma Prometeo non si pente, non chiede perdono. Al contrario, afferma orgogliosamente di preferire “essere incatenato a questa roccia che non il servo obbediente degli dèi”.

L'uomo ha continuato a evolversi mediante atti di disobbedienza. Non soltanto il suo sviluppo spirituale è stato reso possibile dal fatto che nostri simili hanno osato dire “no” ai poteri in atto in nome della propria coscienza o della propria fede, ma anche il suo sviluppo intellettuale è dipeso dalla capacità di disobbedire: disobbedire alle autorità che tentassero di reprimere nuove idee e all'autorità di credenze sussistenti da lungo tempo, e secondo le quali ogni cambiamento era privo di senso.

Se la capacità di disobbedire ha segnato l'inizio della storia umana, come ho già detto può darsi benissimo che l'obbedienza ne provochi la fine. E non sto parlando in termini simbolici o metaforici. Sussiste la possibilità, e anzi la probabilità, che la razza umana distrugga la civiltà e addirittura ogni forma di vita sulla terra già nei prossimi cinque o dieci anni.

È un evento dei tutto privo di razionalità e di senso, e tuttavia è un fatto che, mentre sotto il profilo tecnico viviamo nell'era atomica, la maggioranza degli esseri umani, compresi i detentori dei potere, vivono ancora, a livello emozionale, nell'età della pietra; e che, mentre la nostra matematica, la nostra astronomia, le nostre scienze naturali appartengono al XX secolo, gran parte delle nostre concezioni della politica, dello Stato, della società, sono ancora arretratissime rispetto all'era della scienza.

Se l'umanità si suiciderà, sarà perché si obbedirà a coloro che ordineranno di premere i fatali bottoni; perché si obbedirà alle arcaiche passioni della paura, dell'odio, della brama di possesso; perché si obbedirà agli obsoleti cliché della sovranità statale e dell'onore nazionale…

Non voglio dire, con questo, che ogni disobbedienza è una virtù e ogni obbedienza un vizio. Far propria un'opinione del genere significherebbe ignorare il rapporto dialettico che intercorre tra obbedienza e disobbedienza. Qualora i principi ai quali si obbedisce e quelli ai quali si disobbedisce siano inconciliabili, un atto di obbedienza a un principio costituirà di necessità un atto di disobbedienza al suo opposto, e viceversa.

Antigone costituisce l'esempio classico di questa dicotomia. Obbedendo alle inumane leggi dello Stato, Antigone per forza di cose disobbedirebbe alle leggi dell'umanità; obbedendo a queste, non può non disobbedire a quelle. Tutti i martiri delle fedi religiose, della libertà e della scienza hanno dovuto disobbedire a coloro che volevano imbavagliarli, se volevano obbedire alla propria coscienza, alle leggi dell'umanità e della ragione.

L'essere umano capace solo di obbedire, e non di disobbedire, è uno schiavo; chi sa soltanto disobbedire, e non obbedire, è un ribelle (non un rivoluzionario): costui agisce mosso da collera, da delusione, da risentimento, non già in nome di una convinzione o di un principio. Allo scopo di evitare equivoci terminologici, va però fatta una precisazione di grande importanza.

L'obbedienza nei confronti di una persona, istituzione o potere (obbedienza eteronoma) equivale a sottomissione; essa implica l'abdicazione alla propria autonomia e l'accettazione di una volontà o di un giudizio esterno in sostituzione dei propri. L'obbedienza alla propria ragione o convinzione (obbedienza autonoma) è invece un atto di affermazione, non di sottomissione.

La mia convinzione e il mio giudizio, se sono autenticamente miei, sono parte integrante di me stesso. Se li seguo anziché far mio il giudizio di altri, sono e resto me stesso; ne consegue che la parola obbedire può essere usata in questo caso soltanto in senso metaforico e con un significato che è fondamentalmente diverso da quello dell'“obbedienza eteronoma”.

Ma questa differenziazione richiede a sua volta due ulteriori precisazioni, una per quanto attiene al concetto di coscienza, l'altra per quanto attiene al concetto di autorità. Il termine coscienza è impiegato per designare due fenomeni diversissimi l'uno dall'altro. Uno è la “coscienza autoritaria”, cioè la voce interiorizzata di un'autorità che siamo bramosi di ingraziarci e alla quale temiamo di dispiacere.

È con questa coscienza autoritaria che gran parte delle persone sono alle prese quando obbediscono alla “propria” coscienza. Ed è anche quella di cui parla Freud, e che viene detta “Super-io”. Il Super-io rappresenta gli ordini e i divieti interiorizzati del padre, accettati dal figlio per paura. Ben diversa dalla coscienza autoritaria è la “coscienza umanistica”, che è la voce presente in ogni essere umano, indipendente da sanzioni e ricompense esteriori.

La “coscienza umanistica” si fonda sul fatto che, in quanto esseri umani, noi abbiamo una cognizione intuitiva di ciò che è umano e di ciò che è inumano, di ciò che favorisce la vita e di ciò che la distrugge. Questa coscienza è indispensabile al nostro funzionamento di esseri umani; è la voce che ci richiama a noi stessi, alla nostra umanità.

La “coscienza autoritaria” (Super-io) è pur sempre obbedienza a un potere a me estraneo, anche qualora tale potere sia stato interiorizzato. A livello conscio, io ritengo di seguire la mia coscienza, mentre in effetti ho “inghiottito” i principi dei potere; e proprio a causa dell'illusione che coscienza umanistica e Super-io siano identici, accade che l'autorità interiorizzata sia tanto più efficace dell'autorità che è chiaramente sperimentata come parte di me stesso.

L'obbedienza alla “coscienza autoritaria”, al pari di ogni obbedienza alle idee e al potere esterni, tende a indebolire la “coscienza umanistica”, vale a dire la capacità di essere e di giudicare se stessa. Tuttavia, l'affermazione che l'obbedienza a un'altra persona è ipso facto sottomissione, va a sua volta specificata, distinguendo autorità “irrazionale” da autorità “razionale”.

Un esempio di autorità razionale è dato dal rapporto tra allievo e insegnante; un esempio di autorità irrazionale, dal rapporto tra schiavo e padrone. Entrambi i rapporti si fondano sull'accettazione dell'autorità di chi comanda. Ma sotto il profilo dinamico, essi sono di natura diversa. Almeno idealmente, gli interessi dell’insegnante e dell'allievo vanno nella stessa direzione. Il primo è soddisfatto se riesce a far avanzare l'allievo; se non ci riesce, il fallimento è suo oltre che dell'allievo.

Il padrone di schiavi, al contrario, vuole sfruttare al massimo lo schiavo; più ne ricava, e più è soddisfatto. Dal canto suo, lo schiavo mira a difendere nel miglior modo possibile la sua aspirazione a un minimo di felicità. Gli interessi dello schiavo e del padrone sono antagonistici perché ciò che è vantaggioso per l'uno va a detrimento dell'altro. La superiorità reciproca ha, nei due casi in esame, una funzione differente; nel primo è la condizione dell'avanzamento della persona assoggettata all'autorità; nel secondo è la condizione del suo sfruttamento.

Parallela a questa, si delinea una seconda distinzione: l'autorità razionale è tale perché l'autorità, sia essa detenuta da un insegnante o dal comandante di una nave che impartisca ordini in una situazione di emergenza, agisce in nome della ragione la quale, essendo universale, può essere accettata senza che si abbia sottomissione. L'autorità irrazionale deve far ricorso alla forza o alla suggestione, perché nessuno si lascerebbe sfruttare se fosse libero di impedirlo.

Perché l'uomo è tanto proclive all'obbedienza e perché gli riesce tanto difficile disobbedire? Finché obbedisco al potere dello Stato, della Chiesa, dell'opinione pubblica, mi sento al sicuro e protetto. In effetti, poco importa a quale potere obbedisco, trattandosi sempre di un'istituzione o di esseri umani che fanno ricorso alla forza in una qualche forma e che fraudolentemente si proclamano onniscienti e onnipotenti.

La mia obbedienza fa di me una parte del potere al quale mi inchino reverente, e pertanto io mi sento forte. Non posso commettere errori dal momento che è esso a decidere per me; non posso essere solo, perché il potere vigila su di me; non posso incorrere in peccato, perché il potere non me lo permette, e anche se peccato commettessi, la punizione non è che il mezzo per far ritorno all'illimitato potere.

Per disobbedire, bisogna avere il coraggio di essere solo, di errare e di peccare. Ma il coraggio non basta. La capacità dei coraggio dipende dal grado di sviluppo di una persona. Soltanto chi si sia sottratto al grembo materno e agli ordini dei padre, soltanto chi si sia costituito come individuo completamente sviluppato, e abbia così acquisito la capacità di pensare e di sentire autonomamente, può avere il coraggio di dire “no” al potere, di disobbedire.

Una persona può diventare libera mediante atti di disobbedienza, imparando a dire “no” al potere. Ma, se la capacità di disobbedire costituisce la condizione della libertà, d'altro canto la libertà rappresenta la capacità di disobbedire. Se ho paura della libertà, non posso osare di dire “no”, non posso avere il coraggio di essere disobbediente. In effetti, la libertà e la capacità di disobbedire sono inseparabili, e ne consegue che ogni sistema sociale, politico e religioso che proclami la libertà, ma che bandisca la disobbedienza, non può dire la verità.

C'è un altro motivo per cui è tanto difficile osare disobbedire, opporre un “no” al potere. Durante gran parte della storia umana, l'obbedienza è stata equiparata a virtù e la disobbedienza a peccato, e ciò per una semplicissima ragione: così facendo, durante gran parte della storia una minoranza ha dominato la maggioranza. Il dominio in questione era reso necessario dal fatto che solo per pochi le buone cose della vita erano bastanti, e ai molti restavano unicamente le briciole.

Se i primi volevano godersi le buone cose e inoltre avere al proprio servizio i molti, facendoli lavorare a proprio beneficio, una condizione era imprescindibile: i molti dovevano imparare l’obbedienza. Certo, questa può essere imposta mediante la mera forza, ma si tratta di un metodo che presenta molti svantaggi, in quanto comporta la costante minaccia che prima o poi i molti trovino la maniera di rovesciare i pochi con la forza.

Inoltre, ci sono attività di vario genere che non possono essere eseguite a dovere se dietro l'obbedienza non c'è che paura. Sicché, l'obbedienza radicata unicamente nel timore della forza deve essere trasformata in un'obbedienza che abbia radici nel cuore. L'essere umano deve voler obbedire, e anzi sentire la necessità di farlo, invece di avere soltanto paura di disobbedire. Perché questo sia possibile, il potere deve assumere le qualità della Bontà Assoluta, della Sapienza Assoluta; deve diventare Onnisciente.

E se questo si verifica, il potere può proclamare che la disobbedienza è peccato e l'obbedienza virtù; e una volta che l'abbia fatto, i molti possono accettare l'obbedienza perché è un bene, e detestare la disobbedienza perché è un male, anziché odiare se stessi per il fatto di essere vigliacchi. Da Lutero fino al XIX secolo, ci sì è trovati alle prese con autorità dichiarate, esplicite.

Lutero, il papa, i principi desideravano mantenere il potere, la classe media, i lavoratori, i filosofi, miravano ad abbatterlo. La lotta contro l'autorità in seno allo Stato e alla famiglia costituiva sovente la base stessa dello sviluppo di una personalità indipendente e audace, trattandosi di una lotta che era inseparabile dall'atteggiamento intellettuale che caratterizzava i filosofi dell'Illuminismo e gli scienziati.

Tale “atteggiamento critico” aveva a fondamento la fede nella ragione, ma era anche, in pari tempo, un atteggiamento di dubbio nei confronti di tutto ciò che veniva detto o pensato, in quanto basato sulla tradizione, sulla superstizione, sulla costumanza, sul potere…

Il caso di Adolf Eichmann è simbolico della nostra situazione, e ha un significato che trascende di gran lunga quello di cui si sono occupati i rappresentanti dell'accusa al tribunale di Gerusalemme. Eichmann è un simbolo dell'individuo inserito in un'organizzazione, del burocrate alienato agli occhi del quale uomini, donne e bambini sono divenuti numeri. È un simbolo di tutti noi: in Eichmann possiamo vederci riflessi.

Ma la cosa più spaventosa in lui fu che, una volta chiarita l'intera vicenda alla luce delle sue stesse ammissioni, in perfetta buona fede Eichmann ha potuto proclamarsi innocente, ed è evidente che, se si ritrovasse nella stessa situazione, lo rifarebbe. E lo stesso faremmo noi: lo stesso facciamo noi.

L'uomo inserito in un'organizzazione ha perduto la capacità di disobbedire, non è neppure consapevole dei fatto che obbedisce. Nell'attuale fase storica, la capacità di dubitare, di criticare e di disobbedire può essere tutto ciò che si interpone tra un futuro per l'umanità e la fine della civiltà. (Erich Fromm, La disobbedienza e altri saggi, Arnoldo Mondadori Ed.)

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