domenica 7 maggio 2017

Riconoscimenti



“Chi si mette in mostra non risplende,
chi si gloria non è illustre, chi si vanta non emerge,
chi si identifica con le proprie opere non dura.”
(Lao Tzu)

“Perché dobbiamo tanto bramare che si riconoscano i nostri meriti, che ci si prenda sul serio, che ci si incoraggi di continuo? Perché dobbiamo essere tanto snob? Perché teniamo tanto alla esclusività del nostro nome, della nostra posizione, delle nostre acquisizioni? L’essere anonimi è forse degradante, l’essere sconosciuti forse spregevole? Perché diamo tanto la caccia a tutto ciò che è popolare, famoso? Perché non ci accontentiamo di essere noi stessi?

Abbiamo tanta paura e vergogna di quel che siamo che nome, posizione e acquisizioni divengono così supremamente importanti? È strano come sia forte il desiderio di essere stimati, ammirati, applauditi. Nell’eccitazione di una battaglia, si fanno cose incredibili, per cui si è poi onorati; si diviene eroi per avere ucciso dei propri simili. Grazie a privilegi, abilità, o capacità ed efficienza, si giunge presso la vetta, anche se la vetta non è mai la vetta, perché c’è sempre in misura maggiore l’ubriacatura del successo.

Il paese o l’industria sono voi stesso; da voi dipende la soluzione di grandi problemi, voi siete il potere. La religione costituita offre posizione, prestigio, onore; anche là siete qualcuno, distinto e importante; oppure diventate il discepolo di un capo, di un guru o di un maestro, o collaborate con loro. Siete ancora importante, li rappresentate, partecipate alle loro responsabilità, voi date e altri ricevono. Anche se in loro nome, voi siete ancora il mezzo. Potete cingere un perizoma o indossare la tunica di un monaco, ma siete voi che fate il gesto, voi che rinunciate.

In un modo o nell’altro, con sottigliezza o grossolanamente, l’io si nutre e si mantiene. Indipendentemente dalle sue attività antisociali e nocive, chi ha l’io che mantenga se stesso? Sebbene ci troviamo nel tumulto e nella pena, tra piaceri momentanei, perché l’io si afferra a soddisfazioni intime ed esterne, a ricerche che inevitabilmente portano infelicità e dolore? La sete di un’attività positiva come opposta alla negazione ci fa sforzare di essere; i nostri sforzi ci fanno sentire che siamo vivi, che c’è uno scopo alla nostra vita, che riusciremo progressivamente a liberarci delle cause del conflitto e del dolore.

Abbiamo l’impressione che se la nostra attività cessasse, noi non saremmo più nulla, saremmo smarriti, la vita non avrebbe più significato alcuno; e così continuiamo a vivere nel conflitto, nella confusione, nell’antagonismo. Ma siamo anche consci che c’è qualche cosa di più, che c’è una alternativa che è al di sopra e al di là di tanto dolore. Così siamo in costante battaglia entro noi stessi.

Più grande la dimostrazione esterna, maggiore la povertà interiore; ma l’affrancamento da questa povertà non è il perizoma. La causa di questa vacuità interiore è il desiderio di divenire e qualunque cosa facciate questo vuoto non potrà mai essere colmato. Potrete sfuggirvi in modo crudo, o con molte raffinatezze, ma resterà vicino a voi come la vostra ombra. Può darsi che non vogliate affondare lo sguardo in questo vuoto, ma ciononostante, esso sarà sempre presente.

Gli adornamenti e le rinunce che l’io assume non potranno mai coprire questa intima povertà. Mediante queste attività, intima ed esterna, l’io cerca di trovare arricchimento, chiamandolo esperienza o dandogli un nome diverso, a seconda della sua convenienza e del suo piacere. L’io non può mai essere anonimo; può assumere una nuova veste, prendere un altro nome, ma l’identità è la sua stessa sostanza. Questo processo d’identificazione impedisce la consapevolezza della sua propria natura.

Il processo cumulativo d’identificazione costruisce l’io, positivamente o negativamente; e la sua attività è sempre imprigionante, per vasta che sia la prigione. Ogni sforzo dell’io di essere o di non essere è un moto di allontanamento da ciò che è. Indipendentemente dal suo nome, dai suoi attributi, idiosincrasie e proprietà, che cos’è l’io?

C’è sempre l’io, il se stesso quando le sue qualità siano state tolte? È questa paura di essere niente che spinge l’io all’attività; ma essa è nulla, non è che un vuoto. Se siamo capaci di guardare bene in faccia quel vuoto, di essere con quella dolorosa solitudine e malinconia, allora la paura scompare del tutto e avviene una trasformazione radicale. Perché ciò accada, ci deve essere la sperimentazione di quel nulla la quale viene impedita se c’è uno sperimentatore.

Se c’è il desiderio di sperimentare quel nulla per poterlo vincere, per poter andare al di sopra e al di là di esso, allora non c’è sperimentazione; perché l’io, come identità, continua. Se lo sperimentatore ha una esperienza, non c’è più lo stato di sperimentazione. È la sperimentazione di ciò che è senza dargli un nome che determina la libertà da ciò che è.” (Jiddu Krishamurti)

Nessun commento: