giovedì 24 febbraio 2011

La nostra rimembranza


“Non basta sapere, occorre anche praticare”

(W. Goethe)


Nel buddismo si afferma che la coscienza umana è come il corso di un fiume che fluisce di continuo, infatti la nostra coscienza è come un corso di acqua che possiede diversi livelli di profondità che dobbiamo saper esplorare, perché la conoscenza della nostra meccanica mentale permette di liberarci dai condizionamenti esteriori. Comprendere come funziona la mente ci permette di praticare il miglioramento di noi stessi infatti, secondo Gurdjieff, la maggiore difficoltà del lavoro umano è quella di scegliere il tipo di influenza a cui si vuole sottostare, poiché non si può vivere senza essere influenzati da qualcosa, allora tanto vale saper scegliere i condizionamenti che sono più utili al nostro miglioramento.

La possibilità di poter cambiare il nostro pensiero per saperlo adattare con fluidità ai cambiamenti è una grande sfida per l’intelligenza umana, in quanto la mente umana è sempre impegnata nella difesa delle sue concezioni, anche se si rivelano errate: il fatto è che l’uomo vive nella duplice realtà di verità soggettive e di verità oggettive che sono entrambi giuste essendo delle realtà esatte dal duplice punto di vista. Nessuna scuola fornisce tutto quello che serve all’uomo, perché non sono necessarie tante parole per comprendere e la mente umana sarebbe saturata dalla conoscenza, perciò si annullerebbe tutto lo spazio necessario per la maturazione dell’individualità personale.

La quantità delle parole non è sufficiente per farci cogliere la verità, ma non basta neppure per convincere o per risvegliare la consapevolezza, infatti le parole risvegliano solo delle percezioni mentali, ma non possono infondere alcuna visione profonda delle cose. La mente umana ospita delle concezioni che sono conservate intimamente, perciò esse diventano le nostre certezze, e non ha importanza la loro qualità, infatti non conta affatto che siano vere o false, perché diventano “nostre” a livelli profondi, perciò le conserviamo come parti del nostro essere più intimo. Ecco perché il saper ripensare alle nostre verità più profonde per saperne dubitare diventa un'ottima prerogativa per costruire una brillante intelligenza.

Restare attaccati alle nostre idee non appare affatto una scelta vantaggiosa, infatti il mondo cambia e noi restiamo indietro, perché la nostra percezione resta limitata ai vecchi attaccamenti mentali che impediscono l’evoluzione, perciò essi danneggiano la nostra liberazione. Si dice che l’intuizione più profonda sia una conquista personale di cui dobbiamo essere convinti perciò, anche una quantità limitata di conoscenze, di idee e di pensieri non impedisce la nostra pratica evolutiva. Per Gurdjieff, il primo passo per la vera consapevolezza è il ricordarsi di sé che è la nostra continua rimembranza a noi stessi essendo un ricordo difficile da conservare perché l’uomo vive immerso nel sonno e vegeta nell’automatismo delle sue funzioni minime.

L’uomo comune vive in due livelli inferiori di consapevolezza perchè attua un primo stadio evolutivo nello stato del sonnambulo che non sa andare oltre una vita fisiologica, ma riesce ad ascendere nel secondo livello dell’uomo che vive lavorando, passeggiando, producendo idee, occupandosi della sua vita, e facendosi la guerra, perciò diventando più attivo con una coscienza che è ritenuta lucida, sebbene sia molto lontana dalla lucidità della consapevolezza. Nel terzo livello vi è rimembranza e il ricordarsi di sé che è la coscienza consapevole del nostro essere, ed è questo è il livello che l’uomo crede di avere ma, tale conquista non si ottiene con il desiderio ardente, poiché l’uomo è incapace di mantenere la ferma decisione della volontà.

Il livello superiore di coscienza obiettiva fornisce la capacità di vedere le cose per come sono, perciò conquistiamo una chiarezza inesistente negli stadi inferiori, poiché in quei luoghi abbiamo solo fugaci barlumi di luce e veloci lampi di coscienza. All’illuminazione si giunge come risultato di grande impegno, di lunga fatica e dell'indomabile volontà della crescita interiore. E’ nello stadio della rimembranza che attestiamo il diritto naturale dell’essere umano, perché l’attitudine alla conservazione di memoria è innata nella natura umana, e se essa non è posseduta è solo perché l’uomo non vive nelle sue condizioni normali.

E’ necessario sapere che ricordarsi di sé è la consapevolezza che deve essere attivata, poichè la possediamo solo in modo intermittente e non permanentemente, perciò l'attitudine va consolidata tramite un allenamento speciale. Per molti, il fatto di dover conquistare coscienza è un fatto paradossale perché l’uomo crede di essere perché pensa, mentre è la coscienza che fa nascere il pensiero e il pensatore: evidentemente nessuno vuole lottare per ottenere ciò che crede di avere, e nessuno fatica per delle chimere. L’uomo è duale anche nella sua coscienza, infatti tutti i livelli superiori e inferiori sono perfettamente sviluppati e lavorano continuamente: è solo la nostra coscienza ordinaria che è inconsapevole di questi meccanismi, perciò non sperimenta tali verità.

L’uomo vive di coscienza soggettiva perché vive di sogni che dimentica, e questi sogni sono creati dalle sensazioni che provengono dal mondo per riverberarsi nel corpo tramite delle eccitazioni sensoriali che plasmano i nostri desideri e le nostre fantasie: il sognatore vive in un beato mondo interiore e resta in balia di tutto ciò che gli accade. Al momento dell'azione, l’uomo si illude di avere coscienza perché si muove, vive, fa discorsi, vede pericoli e studia strategie perciò si sente vivo sapendo uscire all’esterno. Comunque, in una tale condizione non vi è una sorte migliore dalla precedente in quanto, sebbene vi sia l’azione, l’uomo resta sempre ignorante dell'effetto che le sue azioni producono su lui e sul suo ambiente, quindi l’uomo è immemore di sé stesso.

Un essere automatico è privo di finalità, infatti egli non sa arrestare il flusso dei pensieri, non sa tenere a freno l’immaginazione, non esercita controllo delle emozioni e non sa neppure dirigere la sua attenzione. Vivendo di immaginazioni e di fantasie a quest’uomo non resta alcuno spazio per il mondo reale, perché la realtà è nascosta dal muro delle sue fantasie, e quella che è detta coscienza lucida diviene una condizione molto più pericolosa del sonno. Nei due stadi inferiori vi è il medesimo mondo soggettivo in cui l’umano pensa, dice e agisce nella carenza di profonde motivazioni al senso del suo agire.

Un uomo dovrebbe chiedersi come potersi risvegliare, però questo può chiederselo solo chi sa che la sua vita è un sogno, e l’uomo si può convincere al risveglio solo se crede che non ha alcun ricordo e rimembranza del suo essere, ma questo non può essere frutto del desiderio o di capriccio. Per avere il risveglio, dice Gurdjieff, è necessario trovare un maestro che è un essere che non può dormire perciò impedisce che gli altri cadano addormentati, perciò un maestro è necessario per impedirci di cadere nel sonno della coscienza e della ragione.

Infatti tutte le parole del mondo diventano inutili e sono insufficienti per ridestarci se gli uomini non sanno neppure che le parole evangeliche “Siate desti!” e “Svegliatevi!” sono da intendersi in senso veramente letterale. Finché l’uomo dorme non asseconda la sua vera natura che è il ricordarsi di sé, e anche il mondo vuole che l’uomo dorma fin dall'infanzia tramite l’assuefazione alle abitudini: questi legami ipnotici tengono l’uomo avvinto e sottomesso impedendogli di ascendere nella rimembranza, e l’uomo viene illuso di avere la coscienza e di godere della libertà.

Sebbene i fatti possano sconfessare le teorie, l’uomo penserà ai fatti come fossero accidentali e li crederà casualità e inconvenienti che si aggiustano da soli: per questo nessuno lavora per osservarsi e comprendere quali aspetti e meccanismi della nostra macchina vadano migliorati. Se l’uomo comprende che vive sotto il livello delle sue capacità naturali, in lui nasce la volontà di cambiare per progredire. Solo tramite una lunga e paziente pratica possiamo ottenere dei positivi cambiamenti dei nostri processi interiori, però è nell’osservazione di noi stessi che troviamo un potente mezzo di cambiamento e il metodo giusto per avere il risveglio.

L’osservazione è come un fascio di luce che va ad illuminare quelle zone in cui vi era l’oscurità assoluta, perciò questa luce illumina la coscienza con un barlume sempre più intenso che ci fa vedere la natura dei processi che sono divenuti desueti. Sono i nostri processi psichici che diventano il materiale dell’alchimia interiore che dobbiamo iniziare, perché l’uomo deve comprendere la necessità di osservare e di lavorare sulla sua natura, infatti l’osservazione deve essere specifica per saperci vedere come un individuo integro per come agiamo all’esterno. Dobbiamo saperci osservare nei vari momenti della nostra vita, nelle nostre manifestazioni emozionali, nei nostri pensieri, nelle intime sensazioni, nei gesti, nei movimenti corporei e in tutte le nostre espressioni più personali.

Se l’uomo si ferma ad osservare come appare all’esterno vede il ritratto di un soggetto intero, perciò possiede tutto il quadro di quello che siamo e percepisce anche fin dove può aspirare a spingersi, infatti può valutare quanto la nostra immagine mentale sia lontana dall’immagine reale che risulta all‘esterno. Al posto della nostra immagine ideale vediamo una immagine nuova e molto più vera della precedente, perché noi siamo così come ci manifestiamo nel mondo e non siamo come pensiamo di essere nelle nostre illusioni. L’uomo vive di irrealtà, di illusioni, di invenzioni e di artifici, perciò deve riconoscere il mondo reale togliendo tutto l’immaginario tramite l’osservazione e lo studio di sé stesso.

Solo osservandoci sappiamo che l’impotenza alla nostra rimembranza è uno dei tratti più caratteristici della natura umana ed è la causa principale dei nostri comportamenti: l’uomo è incapace di ogni ricordo infatti decide, parla, giura e agisce ma non ricorda quello che ha detto un giorno, una settimana, un mese, un anno prima perché lavora ma si interrompe spesso, poiché non ricorda più quello che aveva iniziato. L’uomo dimentica ogni promessa e impegno infatti, la società usa delle associazioni utili collegando alla mente umana delle parole come l’onore, l’onestà e il dovere affinché l’uomo non si dimentichi la necessità di essere etico.

Poiché l’uomo dimentica facilmente quello che si riferisce a sé stesso, è per questo che le opinioni e i punti di vista umani sono privi di ogni stabilità e coerenza, infatti dimentichiamo ciò che abbiamo pensato, ciò che abbiamo detto e tutto quello che abbiamo fatto mentre restiamo prigionieri di fantasie, di illusioni e di identificazioni mentali. L’uomo è talmente abituato a mentire che non accetta alcuna verità su sé stesso, perché la verità può essere rivelata solo dopo che si è conosciuta, perciò dobbiamo imparare che non sono necessarie molte vite per evolvere, ma può essere sufficiente anche una sola vita, ma a condizione che iniziamo da subito a ritrovare la memoria di noi stessi.

Buona erranza
Sharatan

sabato 19 febbraio 2011

Procedere consapevolmente


“Non importa quanto sei andato lontano,
se sei su una strada sbagliata:
torna indietro!”

(Proverbio turco)


Nel buddismo si afferma che il vero potere è liberare se stessi e aiutare gli altri a conseguire la liberazione dal potere esteriore delle cose, perchè tutti investiamo la maggior parte delle risorse e delle energie per migliorare solo le condizioni esteriori. Effettivamente ogni cosa è collegata all’altra, per cui è evidente che anche il benessere materiale sia un elemento essenziale per la nostra serenità ma, l’investimento migliore a cui dare la precedenza è il nostro benessere interiore. Senza la quiete interiore ogni traguardo esteriore che possiamo raggiungere non sarà mai sufficiente per godere di ciò che abbiamo conquistato, poiché non abbiamo acquisito la capacità di assaporare quello che è il frutto delle nostre azioni, e questo a prescindere dalla qualità dell‘obiettivo personale.

La presenza mentale, dice Tich Nhat Hanh, possiede l’energia e il potere dell’attenzione piena e totale a ciò che stiamo vivendo, perciò ci dona il gusto di saper vivere bene, ed è l’unica chiave che offre il potere sulla nostra vita perché noi sappiamo come apprezzarla. Conoscendo il valore delle cose, impariamo che dobbiamo prenderci cura di tutto quello che ci circonda, e la cura deve essere adeguata cioè piena e totale, perché essa deve diventare densa come la nostra presenza nella situazione. Nel buddismo viene usata la pratica del camminare, che è una tecnica spirituale importante, ed è una potente forma di meditazione che tutti possono praticare: questo è il modo migliore di fare la pratica, perché una pratica deve essere attuata senza violenza e senza sforzo.

Nel camminare non si lotta con il pensiero ma si entra dolcemente nel piacere rilassato della nostra consapevolezza che procede con noi. Tutti, nel procede fisicamente, camminiamo con i nostri piedi ma, la nostra mente procede sempre altrove, infatti il corpo cammina mentre la mente va nell’altra direzione perché percepiamo la mente e il corpo come sfere diverse mentre, nel buddismo, si cammina integri “con l’intero corpo e con l’intera coscienza.” Se vediamo il corpo e la mente come due cose e due sfere separate, è ovvio che il nostro corpo procede separato dalla mente, ma per il Buddha le due sfere sono inserite una nell’altra: infatti la mente e il corpo sono due facce della medesima medaglia.

Sentirsi come mente e corpo connessi, perciò sentirsi nell’intrico dell'interiore con l'esteriore, ci concentra in noi stessi, perciò sappiamo concentrare anche il peso del corpo che, dalla pianta del piede poggia lentamente con tutta la consistenza del corpo al suolo, perciò noi imprimiamo il nostro peso sulla terra mentre sappiamo che, in ogni contatto con un materiale vi è sia l’aspetto esteriore che l'influsso di forze interne che non riusciamo a vedere. Il nostro respiro procede lento assieme ai passi che si susseguono, e la nostra mente è presente al progredire, perciò avanziamo in piena coscienza. Se ci riflettiamo, tutto il cammino umano è nella qualità dell’impressione del peso e della forza che l'uomo riesce ad imprimere sulla terra pressando con la sua solidità materiale, perciò tutto è dato anche dalla stabilità della nostra gioia di vivere e dalla nostra voglia di essere liberi.

Nell’uomo che procede c’è sempre l’impronta della sua presenza, che è come “il sigillo che imprime un segno su un foglio di carta” dice Tich Nhat Hanh, perché è come “il sigillo dell’imperatore” che ognuno possiede, perché in tutti vive la “natura del Buddha” ossia la piena capacità di essere presente lucidamente a ciò che sta accadendo. Ciò che otteniamo camminando è la consapevolezza che noi siamo vivi, che avanziamo e che nessuno ci può togliere la presenza del Buddha che ospitiamo internamente. Ogni volta che le condizioni della nostra vita si fanno dure, allora arriva il Buddha per camminare al nostro posto, e mentre stiamo per arrenderci, sentiamo la sua grande forza che emerge in noi, ed è la presenza del Buddha che si ridesta, perciò il nostro procedere continua per merito della sua forza che ci trascina.

La pratica del procedere sembra una cosa sciocca, se non fosse una strategia utile per spezzare qualsiasi forma di automatismo per merito del collegamento che viene riattivato tra il movimento fisico e il pensiero come sembra scientificamente certo. Certamente si può camminare per arrivare da qualche parte oppure si può camminare per restare consapevole, e il nostro camminare può divenire anche un’offerta meditativa che possiamo fare a qualcuno. Noi possiamo far camminare qualcuno che non può farlo tramite i nostri piedi, quindi possiamo procedere insieme, che è una cosa molto bella, infatti possiamo camminare per i genitori e per gli antenati che non hanno saputo camminare con la consapevolezza e la presenza dell'intero loro essere.

Nella vita avviene che i cari, i genitori oppure gli antenati non siano riusciti a camminare in pace e in gioia, perché non hanno avuto l’occasione di fare passi felici, e non hanno vissuto con gioia la vita vivendo bene nel momento presente. E’ un vero peccato e un grande dolore sapere che loro non ci sono riusciti, ma non è un motivo sufficiente perchè non dobbiamo riuscirci nemmeno noi, perciò non possiamo permettere che questo ci accada. Allora possiamo usare i nostri piedi come se fossero quelli di chi ha sofferto chiedendo se vogliono camminare con noi vivendo attraverso la nostra vita, infatti possiamo chiedere alla presenza mentale di nostra madre, di nostro padre, o della persona che abbiamo amato nel passato di voler procedere assieme a noi.

Possiamo camminare donando la pacificazione della loro presenza mentale in noi, perché essi vivono in ogni atomo e in ogni cellula del nostro corpo perchè la loro presenza fisica è nostra, infatti i nostri piedi sono di nostro padre, le nostre mani di nostra madre, e gli occhi hanno lo sguardo dei nostri antenati, perciò ci ritroviamo a procedere ricchi delle presenze che sono vive e che vivono tramite noi. Saper fare questa pratica è una cosa eccezionale che infonde grande gioia, poiché sentiamo la forza dei legami fisici e spirituali che scorrono nelle nostre vene: questo ci infonde molto appagamento interiore perché siamo riuniti a coloro che amiamo, e diamo a loro la possibilità di rivivere tramite noi.

Quando saremo bravi sapremo camminare anche per conto del nostro nemico, e questo avverrà quando diverremo consapevoli di coloro che distruggono il nostro paese, che bruciano la nostra casa e che uccidono tutte le persone che ci sono care, e li sapremo vedere come degli esseri inconsapevoli e infelici, perciò sappiamo vederli come esseri ignoranti perchè privi di ogni amore, di ogni compassione e di ogni forma di comprensione. Gli esseri che vivono nella carenza diventano infelici, e la forza della loro infelicità diventa così intensa da non potersi sostenere, perciò essa tracima all’esterno: perciò rendono infelici tutti quelli che si trovano nel loro raggio d'azione.

E' evidente secondo Tich Nhat Hanh che, questi infelici non sono riusciti a creare alcuna gioia e alcuna pace per se stessi perciò non sanno diffonderla nel loro mondo, infatti non hanno saputo come si deve procedere, in quanto il nostro camminare deve essere sempre consapevole del tipo di impatto che si vuole lasciare nel mondo. E’ sicuro che verrà il momento in cui tutti sapremo procedere anche per i nostri nemici, perciò tutti arriveremo al cammino del Budhha che è nel nostro destino, e tutti diverremo dei bodhisattva d’amore, di compassione e di comprensione, perciò intanto iniziamo imparando da subito a camminare con presenza almeno a noi stessi.

Buona erranza
Sharatan

martedì 15 febbraio 2011

Per vivere nella situazione


“Le opere d’arte, il più alto livello di produzione spirituale,
piaceranno alla borghesia, solo se saranno in grado
di generare direttamente della ricchezza”

(Karl Marx)

Credo sia evidente come il nichilismo e l’utilitarismo uniti al capitalismo sfrenato possano deflagrare ogni significato del vivere umano, perché se gli occhi vedono l’uomo come privo di qualità, e se la realtà è tutto ciò che è, solo in funzione del profitto concreto, allora ogni vivere sociale diviene impossibile. Secondo Miguel Benasayag, una filosofia di vita in cui l’utilitarismo riduce l’uomo come un automa può creare solo esseri in cui abita la morte; ecco perché queste teorie sono ostili alla gioia di vivere, e perché nutrono l’uomo con delle “passioni tristi” mentre lo tengono impegnato in una corsa folle priva dell’obiettivo finale.

Nella nostra società, in cui l’uomo vive per la sopravvivenza minima, vediamo il contesto in cui nell’essere umano viene uccisa ogni libertà, ogni vita e ogni gioia, perciò gli viene sottratta tutta la sua energia vitale. Essendo giunti a questo punto, dice Benasayag, oggi “si tratta di sviluppare una filosofia e una prassi che, parlando alla quotidianità dell’essere, ci permetta di rovesciare la struttura sociale spettacolare“ ed è necessario che l’uomo rivendichi la sua vita ripensando alle strutture che condannano all’astrazione e al disconoscimento della realtà in cui siamo collocati. Se vogliamo ricostruire una trama dobbiamo iniziare dal quotidiano, perché la vita va risanata usando dei principi reali e delle azioni immediate per avere dei risultati concreti, perciò è urgente ritrovare la percezione del nostro essere come entità fisica.

Infatti si tratta di ripensare la vita reale, perché la realtà è connotata da situazioni, cioè da contesti che non dipendono da noi, ma che costituiscono il tessuto del nostro vivere, perché riprendere il controllo significa essere vigili alle situazioni, infatti le nostre azioni acquistano una maggiore efficacia strategica. Ripensare la libertà è possibile se sappiamo ritenerla diversa dal dominio, perché noi siamo liberi quando comprendiamo che la realtà non è uno strumento, ma è il contesto in cui siamo inseriti, e in cui abitiamo nel corso del vivere, e le nostre situazioni sono le relazioni familiari, i rapporti lavorativi, il rapporto che viviamo con il nostro corpo, perché sono i vari contesti in cui l‘uomo si confronta con le sue passioni, con i suoi interessi e con tutti i livelli del suo vivere.

Nella confusa realtà odierna, la strategia giusta, dice Benasayag, è riuscire a vivere bene nelle nostre situazioni, e saper vedere la vita come un’insieme di situazioni in cui siamo inclusi, perciò dobbiamo vedere come la realtà sia una complessità con una sua struttura indipendente dalla nostra volontà egocentrica. Ma, per saper rifondare il nostro pensiero, e imparare a “pensare in termini situazionali” questo implica che dobbiamo eliminare l’equivoco preliminare che crede l’uomo come il soggetto assoluto, in quanto così indeboliamo la società fondata sull’egocentrismo.

Queste teorie della situazione, dice Benasayag, corrispondono al pensare e all’essere presenti nella consapevolezza della fragilità umana, perché è così che possiamo accogliere la bellezza della “quotidianità dell’essere” per cui vediamo l’esistenza dell’universale anche nel vivere concreto. Sentirsi una fragile essenza umana diventa una ricchezza, perché ci insegna ad usare il pensiero in modo più profondo e denso, perciò entriamo nel tempo in cui non vi è alcun Dio o giudice che può condannarci perché noi siamo già denudati. Se noi diventiamo una pura essenza nel nostro “essere nel mondo” diventiamo la molteplicità tra le molteplicità, perché siamo degli atomi dell’universo, quindi sappiamo che è nella nostra essenza materiale che spira, in forma concreta, tutto il soffio della trascendenza.

Benasayag ricorda che anche Spinoza diceva che, l’universale concreto è quello che ci permette di pensare al tutto come a un elemento della parte, perciò sarà evidente che non esiste un universale se non inserito nella situazione, che diventa un tutto in scala ridotta. Poiché Damascio Damasceno affermava che: “L’essere è l’attività dell’ente, che coincide con l’essenza” sarà anche evidente, che l’essenza della cosa è ciò che essa è, ed il permanere dell'essenza sarà dipendente dal suo modo di essere e dalla sua attività, perciò da quella che è la sua tendenza a essere.

Uscire dall’utilitarismo equivale all’abbandono del concetto della nostra utilità personale, anche per le situazioni che viviamo in modo contingente, perciò comprendiamo che avere il potere non significa cambiare tutto a nostro capriccio, ma è sapersi chiedere con quale tipi di azioni ristrette abbiamo il potere di sviluppare la maggiore potenza del nostro potenziale nella situazione, e per la situazione. Questa capacità di intelligenza strategica ci fa trascendere nell’Adesso, infatti il presente ci libera dal pensare in termini di sfruttamento e ingiustizia, perché possiamo subito riprendere in mano le redini della nostra vita per diventare i soli padroni del nostro destino.

Assumersi un destino personale è giusto perché ci riprendiamo solo ciò che è nostro, compreso il peso di ciò che non abbiamo voluto ma a cui non ci siamo opposti, in quanto anche il non voler scegliere ha il suo valore. In questo senso avviene la riconciliazione tra il destino e le azioni umane, infatti il destino è un elemento e una tendenza delle situazioni ma non è una condanna, in quanto l’uomo ha sempre la libertà di praticare la strategia migliore, e resta sempre libero di fare questa scelta, ed è libero fino all‘ultimo respiro.

Tutta l’esistenza umana, diceva Sesto Empirico, è percepita intorno ai concetti che noi forgiamo, infatti sono le affezioni sensoriali che modellano il nostro mondo, e il “concepito” è frutto dell’elaborazione mentale, che viene dalla nostra strutturazione, che è sempre antropocentrica, perciò il soggetto giudica il mondo come se fossero cose che lo compongono intimamente: è questo il motivo per cui il “punto di vista” è soggettivo. Ma Sesto può essere smentito dall’obiezione che il soggetto è sempre incluso nel contesto e nella situazione che sta osservando, perciò anche il soggetto va incluso nella situazione stessa: questa obiezione indica che il “punto di vista”centrale è possibile solo nell'esame della situazione totale, e che non vi può essere uno sguardo completo usando la visuale di uno degli elementi.

I vari elementi possono percepire la situazione in modo diverso, infatti in ogni punto di vista vi sono sensibilità maggiori o minori, ma esse sono delle percezioni individuali che devono venire sempre innestate nelle situazioni, perché le situazioni seguono un loro corso autonomo. E’ in questo contesto che superiamo il soggettivismo dei vari gradi di sensibilità e intensità di vivere, per ammettere che esiste la verità assoluta solo se è relativa alla soggettività dell’essere umano. Perciò non si tratta di accettare che esiste quello che viene percepito dal singolo, ma si tratta di definire con quale potenza ciò che esiste, esiste nella situazione: perciò bisogna ammettere che esiste qualcosa che è dotato di potenza e di efficacia maggiore, poiché ogni situazione ha delle potenzialità evolutive che possono essere utilizzate meglio dall’essenza per permanere in vita.

Questa concezione dinamica delle situazioni è il superamento della verità statica, perché la verità diventa l’esigenza del divenire, perciò essa vive nello sviluppo della situazione, infatti nelle situazioni vi è sempre una potenzialità evolutiva, ed è il nostro sguardo che sceglie in relazione alla quantità di realtà che riesce a percepire. Gli uomini sanno che è l’incontro con una verità, dice Benasayag, che è il punto di partenza per lo sviluppo e il riordino delle attività umane, infatti è così che nasce l’esigenza evolutiva che è sempre permanente all’interno di ogni situazione. E‘ questa esigenza evolutiva che ci permette di manifestarci, perciò la verità vive nella dinamica in cui vanno inseriti gli “enunciati dell’essenza“ che sono il senso del nostro agire.

L’esistenza della prassi, perciò l’agire, non è sempre collegato al grado di coscienza dell’essenza, perché una “prassi” non ha necessariamente la necessità di essere capita o giustificata, infatti l’uomo non sempre partecipa con il pensiero alla creazione del senso delle sue azioni. Non solo l’uomo non domina il suo linguaggio, ma l’essere umano riesce a spingersi fino a possedere delle verità che non riesce a comprendere e conoscere, infatti anche Spinoza parlava dell’automa spirituale che è il contesto “in cui non siamo noi ad avere delle idee, ma sono piuttosto le idee ad affermarsi in noi.”

E’ solo la “malafede” umana che invoca le determinanti delle situazioni come alibi per sfuggire alle esigenze che le situazioni richiedono, perché è la codardia che spinge al collaborazionismo e al conformismo di chi invoca come giustificazioni il “dover obbedire agli ordini” e “come potevo oppormi?” E’ la totale inerzia delle “passioni tristi” che condanna gli individui all’impotenza, sebbene si venga pressati dalle esigenze più urgenti. Se la vita umana fosse improntata all’utilità non potremmo capire il coraggio, la passione e la generosità umana, perciò se la logica della vita umana fosse solo utilitaristica ci dovremmo chiedere perché esistono la poesia, la musica, la solidarietà, l’amore e il rispetto tra gli uomini, e dovremmo dimostrare l’utilità di queste cose così astratte e così inutili.

Per saper vivere un utilitarismo “alternativo“, dice Benasayag, è necessario capire che la radicalità del vivere umano passa attraverso la nostra fragilità per cui diventiamo capaci di difendere la vita e la gioia in forza del nostro valore minimo, perché comprendiamo che la vita è solo un breve passaggio, perciò i suoi valori fondamentali vanno ben oltre ogni utilità concreta. La nostra fragilità ci insegna ad apprezzare l’inutile che è nella poesia, nella musica, nella solidarietà, nell’amore e nel rispetto tra gli uomini, nell’ammirazione delle bellezze della natura e nella tenerezza e la protezione che dobbiamo ai fratelli minori delle specie animali. E’ solo la forza contenuta nella fragilità, e non è certo la logica umana che ci fa comprendere come siano questi i valori che vanno difesi, ma non perché sono utili, ma perché essi sono il mezzo giusto per conseguire un maggiore benessere futuro.

Buona erranza
Sharatan

sabato 12 febbraio 2011

Individui paradossali


"Non c’è un punto in cui sia possibile fissare i propri limiti,
in modo da dire: fino a qui sono io"

(Plotino - Enneadi)


Miguel Benasayag è un filosofo e uno psicanalista argentino. E’ stato in carcere per l’opposizione al regime militare argentino, e da oltre 30 anni vive in Francia dove insegna logica matematica e lavora come psicanalista. E’ animatore del collettivo “Maigré tuot”ed è uno degli organizzatori delle “Rete di Resistenza Alternativa” che opera in campo politico e sociale in Europa e in America Latina. Per la sua formazione è stata essenziale la militanza in gruppi di ispirazione quevarista, Benasayag è autore di un appassionante saggio in cui analizza quale tipo di individuo sia stato prodotto dalla società capitalistica occidentale.

Secondo Benasayag non possiamo negare la morte dei miti e delle illusioni, perché il presente è inquieto e lucido dei suoi mali, per cui è impossibile negare che l’ottimismo dell’età moderna ha ceduto al pessimismo dell’era post-moderna dove l’essere umano è impotente di fronte ad un mondo complesso, inquietante e sempre più virtuale anche nelle sue paure. La nostra è una realtà da cui si vorrebbe fuggire in cui l’uomo si sente piccolo e fragile, perché non può fare altro che guardare senza poter agire: è così che vive l’individuo moderno. Lo strano essere si sente isolato e si percepisce separato da tutto, perché nulla gli appartiene con certezza, perciò si aggira per il mondo come se gli altri uomini, gli animali e la natura fossero solo “una scenografia appositamente realizzata perché egli possa condurre tranquillamente la propria esistenza.”

La nostra è un’epoca di inquietudini e di “passioni tristi” perché tutto riduce la nostra potenza d’azione sul mondo, perciò la modernità ha creato un uomo che è l’animale irrealizzato” di una “umanità incompiuta” che non sa cercare il senso della vita, e che perciò non conosce il modo di collocarsi nel mondo. Il progresso con le sue “magnifiche sorti e progressive” ha alimentato sentimenti di disperazione, perché il tutto e la globalità sono “una disperazione davanti alla quale l’individuo esiste solamente come pura impotenza e desolazione.” La complessità del mondo è percepita in tutto “il tessuto dell’individuo” che “in ragione del suo incredibile intrico, ci rende incapaci di stabilire una via d’azione” per assumere il controllo di noi stessi e del mondo.

L’individuo è una creazione della modernità, dice Benasayag, ed è una entità che si autoproclama come “soggetto autonomo, separato dal mondo percepito come oggetto che può padroneggiare e fare suo.” Modernamente è avvenuto un arretramento verso “l’individualismo egoista” in cui ognuno guarda solo ai propri interessi e non percepisce dei legami sociali, viviamo senza alcun progetto economico e privi di una filosofia di vita. In questo senso non esiste alcun concetto di massa che si oppone all’individuo, perché l’individualismo egoista è “l’istanza fondamentale di qualsiasi massificazione” perciò diventa una cosmogonia e un potere. Se tutte le crisi sono connotate dal crollo delle fondamenta culturali della civiltà, la crisi della cultura capitalista sarà una fine paradossale, perché la nostra epoca si era illusa di decostruire i valori, abolire i principi e di eliminare i divieti e i limiti umani.

La cultura nata in Occidente in epoca moderna è stata definita “l’età dell’uomo” e inizia con l’azione che è temuta più di tutte, infatti ha voluto “la perdita del sacro.” L’uomo ha cacciato gli dei dal cielo per costruire una Torre di Babele usando la scienza e la tecnica, perciò l’uomo non conosce più dei principi più o meno sacri che si possano frapporre tra lui e il cielo. La libertà umana si è costruita sul dominio assoluto del mondo e della realtà: è il capitalismo che ha costruito questo individuo infelice e paradossale.

L’uomo è il soggetto su cui si costruisce tutta la realtà e intorno al quale tutto ruota, in quanto l’uomo è divenuto “chi non è ancora ciò che dovrebbe essere” della problematica di Heidegger, dice Benasayag, che è una teoria di estrema modernità, in quanto afferma la natura “dell’essere come essenza” e dell’”esser-ci” come tendenza fondamentale della natura umana. L’individuo moderno non si è ancora realizzato, perciò è molto melanconico nella sua incompiutezza che lo fa sentire sempre carente, infatti l’uomo vive solo nel tempo presente da cui riceve frustrazioni, oblii e carenze che non lo fanno sentire padrone del mondo, ma lo fanno vivere “sospeso in attesa” del suo compimento.

La completa completezza verrà quando si avrà la padronanza totale, perciò la libertà da ogni asservimento umano è un processo di cui godere solo nel futuro, dice Benasayag. Per l’uomo moderno le leggi, i limiti, e i principi etici sono una sfida che limita il suo potere, perciò averli in proprio dominio diventa la via per dimostrare che si sta avanzando verso il completo compimento futuro di libertà totale. La libertà dell’individuo che disprezza le regole è un dominio, perché l’individuo è un’organizzazione e una forma di dominio sociale basato su di una “deterritorializzazione permamente” come dice Deleuze, perciò essa è totale e totalizzante.

L’individuo non è un’illusione, egli è una “piega” di un tutto, è l’increspatura dell’onda, che è l’infima parte del tutto, in cui vi è anche un corpo che è materia ma, intorno a lui, vi sono altri molteplici che sono ognuno di noi. Le cosmogonie delle età non moderne vedono l’uomo come una molteplicità non numerabile, perciò come un molteplice che si intreccia agli altri molteplici, e che vive nell’infinito della creazione confuso in quella realtà essendovi incluso. L'uomo antico è consapevole della sua finitezza perché si sente solo un “accidente” dell’infinito. Il mistero umano è nella finitezza dell’uomo, poiché altro mistero non esiste in quanto, se la creazione è infinita, per l’infinito non esiste alcun limite.

Una persona, al contrario dell’individuo, dice Benasayag, è pensabile come diversa dall’una, perciò la persona è una non-unità, infatti non possiede sostanza, perciò non gli viene riconosciuta un’importanza tale da farla elevare per fargli godere di determinati privilegi individuali. La libertà nel mondo antico non significava che ci si poteva arrogare il diritto di sfidare le leggi e le regole, infatti la libertà non è una sfida alle situazioni, essa non è una potenza vitale che si sprigiona per ottenere sempre più sostanza esteriore. E’ questa limitatezza mentale moderna che non ci fa comprendere perché Socrate accettò di bere la cicuta piuttosto che fuggire, come molti volevano, ma perché decise che le leggi erano superiori anche alla voglia di vivere di Socrate, per cui si consegnò al suo destino.

L’uomo moderno è un individuo che sente la mancanza, perciò aspira solo alla fissità della pietra, ed esiste solo se può pervenire alle sua meta, che è l’ideale punto finale di un sentiero: l’idolo dell’uomo moderno è il sedentario che vive, che percepisce e che soffre ogni desiderio e ogni passione come se fossero delle dolorose prove che accentuano la propria incompiutezza che è una fondamentale carenza di essere, in un’esistenza segnata da perenne e ansiosa attesa. Il sedentario che “aspira ad essere” vive il presente come speranza, ed è la speranza dello schiavo che sogna la sua rivalsa e che consuma la sua vendetta nei sogni che vive come illusione di libertà.

L’uomo non moderno è una figura nomade per cui il divenire non è attesa passiva, infatti fare un percorso è mettersi in viaggio, e non corrisponde all’attesa inerte, in quanto la compiutezza si ricerca così che essa possa diventare una presenza percepita intimamente in ogni istante del vivere. La presenza dell’uomo moderno è l’istante che non assume alcuna forza e che non permane, perché è la tensione del passato che non c’è più, e del futuro, che deve ancora venire. Questo tipo di presente non riesce ad esistere, perché dilata il suo significato in un vivere annoiato, perché vi è noia in ogni attesa, perciò il presente moderno diventa una frazione di istanti che vengono assommati e accumulati in un continuo succedersi di noia, che è una catena che si snoda per tutta la vita.

Questo presente crea la vita inesistente dell’uomo moderno, che è un uomo ad una sola dimensione piena di paura, speranza, noia, angoscia e di tutti i timori dell’avvenire: perciò una vita che è dominata solo da paura e morte diventa una semplice sopravvivenza, dice Benasayag. Il presente del nomade è un presente che si dilata, perché è molto più ampio dell’istante presente, poiché caratterizza tutte le situazioni che viviamo e a cui partecipiamo, essendo dei molteplici in mezzo alla molteplicità. Questo presente è ricco perché è costruito da tutto il passato in cui sono le fondamenta di tutto ciò che noi siamo, ma il nostro presente possiede anche il compimento del futuro che si costruisce vivendo bene il presente, perciò nel presente vi è tutto il quadro della nostra rappresentazione.

Tra l’uomo moderno e l’uomo del passato è avvenuto il completo ribaltamento del “punto di vista,” perché per l’uomo moderno il solo punto di vista è il soggetto, che osserva il mondo come una realtà esterna ed estranea alla sua persona. La nostra cultura pensa al mondo in contrapposizione all’uomo, perché il soggetto e l’oggetto sono due realtà contrapposte, infatti riusciamo a creare anche un mondo virtuale che è sempre più distante dalla vita concreta, perciò fa divenire sempre più complessa la nostra vita. Da ogni messaggio esterno giunge l’immagine di un mondo che minaccia l’uomo ingenerandogli paura e impotenza, perciò non resta altra via che rifugiarsi nei sogni o cadere negli incubi del potere.

In questa realtà vivono individui di “arroganza monolitica” che si sentono padroni dell’universo e, per cui il loro vissuto personale diventa una verità assoluta. Questa manovra egocentrica è una mossa astuta perché, se ognuno ha la sua verità, la verità diventa tutta relativa perciò non esistono delle basilari verità umane che siano in difesa della vita. Un mondo di questo genere crea degli attori protagonisti che riducono gli altri al ruolo di comparse, infatti si vive nel mondo personale di verità personali, e l’uomo vive di grandi sogni, ma poi riduce tutta la vita alla normalità quotidiana e ricade nella sua routine. L‘uomo moderno è quello che si scandalizza per i mali del mondo, ma poi si affanna veramente solo per la sua quotidianità.

La società dell’individuo è quella della separazione composta da so9ggetti disincantati dal mondo, di cui non sappiamo se sono cattivi o se lo diventano solo per l’influsso nefasto di una società malata ma, questa società finge e tratta l’uomo come se fosse buono. Oggi i teorici della comunicazione e gli ideologi della civiltà dello spettacolo trattano l’uomo: “come se nascesse solamente oggi, come se fossero spuntati di colpo dalla terra alla stregua delle zucche” usando la teoria di Hobbes che diventa una metafora che illustra bene la nostra modernità. L’individuo non possiede l’innocenza della zucca, esso è atomo e cardine di uno sviluppo capitalistico, perché è l’individuo del potere: il problema vero non è come eliminare il potere da questo individuo, il nucleo essenziale è come fuggire dal potere di questo tipo di individuo.

L’egoismo primordiale dell’uomo sembrerebbe negare la possibilità di trasformare l'amore di sé, del tutto o della parte, dice Benasayag, in amore e in rispetto del prossimo. In effetti anche per Freud l’amore era sospetto, perché l’amare l’altro come se stesso deve fare i conti con un terribile ignoto perché, in fondo, nulla sappiamo del modo che ognuno di noi usa per amarsi, oppure per detestarsi. L’uomo sembra nato per fare calcoli, perciò dovrebbe conoscere il vantaggio del sacrificio di piccoli fini in nome di beni maggiore: ma l’uomo non vede mai chiaro, infatti è ingenuo pensare che tutti sappiano vedere i loro interessi migliori, perciò mi spiego perchè non ci liberiamo di una vita di carenze.

Buona erranza
Sharatan


martedì 8 febbraio 2011

I fiori della beatitudine


"Essere, semplicemente essere, è una sfida"

(Tahar Ben Jelloun )


Secondo Osho, l’occidente basa le sue tradizioni e le sue idee su cose morte da molti secoli, per questo l’uomo occidentale sente all’interno del suo essere una sorta di morte. Se ogni uomo si riconosce per la compagnia con cui ama stare, la mente occidentale è ingombrata di troppe cose che sono inutili per guidarlo nella conquista della felicità, e sebbene il suo pensiero riesca a costruire complicate metafisiche, la mente occidentale non è avvezza ad interessarsi della sua essenza interna.

L’uomo è troppo disinteressato a ciò che gli è vicino, perché è un fatto scontato ed è il più ovvio da vedere, perciò l'uomo s’impegna a studiare ciò che è sempre più lontano, infatti è sbilanciato verso lo spazio remoto su cui concentra tutti i suoi interessi. Il punto focale dell’occhio occidentale è sbagliato, infatti la nostra mente si preoccupa solo della periferia e della superficie delle cose, perchè per secoli abbiamo costruito e coltivato delle ideologie, delle pratiche educative e degli strumenti sociali che sono funzionali a sviluppare l’io personale.

Questo stato di cose è fin troppo logico e non ci deve stupire, perché la civiltà occidentale è molto competitiva e gli individui lottano ferocemente per le stesse cose, infatti tutti ricercano i medesimi obiettivi e oggetti, ed è evidente che, se coloro che rincorrono le stesse cose sono troppi, non tutti le possono ottenere. Evidentemente, in un ambiente che vive solo di competizioni nessuno può essere tenero, non puoi essere gentile e non puoi comportarti bene con gli altri, ma devi essere pronto a rispondere colpo su colpo.

Nessuno deve preoccuparsi dei mezzi da usare per raggiungere lo scopo, infatti se il fine è ambito non vi è alcun mezzo che sia inadeguato, e niente è inopportuno se è funzionale ai fini. Tutto giustifica tutto, e tutto è ridotto alla mercificazione dall’etica moderna che è basata sullo sfruttamento, e sulla prostituzione totale delle persone, delle idee e dei sentimenti. Poiché tutto si basa sulla competizione è solo il più furbo e disinvolto che vince perché è carente delle elementari norme di correttezza nel suo comportamento, infatti per vincere devi lottare senza esclusione di colpi sapendo tacitare gli scrupoli.

Se vuoi essere ricco devi guardare la meta concreta, e non devi preoccuparti se stai travolgendo tutto ciò che incontri perché sbarra la strada delle tue ambizioni che diventano infinite come fame e sete inestinguibili, ma le coltiviamo e avanziamo perché conta solo raggiungere la vetta. Tutto quello che conta diventa come rinforzare e consolidare il nostro ego per poter aspirare a essere i primi del mondo, e per essere superiori a tutte le regole e per fare tutto ciò che vogliamo, perché noi siamo quelli che possono e tutti si devono inchinare alla nostra volontà.

Se troviamo l'occasione per una riflessione lucida vediamo come la nostra educazione rinforza l'evoluzione violenta delle persone, perciò anche partendo da prospettive politiche diverse, e pur disponendo del medesimo tipo di materiale umano, seppure si promuovano delle diverse forme di struttura politica e, malgrado diversi tipi di energie personali, purtroppo vediamo sempre i medesimi risultati di violenza e di prepotenza, con delle prevaricazioni consumate a danno di chi viene lasciato ai margini della competizione per essere macinato come un materiale da scarto, perché è troppo debole.

Secondo Osho, anche il modo che gli occidentali usano per salutarsi risente della nostra impostazione culturale alla violenza, perchè nel tendere la mano destra per andare a stringere la mano destra dell’altro dimostriamo la nostra indole competitiva, in quanto la mano destra è quella con cui si impugnano le armi. Tendere la nostra mano per far vedere che è disarmata serve per rassicurare l’altro che le nostre intenzioni non sono bellicose, perciò noi eliminiamo il sospetto di poter subire un’aggressione fisica.

Nelle civiltà orientali si usava congiungere le mani per portarle all’altezza del cuore e poi s'inchinava il capo perché, nell’inchinarsi si onorava la divinità che vive nel cuore di entrambi, in quanto essa abita in tutti gli esseri viventi. Nell’inchinarsi fino a toccare i piedi del maestro si offriva la massima onorificenza sia all’uomo che la riceveva che a colui che la offriva, infatti il maestro era omaggiato per l’onore dei suoi meriti, ma anche il discepolo dimostrava di avere conseguito il puro essere e di avere rinnegato ogni superbia dell'ego, scacciandola dal suo cuore.

Nel rinnegare la presunzione egoica si diventa pura beatitudine, ma la mentalità occidentale non può comprendere una tradizione in cui si rinuncia alla competizione, perché viene insegnato che la morte è migliore della sconfitta e dell’insuccesso. La nostra tradizione coltiva l’individualismo come sviluppo dell’ego, sebbene sia una beffa e un insulto alla nostra intelligenza infatti, se maggiore è lo spazio concesso all'egocentrismo sarà sempre minore il grado di sviluppo dell'individuo, non potendo coesistere entrambi nel medesimo spazio.

Se tutto l’essere si cristallizza intorno ad un “io” troppo rigido non può restare alcuno spazio in cui poter ospitare l’individualità, perché essa deve accrescersi e deve arricchirsi usando le esperienze, e l’individuo non può avere legami con le imitazioni amate dall‘io. E' l’io che teme di confrontarsi per paura di frantumarsi perciò non sa piegarsi, mentre l’individuo non teme gli altri da cui impara, lui non fa confusione e non si sente invaso, poiché nel confronto si sente arricchito e non deprivato delle sue caratteristiche.

L'individuo non perde alcun vantaggio nei riguardi del mondo, anche se deve modificare le sue opinioni, poiché dal cambiamento proviene l'arricchimento, e dall’evoluzione della coscienza proviene una crescita costante. Sapersi inchinare alle ragioni degli altri, dice Osho, è un’azione che fa discendere e riversa dei “fiori di beatitudine” sull'individuo, perché lo fa sentire vivo perciò lo acquieta, infatti nell'essere in condivisione il nostro essere avverte un “silenzio celestiale” che dissolve le oscurità dell’ego.

Nell’inchino orientale vi è la morte egoica perché è la sua completa mortificazione, infatti è solo l'individuo integro che può compiere una gesto simile, in quanto comprende come la condivisione della reciproca divinità offre la consapevolezza dell'essere che è totalmente vivo in noi. La mente occidentale è inquinata dalle lotte, dai conflitti e dalla violenza perché tutti ripetono che ci dobbiamo far valere, che dobbiamo dimostrare il nostro valore, e che il mondo lo deve riconoscere, perciò non possiamo abbassare la guardia, infatti dobbiamo avere un ego sempre più forte.

I politici e gli economisti insegnano che il mondo va trattato senza pietà e con cinismo, perché in un mondo tanto feroce chiunque può piantare un coltello nel fianco, e tutti fanno del male se appena conviene. Così diventiamo sempre più feroci nella difesa dell'egocentricità umana, infatti ci nutriamo di apparenze, usiamo ruoli e vogliamo raggiungere lo “status” migliore con cui l’ego si possa gonfiare per accrescere la sua importanza, in quanto l’ego sa usare solo oggetti materiali per esistere.

L’uomo orientale ha coltivato per molti secoli una via di conquista migliore che spinge l’individuo alla sua realizzazione interna, poiché usa una dimensione in cui gli altri non vanno conquistati o soggiogati, perché l’umano da sottomettere e conquistare siamo noi stessi, e gli altri sono i viandanti che percorrono le strade del mondo come noi. La nostra via di realizzazione non può includere tutti i confini e gli oggetti del mondo, ma possiede la capacità recettiva idonea per contenere interamente la nostra essenza, ed è questa la meta più ambita da realizzare nella vita.

Pascal riflette sulla natura dell’uomo politico raccontando di Giulio Cesare che davanti alla statua di Alessandro Magno si fermò a piangere sconsolato, perché Alessandro a 29 anni aveva conquistato un impero enorme per morire a 32 anni con un destino glorioso di vincitore. Cesare piangeva perché era partito troppo tardi nella conquista, e a 32 anni non era riuscito a conquistare neppure il senato. Pascal riflette sconsolato che la scena è molto patetica, perché Alessandro era tanto giovane che poteva anche illudersi di poter conquistare tutta la terra, ma da Giulio Cesare, che era più anziano, si sarebbe aspettato il possesso di una maggiore saggezza.

Pascal aveva il disprezzo della classe politica, e non stimava l’intelligenza di coloro che vogliono il potere, infatti nell’uomo ragionevole non vi è alcuna volontà di conquistare il mondo perché, supposto che riesca nell’impresa, non si può pensare di prevalere sempre su tutti poiché è una pretesa illogica, infatti Pascal riteneva che il politico fosse un essere dotato di poco cervello. Sebbene la teoria di Pascal sia consolante non possiamo negare che la nostra civiltà non apprezza, piuttosto isola, perseguita e condanna tutti coloro che incitano alla conquista di sé stessi, perché la nostra società ha bisogno della nostra paura per tenerci incatenati al ruolo di schiavi.

L’uomo che non ha paura di essere non può essere schiavo, egli non teme l’isolamento perché si sente sempre incluso in tutto ciò che vive, egli non ricerca conflitti e non usa gli altri per prevalere, perché lo schiavo e il padrone esistono solo nelle culture dei conflitti che sono contrarie alla felicità umana. L’uomo che non ha paura di conoscersi apprezza tutti i confronti ma non si paragona in quanto, un uomo che guarda solo al suo interno, può essere solo Testimone della sua essenza personale.

Buona erranza
Sharatan

sabato 5 febbraio 2011

Il maestro inconsapevole


"Siamo ciò che pensiamo,
essendo divenuti ciò che abbiamo pensato"

(Buddha)


Il maestro zen Kasan era molto stimato perciò, quando morì il più nobile e facoltoso cittadino della sua provincia, gli fu chiesto di officiarne la cerimonia funebre. La famiglia del morto era conosciuta e stimata, perciò i funerali sarebbero stati grandiosi, infatti vi avrebbero preso parte le persone più nobili e ricche, e lo stesso governatore della provincia per conto dell’imperatore. Mentre era in attesa di preparare la funzione per la benedizione della salma, Kasan si accorse di avere le mani sudate, perciò il giorno dopo convocò tutti i suoi discepoli per comunicare che scioglieva la scuola, poiché non era degno di essere un maestro non avendo nulla da insegnare.

Davanti agli sguardi allibiti dei suoi discepoli Kasan spiegò che non era in grado di indicare alcuna via per conseguire l’illuminazione, poiché lui stesso non la conosceva, infatti non era stato capace di trattare il più misero mendicante nella stessa maniera del rappresentante dell’imperatore. La sua consapevolezza non era stata in grado di trascendere i ruoli sociali, perchè la sua mente era ancora contaminata dalle identità concettuali ed era incapace di vedere oltre le apparenze formali. Dopo aver lasciato tutto, Kasan si recò presso un grande maestro per ricominciare l’apprendistato, e solo dopo che ebbe ottenuto l’illuminazione, ritornò ad istruire dei nuovi discepoli.

Questa storia zen insegna che le persone assumono dei ruoli e delle apparenze che nascondono la loro vera essenza, e questo è naturale perché le apparenze esteriori nascondono sempre la realtà, infatti sono i nostri ruoli sociali e le nostre convenzioni esteriori che emergono per prime, in quanto il mondo e la società ci richiedono di adottare dei travestimenti che ci difendono, ma che falsificando la nostra vera immagine. Il nostro ego impara ad usare questi travestimenti, perché conosce solo questo modo di comportarsi, in quanto l’educazione e le maschere sociali sono l’unico modo che ha imparato per rapportarsi con il mondo.

Le persone assumono dei ruoli che diventano dei fatti e delle situazioni interiori fino a farle coincidere con il modo di sentire e di vivere il mondo, perciò il ruolo diventa il nostro unico modo di essere: le condizioni esterne diventano le nostre emozioni intime, e non sappiamo riconoscere che le sensazioni che proviamo sono solo il riflesso dei condizionamenti a cui siamo stati indotti. I nostri pensieri sono il prodotto dei nostri condizionamenti, perciò le storie che vengono usate per educarci diventano le emozioni e le sensazioni che scambiamo per il nostro autentico Essere.

La causa dell’infelicità umana è in questa confusione percettiva da cui non sappiamo uscire, infatti confondiamo il pensiero e la sensazione con le emozioni e le subiamo passivamente senza riuscire a governarle, perché non ci appartengono realmente. La storia zen aiuta a capire che il pensiero non corrisponde ai fatti reali, ma sono i condizionamenti che ci impediscono di vedere: essere consapevoli della realtà significa capire che i fatti e i pensieri che sono costruiti sui fatti, sono delle cose diverse, infatti imparare a separare il nostro pensiero dalle nostre sensazioni non è affatto facile.

Se la realtà mentale delle cose si confonde con il pensiero che nutriamo riguardo alle cose stesse, iniziamo a nutrire la sofferenza interna perciò, saper vedere le cose per come sono, equivale ad acquisire il potere di padroneggiare la realtà. Guardare la realtà infonde potere, perché libera l’uomo dalle illusioni che egli nutre riguardo la vera natura del mondo: saper guardare i fatti in modo oggettivo ci libera dal “pensatore” che “crede” di pensare ma che vive schiavo della sua mente. Il pensatore è un succube dei suoi meccanismi, perché è incatenato alle illusioni di dati falsi ed illusori, mentre l’essere illuminato è libero dagli inquinamenti.

Le nostre identità sono collegate a dei ruoli a cui reagiamo inconsapevolmente come degli automi, perciò l’uomo vive tutta la vita come un prigioniero delle finzioni, anche quando esse non gli sarebbero affatto necessarie, in quanto esse sono divenute un surrogato della vita e, vivere di tali surrogati, gli impedisce di poter acquisire il giusto apprezzamento del vero gusto di vivere. Tutti temono di perdere il controllo dei ruoli a cui sono abituati, perché l’ego costruisce la sua identità sulla base di queste bugie e di queste falsità: l’inconsapevolezza umana è basata sulle falsità perché l’ego ha la necessità di sopravvivere ad ogni costo.

Le maschere dell’ego diventano il nostro unico modo di funzionare, perciò crediamo che queste finzioni siano la nostra unica possibilità di essere felici, in quanto crediamo che la felicità equivalga a saper indossare in modo convincente le maschere e i ruoli, perciò essi vengono difesi strenuamente dallo stesso prigioniero. Questo è il modo con cui degli schiavi diventano complici della loro condizione di schiavitù esistenziale e mentale, e questa motivazione è sempre inconsapevole, perché è l’ego che ci sta manipolando usando la nostra mente e il nostro desiderio di essere felici fuggendo dalla sofferenza.

La resistenza al cambiamento è la battaglia in cui l’ego si impegna in nome di questa presunta felicità nella difesa di una fittizia integrità interiore, infatti l’ego si nasconde dietro le sue disfunzioni rendendoci ciechi alle sue motivazioni e ai suoi veri meccanismi. La resistenza al cambiamento ci limita nella comprensione e nella scoperta di chi siamo veramente, perché noi siamo sconosciuti a noi stessi, ma resistiamo per essere prigionieri della limitata intelligenza egoica. Acquisire la piena consapevolezza del funzionamento dell’ego toglie il potere e la forza all’illusorietà della condizione umana, e ci permette la presenza e la vigilanza della coscienza, perciò essa ci illumina sulla natura e sulla qualità del cibo di cui nutriamo la nostra mente.

Nella vita dobbiamo essere vigili sul vero funzionamento della nostra mente, perché è così che si evolve la nostra coscienza, in quanto una coscienza desta ci permette di restare liberi dagli inquinamenti esterni. La sofferenza umana nasce quando l’uomo scende a scavare nella sua profondità interiore, sebbene la sofferenza voglia infrangere le identificazioni collegate all'aspetto superficiale della realtà. Il fatto paradossale è che la sofferenza è la strada necessaria per infrangere le falsità egoiche in quanto, la sofferenza è il segno che stiamo disgregando le difese dell'ego: l’unica condizione perché la sofferenza divenga produttiva è che essa sia sempre presente e consapevole di ciò che sta accadendo.

E’ solo una sofferenza consapevole che riesce ad operare fruttuosamente al nostro interno, poiché essa ci dona la lucidità che fa crescere ed evolvere, in quanto acquisiamo il coraggio di avanzare sapendo dove siamo diretti, perciò procediamo con un obiettivo che è un procedere fornito di senso, perciò resistere al cambiamento rallenta sempre il processo evolutivo, perché l’ego non vuole soffrire e usa la nostra paura. Dobbiamo sapere e credere che dal soffrire si può tornare migliorati e nobilitati, perciò l’uomo che soffre non sempre diventa aspro e crudele, ma lo diventa solo se non crede di poter sfuggire al dominio dell’ego: è il nostro ego che usa forma e apparenza per sottomettere l’uomo, in quanto l’ego è sempre nemico dell'Essere.

L’ego è solo l'apparenza mentre l’Essere è la sostanza delle cose, ed è l’unica verità interiore di cui la menzogna è nemica, per questo l’ego ci spinge a fare e vivere in modo frenetico e automatico, così che il nostro livello di guardia e di vigilanza resti al minimo. E’ l’ego che abbassa il livello di presenza e di attenzione a ciò che facciamo, perciò le nostre azioni vengono attuate senza pensare al senso delle nostre azioni: è così che le “cure del mondo” fagocitano la nostra vita in una corsa frenetica ed insensata in cui non troviamo spazio per la riflessione, che è la presenza e l'attenzione alle vere finalità del nostro agire.

Saper restare vigili e calmi, saper restare centrati al momento presente crea in noi lo spazio interno e la disponibilità mentale che sono necessari per accogliere il nostro vero Essere, poiché è la quiete che ci rende ospitali e recettivi. E' la nostra disponibilità a vedere, a sentire, è la nostra mancanza di paura che ci permette di avere la piena ricettività al nostro Essere, perché possiamo diventire consapevoli della nostra autentica natura tramite la presenza ai nostri autentici moventi. E’ così che impariamo a diventare più equilibrati, perciò l’Essere che siamo, e che dorme dietro alle nostre apparenze si sente accettato ed accolto, ed accetta di venire alla luce.

Buona erranza
Sharatan

mercoledì 2 febbraio 2011

Il medico dell’anima


“Se non lo faccio io, chi lo farà?
Se non lo faccio adesso, quando lo farò?
Se lo faccio solo per me stesso, chi sono io?”

(Hillel, cabalista del 2° sec. a. C.)



Viktor E. Frankl è stato medico, neurologo e psichiatra austriaco insignito di 27 lauree ad honorem assegnategli delle università più prestigiose del mondo, ha scritto 32 libri tradotti in tutte le lingue ed è stato il fondatore della logoterapia, la terapia che è una medicina dell’anima. Tutta la sua famiglia, tra cui la moglie amatissima furono sterminati dalla follia nazista, e lui stesso fu internato in 4 campi di sterminio tra cui Auschwitz e Dachau rischiando la morte per tifo: quando fu liberato pesava appena 40 chili ed era riuscito a sopravvivere superando ogni probabilità di aspettativa di vita.

L’esperienza del lager diventò per Frankl un’occasione per dimostrare che l’essere umano può superare le più grandi sofferenze senza perdere la dignità e l’umanità, ma conservando integra la volontà di lottare, di amare e di restare fedele all’amore per la vita “nonostante tutto“, perciò i suoi scritti non sono frutto di teorie ma sono la testimonianza della “forza di resistenza dello spirito umano.” Le sue enormi sofferenze furono considerate da lui stesso come il banco di prova per tutto il lavoro terapeutico successivo, e servirono da base per la fondazione della logoterapia come terapia con cui continuò ad affermare la grande risorsa riconciliatrice della tolleranza e l'enorme fiducia e speranza nello spirito umano.

Frankl credeva nello spirito comune dell’essere umano, egli pensava che la nostra più intima essenza umana potesse apportare la pace, la luce, la sicurezza e credeva in tutti i beni supremi dello spirito, perciò non gli si possono ascrivere delle accuse di facile ottimismo o di ottusa fiducia nella materia umana. Tutte le esperienze più dolorose lo spinsero ad affermare che la sofferenza umana può divenire un test, infatti come Yehuda Bacon, lo scultore israeliano reduce da Auschwitz, egli affermava e condivideva il concetto che la sofferenza umana non è priva di senso: “Essa può avere un significato, ma solo se muta in meglio chi soffre.”

In “Un significato per l’esistenza” scrive: “Mutare se stessi spesso significa rinascere più grandi di prima, e crescere oltre se stessi” perché “quando non siamo più in grado di mutare una situazione […] allora siamo spinti a mutare noi stessi.” L’uomo può sempre costruire un senso alla sua sofferenza e, questo senso può conferire all’uomo un'enorme dignità nella costruzione di “quello che l’uomo può essere” infatti l’uomo può sfruttare l’opportunità di costruire un senso intrinseco a ciò che gli accade perché un senso è assopito in tutte le situazioni, ma esso potrebbe fuggire per non tornare più se non riusciamo a scoprirlo, poiché la vita è transitoria come le opportunità ed esse non si ripresentano, perciò dobbiamo saper sfruttare ogni opportunità che viviamo per comprendere il senso della vita.

Una volta che sappiamo trasformare una possibilità in una realtà, tutte le cose cessano di essere transitorie per divenire una realtà, perciò nessuna cosa andrà mai più perduta, ma essa potrà essere accantonata per sempre e potrà divenire come quei “colmi granai” in cui vengono riposti tutti i frutti della nostra vita. Infatti, è così che si realizza l’uomo che viene indicato nel Libro di Giobbe, che è colui che arriva alla tomba “come un covone di grano maturo ammucchiato a suo tempo” perchè la vita non manca mai di significato, ma esso giunge solo se sappiamo ammettere il potenziale significato da scoprire aldilà del nostro operare e del nostro amare, poiché la vita umana è sempre incondizionatamente colma di senso e ricca di significato.

Frankl scrisse questa dichiarazione di amore per la vita, essendo sopravvissuto ad una situazione in cui l’uomo era stato ridotto alla completa nudità esistenziale, poiché non vi era nessun “avere” in un lager nazista, ma esisteva solo un’assoluta trasparenza esistenziale in cui non resta nulla, e “l’uomo in essenza” era consumato dal dolore e totalmente purificato dalla sua sofferenza. E’ da questo abisso che Frankl era tornato, ed era risorto per chiedersi cos’era dunque l’uomo, se fosse colui che aveva inventato le camere a gas, oppure se fosse colui che aveva ideato la preghiera ebraica per la morte ed il Padre nostro.

Nell’uomo, egli concluse, vi erano entrambi le possibilità di sviluppo etico, poiché la libertà dell’autodeterminazione è nella singolarità delle scelte umane, infatti non esistono delle razze umane, in quanto esistono solo due razze umane, cioè la razza degli uomini per bene e la razza dei poco di buono. In questo senso non si può dire che esistono delle colpe collettive, perché esso è un modo per fuggire dalla responsabilità individuali e per costruire delle strategie false con cui si va contro ogni bellezza della natura umana per affermare solo lo spirito di vendetta con cui si continuano a perpetrare dei circoli viziosi di ritorsione e di oppressione usando la violenza e la forza contro il nostro prossimo.

Ogni ragionamento che viene fatto sulla natura umana usando la generalizzazione, dice Frankl, è un modo per negare la migliore natura umana e la libertà morale dell’individuo: nel deportato dei lager si potevano osservare tutte le fasi con cui l'uomo si difende dalla disgregazione e dalla morte della condizione umana. Nelle reazioni dei prigionieri si poteva osservare la condizione emotiva con cui l’uomo sperimentava la morte interiore che è caratterizzata dall’apatia, dalla sfiducia e dalla crescente insensibilità da cui si veniva fiaccati fino ad accettare in modo passivo ogni ignominia e aggressione esterna per consegnarsi inermi ai carnefici.

Nei prigionieri venivano uccisi tutti gli interessi superiori, perciò essi entravano nella “ibernazione culturale” che è la morte interiore a cui resistevano solo coloro che riuscivano a conservare due tipi di interesse, cioè quello politico e quello religioso, che sono i due soli nuclei a cui l’essere può restare aggrappato per continuare ad esistere senza lasciarsi morire. Per tutta la sua vita Frankl continuò a ripetere che non era assolutamente certo che dopo Auschwitz Dio fosse morto poiché, se l’amore per Dio è incondizionato, allora Dio non può morire.

Perciò Dio sopravvive anche davanti a 6 milioni di ebrei sterminati dai nazisti, perchè la resistenza umana è sempre possibile, anche se veniamo nutriti con meno di 800 calorie al giorno e arriviamo a pesare meno di 40 chili, e anche se vediamo morire tutti coloro che amiamo di più. Se conserviamo questa fiducia, allora possiamo conservare al nostro interno uno spazio intimo, seppure a costo di una interiorizzazione estremamente dolorosa. Malgrado tutta la nostra sofferenza si riesce a conservare indenne la certezza e la garanzia che la nostra umanità è sempre ricca e viva, sebbene all’interno possa dilagare un dolore devastante.

La vita interiore dell’uomo si può nutrire ricercando degli stimoli nella natura e nell’arte, oppure materializzando interiormente la presenza delle persone che abbiamo amato ma che non ci sono più, perché esse continuano ad essere sempre vive nel nostro cuore. L’uomo può salvarsi se fa ritorno al suo passato per ritrovare un rifugio dalle angosce del suo presente, per cui egli ritrova un rifugio dalle angosce facendo uso delle sue riserve interne di gioia con cui si nutre nelle oppressioni del presente, oppure l’uomo può fare uso del suo umorismo con cui riesce a creare una maggiore distanza se il dolore presente è insopportabile da affrontare.

Da queste tremende esperienze Frankl riuscì a tornare per costruire una terapia che potesse salvare l’uomo con un progetto di cura fondato sulla dimensione spirituale delle persone, perciò riuscì a costruire una terapia per restituire alle persone il senso della vita. Le cose che si chiese per aiutare l’essere umano furono se la persona che aveva davanti fosse unica, se essa avesse un nome distintivo, se dietro il suo volto potesse esserci una storia personale unica, e se vi potesse essere una condivisione tra la sua storia e la loro, se quella persona fosse solo un cliente oppure se fosse un essere che non era affatto indifferente rispetto ad un altro.

Egli si chiese se fosse capace di avere un ascolto unico e particolare per ogni suo paziente, se potesse ascoltare la storia della vita di ogni persona come se fosse sempre una storia unica e particolare, oppure se potesse vedere l’altro come un burattino e come una fotocopia identica una all'altra. La risposta che si diede fu che ogni incontro tra persone è sempre unico ed irripetibile, e che la storia che si ascolta è sempre unica, perciò se ogni storia è sempre unica e autentica ogni incontro è sempre aperto ad un senso se il significato di esso riesce ad arrivare ad un livello superiore in cui è trascesa ogni immanenza, perciò ogni incontro diventa un’esperienza da cui si esce entrambi arricchiti e accresciuti.

Tutti testimoniano della superiore umanità di cui Frankl era dotato, tutti dicono della sensibilità con cui riusciva a comprendere anche le più intime e inconfessabili necessità dei suoi pazienti: per lui ogni paziente era un essere unico, e nessuno veniva trattato come un caso clinico. Ad un giovane paziente di 25 anni, che era oppresso da un profondo vuoto esistenziale e dalla percezione di una dolorosa mancanza di senso del vivere consigliò di non aggrapparsi agli spiriti più grandi che avevano scoperto il più profondo senso della vita, ma consigliò di leggere e di studiare le opere di quei filosofi e pensatori, come Sartre e Camus, che non erano riusciti a scoprire e risolvere tutti i dubbi sul senso della vita umana, perciò gli disse:

“Ti accorgerai che soffrire per questi problemi è qualcosa di umano, di onesto, un’impresa, una realizzazione e non invece un simbolo nevrotico […] Invece di interpretare il tuo problema come un sintomo, imparerai a comprenderlo come un aspetto essenziale della condition humaine, di cui ti sentirai partecipe. Allora vedrai te stesso come un membro di una comunità invisibile, la comunità dell’umanità sofferente, dell’umanità che soffre per un’esperienza abissale di fondamentale mancanza di significato dell’esistenza umana, e nello stesso tempo in lotta per una soluzione ai problemi antichi dell’umanità […] In tal modo sarai paziente e coraggioso: paziente nel lasciare i problemi irrisolti per il tempo presente, e coraggioso nel non abbandonare la lotta per la soluzione finale.”

Buona erranza
Sharatan