domenica 28 settembre 2008

La violenza del desiderio mimetico


René Girard, critico letterario ed antropologo francese, fa parte di una corrente di pensiero di antropologi e filosofi, che indagano le origini dei comportamenti sociali nei miti transculturali e nelle grandi opere letterarie, come fonti ispirate dei comportamenti universali umani.
Sul filo di tale indagine, Girard afferma che è il desiderio l’impulso primario per la trasformazione e la ricerca di novità, confermando una verità già proclamata da tutti i grandi maestri orientali e occidentali, ma unendoci una curiosa teoria.
La sua originalità è insita nella teoria che il desiderio sia mimetico, cioè imitativo: si desidera ciò che un altro desidera, per cui, nel desiderio, l’uno imita l’altro. Il desiderio mimetico, afferma, funziona con un modello reciproco, per cui io imito il mio rivale e lui imita me, ma perché questo avviene?
Girard afferma che il punto d’origine è ancora poco compreso, ma il meccanismo innescato porta all’atteggiamento che, tanto più imito e desidero lo stesso oggetto del mio rivale, tanto più cerco di distruggere colui che possiede il mio oggetto del desiderio, cioè il rivale stesso.
Il passo è breve per affermare che, il desiderio è la causa della violenza degli atteggiamenti umani, e raggiunge il suo apice quando tutti si uniscono per creare un’unanimità mimetica, cioè molti hanno davanti a se un solo rivale da abbattere e distruggere. Tutti si uniscono contro uno solo, sul quale si scatenerà la violenza collettiva: egli sarà la vittima.
Il desiderio mimetico crea la violenza e produce vittime e ciò, in tutti i campi in cui si scatena la concorrenza e la competizione umana: la creazione delle vittime, secondo Girard, è un processo di estrema fecondità perchè ha prodotto la cultura e la società umana.
Secondo Girard, l’unione per scatenare la violenza su una sola vittima, crea la comunità umana e questa, dall’uccisione rituale della vittima, ottiene il vantaggio della pace e dell’armonia sociale. La vittima viene caricata di tutte le colpe sociali, che vengono scaricate nel sacrificio, così si crea l’ordine sociale.
La violenza lasciata a se stessa, senza alcun controllo, potrebbe dilagare con una serie di uccisoni e di disordini, per questo va regolamentata e canalizzata su un obiettivo controllabile e definibile: la vittima si crea ai fini di una convivenza non autodistruttiva.
Gli antichi greci avevano delle vittime umane, che venivano mantenute a carico dello Stato, e che venivano sacrificate nei momenti di emergenza. Prima del sacrificio, la vittima veniva portata per le vie della città, in modo da potere accumulare tutte le nefandezze della comunità. Più tardi, furono abbandonati i sacrifici umani, a favore dei sacrifici animali, di cui testimoniano il rito del capro espiatorio mosaico e dell’agnello sacrificale cristiano. A tutti questi simboli vengono vicariate le tensioni o le rivalse negative da epurare, come per la vittima umana. La vittima ha sempre una funzione catartica, e simboleggia sempre la comunità che ne attua il sacrificio.
Più tardi, secondo Girard, la stessa funzione catartica è stata assunta dalla legge e dalle norme giuridiche, che tramite i divieti e le proibizioni, rompono la catena delle vendette e delle violenze. Con la legge s’instaura una ritualità, cioè una consuetudine e quindi si instaura una mito, una celebrazione o giustificazione delle ritualità definite come valide, per cui consuetudinali perchè accettate comunemente.
Quindi, se da sempre le istituzioni instaurano miti, cioè instaurano giustificazioni dei loro comportamenti, da sempre le istituzioni sono sistemi autoregolanti e sacrificali, preoccupati solo della loro sopravvivenza.
I sistemi maggiormente sacrificali sono oggi: il sistema economico e il mercato, in cui la società civilizzata fa morire chi non garantisce la sua sopravvivenza economica. L’armonia sociale si ottiene a scapito della morte di coloro che non sanno entrare in tale armonia. Questo è il metodo sacrificale con cui funziona la moderna economia, ma è lo stesso meccanismo con cui funziona il dominio delle classi egemoni, è il meccanismo della violenza.
Io non so, se esiste questa capacità imitativa, come tendenza innata, ma se fosse, credo che dovremmo usare questa nostra capacità, per emulare i migliori istinti dell’essere umano, e non i peggiori. Credo che la consapevolezza di questi meccanismi distruttivi, sia in grado di spingerci verso degli atteggiamenti di costruttività positiva, poiché nell’uomo il bene ed il male sono egualmente presenti ed attivi. Credo che, invece di costruire dei rivale e delle esclusioni, sia necessario cercare degli alleati e delle cooperazioni.
Credo che siamo ancora in marcia verso un processo di completa civilizzazione, ma non possiamo assolutamente sottrarci a questo, anche se spesso il cammino da fare sembra interminabile, perché il progresso dell’essere umano è troppo avanzato, in alcuni aspetti, per tollerare ancora la barbarie di altri. Credo che, per questo, dovremmo usare il nostro sentimento mimetico per costruire collaborazione, altruismo e solidarietà, perché possiamo usare criteri di giustizia e di compassione, perchè la vita potrebbe essere molto più bella, se solo smettessimo di vederla come una valle di lacrime e la potessimo invece concepire come il raduno di un’allegra Compagnia in gioiosa convivialità.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

giovedì 25 settembre 2008

Il libro di Kabir


L’Ospite è dentro di voi e anche dentro di me;
come sapete, il germoglio è nascosto dentro il seme.
Tutti lottiamo: nessuno di noi è giunto molto lontano.
Lasciate andare la vostra arroganza
e guardatevi intorno.
Il cielo azzurro si stende all’infinito:
l’abituale impressione di aver fallito scompare,
il danno fatto a me stesso svanisce,
un milione di Soli avanza insieme alla luce,
quando sto fermamente in quel mondo.


Kabir

martedì 23 settembre 2008

Il riequilibrio del forte e del debole


Jung afferma che nell’individuo esiste una natura duale, così che nell’uomo vi è una componente femminile inconscia nella personalità, ed è anche vero il contrario cioè che, in ogni donna, vi è una componente inconscia maschile. Jung definisce la prima Anima ed il secondo Animus. Mentre l’Anima è il principio dell’Eros e quindi si correla col modo con cui l’uomo si rapporta alle donne, l’Animus è il Logos, la razionalità. Me le due componenti non hanno nei due sessi lo stesso peso e la stessa influenza. L'Animus unisce la donna al mondo degli uomini, dello spirito e delle idee, è un ponte tra psiche individuale e inconscio collettivo, tra la propria componente maschile interiore e le proprie risorse inconsce.
Per la donna, l’Animus è la rappresentazione di un maschile di cui ha subito per secoli la supremazia, e che ha introiettato a livello inconscio come qualcosa di “superiore” al femminile. Così pure l’uomo tenta di nascondere agli altri la “presenza della donna nell’individuo” quindi soffoca il suo elemento femminile, per paura di perdere la sua autorevolezza e la sua forza, ma la crisi dei paradigmi tradizionali ha colpito uno degli archetipi più antichi della storia umana: quella del maschile.
La volontà di potenza e di dominio, la manifestazione del Logos, ha caratterizzato da sempre la storia umana: dominare la natura, dominare gli altri popoli, allargare sempre più i confini degli imperi, fino a livelli planetari e cosmici ed oggi fino al dominio dell’universo. Da qui nasce il desiderio di antropizzazione del mondo, sogno basato sul dominio e sul potere.
Il potere è una delle caratteristiche fondamentali del maschile, sia nell’uomo che nella donna, e quando esso assume i caratteri del puro dominio, diviene una patologia, perché è l’inflazione del patriarcato e del maschilismo. I segni del nostro progresso sono prodotti dal patriarcato, il tipo di scienza che prevale lo è ugualmente, come pure il tipo di sviluppo economico prevalente. Questi caratteri patriarcali comportano un’esclusione e/o una minimizzazione della natura e dei ruoli del femminile.
Questa forma di potere/dominio ha reso disumani sia le donne che gli uomini: le prime perché non hanno realizzato la dimensione dell’Animus ed i secondi perché si sono negati allo sviluppo dell’Anima. Per riequilibrare le cose, è necessario che l’uomo riequilibri il suo lato maschile e che valorizzi i suoi elementi femminili, come pure che le donne, non rivendichino il loro Animus-Logos, mutuandone le caratteristiche deleterie, ma sappiano essere forti e delicate: solo così potremo avere un essere umano equilibrato e consapevole. Nessuna ideologia di genere, di tipo sessista, può essere assunta o può essere condivisa, perché basata su vuoti stereotipi che distribuiscono ruoli e valori in modo rigido e predefinito:
• creatività -> valore -> azione -> al maschio
• passività -> ricettività -> mitezza -> alla femmina
Il femminile, l’Anima, è un valore che si deve applicare all’interno di tutto il genere umano e non solo alla donna, perché simboleggia il principio di vita, di ricettività, di creatività, di intenerimento, d’interiorità e di spiritualità ed è tipico sia dell’uomo che della donna: si tratta di un principio che è insito nella natura umana, per questo il riequilibrio dei valori maschile/femminile è necessario per l’essere umano e va oltre il sesso biologico di appartenenza.
Questo riequilibrio non solo libera la mente umana da un pregiudizio dannoso, ma potrà anche affrancare la storia e la cultura dalla tirannia della prepotenza come valore da perseguire, annullerà finalmente la “legge del più forte”.
Il recupero dell’elemento femminile, potrà ottenere la liberazione di tutto il femminile oppresso e permetterà alle donne di poter cercare la loro espressione individuale e di poter vivere liberamente la loro vita.
L’oppressore esclude l’oppresso, perché lo vede inferiore a se stesso, come essere subordinato e dipendente, per questo la liberazione deve essere rivendicata dall’oppresso affinchè scompaiano le figure degli oppressori: solo allora avremo delle società di eguali e non di dominati e dominatori.
Il principio femminile è un elemento rivoluzionario nel suo essere risanatore e liberatore, poiché opera sulla logica della vita e non dell’aggressione, poiché valorizza il rispetto e non il dominio. La logica della vita rispetta la diversità e tutte le reti di interazione e di condivisione: il femminile vero ama la cooperazione e non la competizione. Il femminile è capace di vivere relazioni complesse, è amante delle sintesi delle opposizioni, vuole coltivare lo stupore nei confronti del mondo, vuole lo sviluppo armonico con i ritmi della natura, con la luna e con le maree. Il femminile ama la Madre Terra, Madre amorevole che provvede alla vita di tutti i suoi figli, e vuole evolvere con lei, in un pianeta capace di uno sviluppo sostenibile, con un modello inclusivo e cooperativo e non competitivo ed esclusivo.
Il principio maschile, malamente trasformato in maschilista, ha sviluppato una visione del mondo ed una scienza basate sul dominio e sulla distruzione, sulla violenza, sull’espropriazione dei diritti e della natura, considerate valori secondari allo sviluppo e al progresso. La fine dello stereotipo maschilista della realtà va salutato come salutare, in nome di un nuovo modo di rifondare la concezione dell’Animus. Meravigliose sono state le figure maschili che hanno saputo impersonare questo nuovo tipo di uomo, dall’animo forte e sensibile. Diceva Ernesto Che Guevara:”Hay que endurecer, pero sin perder la ternura jamàs. Devi indurirti senza perdere mai la tenerezza,” mostrando così l’immagine di un eroe intrepido ma sensibile, capace di esprimere sentimenti di delicatezza e benevolenza. La via femminile è la via della non violenza, che vuole trasformare la realtà circostante con dolcezza e persuasione, senza azioni violente, ma con politiche di rispetto delle diversità e della cooperazione in vista del bene comune.
Nell’essere umano che riequilibria il suo essere, s’integrano insieme la forza alla tenerezza, insieme al lavoro anche il gioco, insieme alla ragione anche l’emozione, insieme al Logos anche Pathos ed Eros. Così l’essere umano può divenire sempre più umano e più libero nelle sue relazioni, perché fatto di materia umana più dialettica, più dinamica e più sorprendente: un’immagine divina.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

domenica 21 settembre 2008

Nel cuore del nostro dolore


Il movimento di risveglio e di scoperta di noi stessi inizia nel momento in cui ci sentiamo scontenti della nostra vita. Contrariamente a ciò che si crede, l’insoddisfazione per un certo livello di vita, non indica affatto delle turbe mentali o dei disagi sociali, invece indica un embrione di effervescente intelligenza interiore, che si sta ridestando.
Questa intelligenza creativa, che viene soffocata dalle ipocrisie sociali, ad un certo punto si ridesta e inizia a richiedere la nostra attenzione, con furore vuole affermarsi: essa si manifesta come una necessità di realtà più profonde e vere.
La sofferenza è l’elemento scatenante per i risvegli spirituali, perché il dolore distrugge la soddisfazione della vita quotidiana, ottunde il pensiero razionale e tocca il nostro essere più profondo senza lasciare nessun nostro territorio interiore inesplorato. Nel dolore si sviluppa la consapevolezza e per questo è provvidenziale, come diceva Meister Eickhart, per portare alla perfezione. Iniziando a soffrire ci si interroga sulla nostra vera natura e sulla natura dei nostri confini di vita, e si cercano nuove soluzioni. Se affrontata in modo corretto, la sofferenza aiuta ad ampliare gli orizzonti mentali e i nostri confini di vita ma, se non viene correttamente elaborata, essa può renderci peggiori e più crudeli, perché anche la sofferenza va vissuta bene ed il senso del dolore va cercato. Non si deve restare aggrappati, invischiati al nostro male, perché rischieremmo di farci uccidere dai suoi veleni; è necessario scoprire il senso del nostro dolore: cosa significa e perché si verifica. Difficile cercare un dottore dell’anima che ce lo possa indicare, possiamo invece scoprire a quale livello sta agendo il nostro soffrire, dove alberga il cuore del nostro dolore.
Dobbiamo lasciare spazio ai nostri sentimenti, permettere che vengano a trovarci ed osservarli come sintomi di qualcosa che chiede di essere conosciuto, dobbiamo permettergli di parlarci, mentre noi dobbiamo cercare di conoscerli, di diventarne consapevoli, per poterli esorcizzare.
La vulnerabilità non sempre diventa un handicap, invece potrebbe divenire una risorsa, ma la società ammette poco e male il relitto della sofferenza, se non sublimato nel pensiero dei grandi: Leopardi, Schopenhauer, Nietzsche etc. Solo alle eccellenze, si concede di poter dimostrare interamente se stessi, senza apparire sminuiti. Il successo del pensiero profondo proviene dalla profonda risonanza che echeggia dell’animo umano, per il loro narrare l’insofferenza di noi tutti; la comune condizione umana nel suo vissuto faticoso, di gestazione di nuove idee a cui va data assoluta attuazione. L’impulso prepotente della natura prometeica dell’uomo. Per questo il loro pensiero è forte, debole e dolente solo in apparenza, è un pensare assoluto e titanico. Se pericoli vi sono, nel pensare umano, in realtà solo il pensiero pigro è pericoloso, perché ottuso e limitato, non vi è invece, nessun pericolo nel pensiero forte dei sentimenti.
Il pensiero pigro è presuntuoso poiché vuole trovare un’unica causa alla sofferenza e la cerca nell’assenza del dolore: se vuoi eliminare la fonte della sofferenza devi eliminare la fonte del tuo dolore. Questo modo di pensare è tipico delle persone che amano i capri espiatori, di quelli che amano le vittime sacrificali, di quelli che fanno la lotta alle streghe.
Le più recenti scoperte scientifiche dimostrano invece che, il nostro modo di pensare è profondamente influenzato dal modo con cui costruiamo le nostre conoscenze, e l’esperienza acquisita nel corso dell’esistenza, non fa altro che ottimizzare i circuiti cerebrali che si sono formati nella prima infanzia. Per questo motivo nessuna scusa sull’essere "fatti in un certo modo" o per "essere della natura dello scorpione", può essere addotta, perché il nostro modo di pensare può essere riprogrammato sempre.
Invece ogni condizione di dolore diviene aberrante, quando si sopravvive alla sofferenza, per restare avvinghiati all’odio nei confronti della realtà che ci ha fatto soffrire. L’individuo, sente che gioire, dopo essere stati colpiti dal dolore, è un atto intollerabile, ogni occasione di godere della vita è un insulto inaccettabile, e sente disgusto e vergogna all’idea di essere felice. La felicità diviene uno scandalo, e l’odio del corpo fa abbracciare un’intolleranza religiosa, spesso innamorata ed inneggiante alla filosofia della sofferenza. Si cerca un dio totalitario, a cui si chiede di assumere i pieni poteri, un dio geloso e non generoso, quindi incapace di compassione. Nella sofferenza, diventiamo noi quel dio terribile che giudica noi stessi. Da una sofferenza così aberrante non s’impara nulla, non si attua alcuna consapevolezza, non si riesce ad avere neppure la forza per iniziare a farsi delle domande, per potere acquisire una maggiore comprensione dell’unità in cui viviamo.
Il dolore invece rende vulnerabili, nel dolore si è senza pelle, si resta fatti solo di carne e d’anima. Per questo è più facile diventare empatici, per questo si sviluppa un fenomeno di risonanza in cui, con una fulminea ed istantanea dello sguardo dell’altro, si riesce a leggerne intenzioni e sentimenti. Senza alcuna una parola, due menti possono riconoscersi, connettersi e comunicare.
L’essere insieme e avere condivisione, rende più facile la sopravvivenza, anche a livello etologico, in cui l’empatia animale serve per poter sopravvivere. Dal dolore s’impara anche la compassione, ed è solo questa virtù che ci rende capaci di potere ammettere gli errori nostri o altrui, e che ci permette di poterli accettare in noi e negli altri. Saper vedere tutti gli opposti della condizione in cui viviamo, ci aiuterà ad assumerci la responsabilità delle nostre sensazioni e dei nostri sentimenti, ci aiuterà a poterci amare sia nei lati di luce che nei lati di ombra, ci aiuterà a costruire l’idea di poter essere degni di esistere e di essere felici.
Diventeremo consapevoli che ciò che avviene, è solo un’occasione per potere sperimentare la vita umana, e che siamo noi che costruiamo i nostri sintomi e la nostra sofferenza, perché siamo noi i creatori della nostra realtà. La vita non apparirà più come una lotta, ma come un’occasione per aumentare il nostro livello di crescita, e vedremo tutti i nostri incontri e i nostri compagni di viaggio, degli altri giocatori come noi, dei partners del gioco della vita.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

giovedì 18 settembre 2008

Jack va a caccia di streghe


Ogni volta che facciamo una edificazione di confini difensivi, per tutelare la nostra integrità, aumentiamo gli spazi esterni e restringiamo i nostri territori personali. Con ogni confine, una parte del nostro essere viene spinto fuori, proiettato all’esterno di noi, e noi restiamo rinchiusi in un territorio sempre più stretto. La parte proiettata è sempre una parte che troviamo inaccettabile, è una parte di noi che rifiutiamo di conoscere; per questo la consapevolezza del nostro vero essere diventa sempre minore. Quando l’individuo nega anche a se stesso le sue tendenze, esse non scompaiono, perché gli sono proprie e connaturate, esse vengono solo relegate in un angolo, da cui imperterrite continuano la loro battaglia per emergere. Questa è la battaglia tra la persona e la propria ombra. Capire come funziona la proiezione della propria ombra è difficile, ma l’esempio del garage di Jack, narrato da Wilber, può aiutare a comprenderlo.
Jack ha un garage in stato di totale confusione e finalmente decide che è il momento di ripulirlo. Si mette i panni da lavoro e si accinge a farlo. Appena entrato nel garage rimane stupefatto dalla quantità di lavoro da fare, allora si mette a bighellonare, sfoglia i vecchi fumetti, gioca con un vecchio pallone e si mette a curiosare nei bauli, insomma si trastulla.
A questo punto il desiderio di pulire c’è ancora, ma Jack inizia a vedere il suo compito come qualcosa che deve fare, come se qualcuno gli imponesse di mettersi al lavoro. A questo punto Jack sembra avere dimenticato chi sia a volere che siano fatte le pulizie, si sente di malumore e si sente oppresso dal senso di dovere fare. Con il passare delle ore, dell’impegno e della fatica, il malumore aumenta e la proiezione è quasi pronta per essere completa. A questo punto è necessario “qualcuno” a cui imputare l’imposizione a pulire il garage, qualcuno a cui attaccare il proprio impulso proiettato. Casualmente la moglie di Jack arriva sulla scena e si affaccia alla porta del garage, chiede innocentemente a Jack se ha finito di pulire il garage. Jack scatta adirato e dice alla moglie di togliersi di torno, e inizia a pensare che era lei che voleva che il garage fosse pulito. La proiezione è completata, infatti l’impulso a fare è stato dichiarato come esterno e del tutto estraniato dalla volontà di Jack: è la moglie che sta facendo pressione su di lui affinchè il garage sia ripulito.
La proiezione agisce facendo pressione, e l’individuo sente la pressione dell’aspettativa esterna, che preme verso di lui. Non si rende conto che può fare pressione al nostro interno solo un’istanza riconosciuta e che ci appartiene. Stranamente se Jack non avesse sentito un impulso a pulire il garage, la sua pressione non sarebbe esistita, avrebbe potuto interrompere un lavoro che non aveva voglia di fare senza crearsi problemi, e non avrebbe aggredito la moglie in modo violento: avrebbe rimandato il lavoro al momento opportuno.
Il meccanismo di base della battaglia della persona alle sue ombre, ovvero ai suoi impulsi proiettati è questo, ed è un meccanismo a boomerang, in cui la violenza della proiezione è pari al livello di pressione che sentiamo che l’ambiente rimanda, cioè al livello di fascino che tale pulsione esercita per la nostra mente. La maggioranza delle persone ha una grossa resistenza a misurarsi con le proprie ombre, ad ammettere che tutti i tratti che si rifiutano e che si proiettano all’esterno, siano propri. La maggioranza difende con molta convinzione la propria falsa concezione della realtà, ed esercita una resistenza anche violenta a queste tendenze, la caccia alle streghe ne è l’esempio più comune.
Una caccia alle streghe inizia quando la persona nega delle caratteristiche che reputa cattive, sataniche o demoniache, insomma nega la sua parte oscura, e la rigetta all’esterno, reputando di non avere un suo piccolo cuore nero, ma di essere un Giusto. In realtà una parte oscura vi è in ognuno di noi, e riconoscerla potrebbe rendere molto più interessante la vita: infatti la tradizione ebraica, afferma che Dio stesso creò l’uomo con un’indole ribelle, bizzarra o perversa.
Il cacciatore di streghe non crede di avere questo piccolo cuore nero, per cui assume la maschera della rettitudine e della bontà e resiste a se stesso, cerca di negarsi e di reprimersi. Ma più la tendenza viene schiacciata e maggiormente acquista forza e si ribella, quindi più resiste. Più forte è la resistenza e maggiore forza bisogna esercitare per vincerla e maggiore consapevolezza è necessaria per esserne coscienti; più gli resiste, più forza acquisisce e più consapevolezza richiede.
Il rifiuto della consapevolezza a livello di nazioni o popoli ha causato dei delitti aberranti, come l’inquisizione, la caccia alle streghe di Salem, la persecuzione degli ebrei, il genocidio degli Armeni, ed altri orrori simili, molti ne compie ancora oggi nel mondo.
La stessa lotta si combatte all’interno, quando il proprio nemico diviene una parte di noi: la nostra ombra, cioè le parti di noi che reputiamo meschine, stupide, sporche o immorali. Potremmo allora iniziare a riconoscerle, facendo un test per la comprensione di base dell’ombra e per vederne l’indicatore di proiezione.
Ammettiamo che, tutto ciò che nell’ambiente (cose o persone) ci tocca profondamente, invece di trasmetterci semplicemente delle informazioni, sia solitamente una nostra proiezione, poiché ciò che ci annoia, ci irrita, ci ripugna, o al contrario, ci attrae, ci forza, ci ossessiona, è solitamente il riflesso dell’ombra.
Per fare un esempio, così come la pressione è una pulsione proiettata, l’obbligo è il desiderio proiettato, cioè ammettiamo che dei sentimenti persistenti di obbligo, siano un segnale sintomatico che state facendo qualcosa che non ammettete di volere fare, ma che intimamente desiderate. La resistenza all’ombra, si rivela nella dichiarazione di non volere fare la tale cosa, ma di esserne obbligato. Pensiamo poi che l’ombra che è proiettata, sia pure in modo distorto e dissimulato, non abbia altro linguaggio che quello dei sintomi, con cui prende forma e si rivela.
Secondo questa ipotesi, leggiamo allora i vari sintomi e la relativa reale forma dell’Ombra:

• Obbligo potrebbe significare Desiderio
• Pressione potrebbe significare Impulso
• Rifiuto potrebbe significare Disprezzo
• Colpa potrebbe significare Rancore
• Ansia potrebbe significare Eccitazione
• Imbarazzo potrebbe significare Interesse
• Impotenza/frigidità potrebbe significare Negare il Piacere
• Paura potrebbe significare Ostilità
• Tristezza potrebbe significare Rabbia
• Solitudine potrebbe significare Andate via tutti
• Non posso potrebbe significare Lo voglio
• Obbligo potrebbe significare Desiderio
• Odio potrebbe significare Pettegolezzo autobiografico
• Indivia potrebbe significare Credersi migliori di ciò che sembriamo

Tutte queste tecniche vengono proposte come una pratica da fare in stile zen, possiamo usare la scoperta della resistenza e della forma dell’ombra per la nostra vita, per le cose che ci interessano, per i nostri stili di pensiero e per vedere se aumenta la nostra consapevolezza. Ma se giochiamo con questo modo di decodificare - se siamo tanto bizzarri o pazzi da farlo - possiamo allora dire di non avere mai avuto una nostra personale caccia alle streghe? Possiamo veramente dire, di non avere mai avuto una cruenta battaglia, all’ultimo sangue, con la nostra Ombra?
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

martedì 16 settembre 2008

Oltre i confini


Ken Wilber, uno dei padri della psicologia transpersonale, lavora su numerosissime tematiche che vanno dalla economia, alla psicologia, alla ecologia, alla politica, alla tecnologia, all’educazione, etc. secondo il modello Integrale usato dal centro l’Integral Institute, da lui fondato con migliaia di esperti e collaboratori nelle più diverse discipline. E’ autore di numerose opere di cui 25 le principali. Nel libro “Oltre i confini: la dimensione transpersonale in psicologia” elabora un modello della mente, che vede l’unità dell’esperienza umana, al di là dell’apparente molteplicità, delineando una direzione che rompe gli assiomi della psicologia classica, logica e meccanicistica, per ampliarne le dimensioni di analisi e comprensione. Proseguendo la traccia della psicanalisi, che ha voluto conoscere il livello profondo della psiche in cui dormono gli istinti primari, e sviluppando le scoperte della psicologia umanistica, che ha indagato sull’autonomia dell’Io rispetto agli istinti primari, la psicologia transpersonale vuole indagare l’uomo al di là della persona, ai livelli più elevati della psiche, su un piano spirituale e cognitivo che trascende ciò che la ragione può concepire o analizzare.
Questa “psicologia delle vette” indaga sul Sé transpersonale come riflesso dell’Atman, ed afferma che la coscienza individuale è inscindibile da quella universale. Nella visione transpersonale, l’autorealizzazione non è solo lo sviluppo dell’Io, ma è soprattutto l’estrinsecazione di qualità e virtù che collegano l’uomo alla sua sorgente. L’autorealizzazione è quindi la liberazione dalla paura e dal conflitto, ma è data anche dalla trascendenza dell’egoismo e dell’ignoranza, per realizzare le migliori qualità della vita. I mali del mondo moderno risentono di questa disarmonia dell’essere umano, e si porgono come sintomi di un profondo disagio che alberga nella mente individuale. Se tutti i mali della terra sono causati dalla coscienza umana, allora la lettura delle opere di Wilber, ci aiuterà a capire come funziona la nostra coscienza.
Wilber afferma che la parte di noi stessi che conosciamo è una linea di confine: noi conosciamo il “Sé” solo se possiamo definire ciò che è un “Non-sé” in modo da potere delimitare qualcosa per esclusione, cioè se tracciamo dei confini.
Ciò dimostra i nostri pregiudizi e la scissione mente-corpo, tipica della cultura occidentale, ma ancor più spiega come possiamo creare ulteriori confini mentali nella psiche, qualora arriviamo ad ammettere parti del Sé e a negarne delle altre. Queste nostre immagini limitate, con cui l’individuo s’identifica e che trova accettabili, costituiscono la Persona, mentre vengono negate e relegate nell’Ombra tutte le parti indesiderate. Se espandersi oltre il confine significa fare l’analisi di tutto ciò che prevarica il corpo e si collega con il Tutto, dobbiamo concepire per questo motivo, come vi siano molti livelli di identità e non uno solo. Vi è quindi il Livello della Persona che concepisce una parte persona e una parte ombra. Vi è poi il Livello dell’Ego che scinde il suo essere dal suo corpo. Vi è poi il Livello dell’Organismo Totale che comprende la natura centaurica, cioè l'armonia della parte animale e spirituale - in rapporto con l’ambiente esterno. Vi è poi il livello più elevato della Coscienza dell’unità o Coscienza Cosmica.
Tutti i diversi livelli hanno caratteristiche, sintomi e potenziali diversi e hanno terapie preferenziali diverse: ad esempio la psicanalisi e lo psicodramma lavorano sui livelli dell’Ego, mentre la psicologia umanistica, la Gestalt e la bioenergetica lavorano sui livelli centaurici. La psicologia transpersonale elabora dei livelli di consapevolezza che sono tra l’Organismo totale o Centauro e il livello di Coscienza dell’Unità, testimoniato dalle tradizioni mistiche orientali e dalla filosofia perenne.
Tutte le terapie tradizionali tendono a colmare la scissione tra parti conscie e parti inconscie, tutte tendono a riunire la persona e la sua ombra, altre vogliono unire la psiche con il soma per ritrovare il Centauro, simbolo dell’organismo completo. Nella psicologia umanistica si vuole liberare il vasto potenziale dell’essere umano, aumentando le possibilità realizzative dell’individuo. Le vie per riunire l’individuo al suo mondo, per rivelare l’identità suprema con l’universo, sono quelle del buddismo zen, dell’induismo Vedanta, ma vi sono anche varie tecniche di meditazione trascendentale, la psicosintesi, l’analisi junghiana, alcune pratiche yoga, etc.
Questi livelli, nella realtà, non sono definiti in modo tanto rigido, afferma Wilber, la loro classificazione è delineata solo per comodità teorica, ed il livello che ci interessa, è quello che racchiude il nucleo fondamentale delle tematiche personali; quello da cui dobbiamo partire per effettuare il nostro percorso. Il solo limite è costituito dalla terapia stessa, laddove si assuma la responsabilità di essere esaustiva di tutti i livelli dell’individuo. Per questo, man mano che saremo consapevoli del nostro livello di crescita, potremo meglio orientarci su quella tecnica che è maggiormente funzionale alla nostra evoluzione. Infatti l’uomo è chiamato ad una ascensione a livelli sempre maggiori di consapevolezza, allargando così i confini della sua anima, per trovare territori sempre più ampi e profondi: crescita è ri-stabilire, ri-suddividere e ri-tracciare le mappe del Sé.
Anche se nella vita tutto sembra fatto di opposti, in realtà essi sono intimamente uniti, sono le due facce della stessa medaglia. Le tradizioni mistiche orientali vedono la liberazione, nella fine dell’illusione della dualità, nella consapevolezza dell’unità: la realtà ultima è un’unione di opposti, per questo è senza confini. La soluzione alla guerra degli opposti, afferma Wilber, richiede quindi l’abbandonare tutti i confini, e il non manipolare gli opposti l’uno contro l’altro. La guerra degli opposti è il sintomo dei nostri illusori confini. Ma se ogni confine comporta potere tecnologico e politico, i confini, le manipolazioni e le classificazioni comportano anche l’alienazione, la frammentazione ed il conflitto poiché, nel volere stabilire un controllo su qualcosa, nel contempo ci si separa ed aliena da tutto ciò che si intende controllare. Con i confini si dividono le cose, si stabiliscono delle classi, si classificano le cose e si assume il controllo, ma a caro prezzo. Il controllo umano della natura, ad esempio, sia pure con le conoscenze e le consapevolezze che ne sono derivate, ha portato dei frutti dolceamari. La coscienza dell’unità deve portare ad espandere il senso del Sé, fuori dai confini del proprio corpo, verso il Tutto, dove non ci sono linee di confine. Non vi è assolutamente dissoluzione della coscienza, ma un ampliarsi della stessa nel flusso dell’universo, perché non esiste un Sé separato diverso dal mondo, ed il soggetto e l’oggetto sono la stessa cosa: il nostro Sé è il Tutto. Quando ci arrenderemo a questo, non esisteranno più le guerre e neppure i confini.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

domenica 14 settembre 2008

Il Lato Oscuro della Forza


Dal Corriere della Sera apprendo che a novembre, a Belfast, inizierà un corso che introduce alla filosofia jedi, cioè un corso al pensiero aperto e al dominio della forza. Il percorso universitario si intitolerà infatti «Senti la forza: come insegnare la maniera Jedi» e l'organizzatore, Allen Baird, spera di avere tra gli scritti almeno una trentina di studenti. Il corso sarà un pretesto per approfondire i temi “della spiritualità, i poteri chiari, oscuri e neutrali, il destino e la forza come energia pura… Nell'universo Jedi la forza nasce da dentro, grazie a organismi che vivono al loro interno. È un'energia pura. La forza va ascoltata e bisogna stare attenti al lato oscuro.” L’idea può sembrare assai stravagante, ma dopo un primo commento divertito, ci ho riflettuto sopra e non mi è sembrata carina ed originale. Il pretesto divertente, per parlare di cose serie, è molto gradevole e il corso coglie una necessità che può avere evoluzioni anche interessanti per i ragazzi che vorranno seguirlo. Per la filosofia Jedi, il Lato Chiaro della Forza è sviluppato dalla bontà, benevolenza e salute. Un seguace della luce, un Jedi, cerca di vivere in armonia con il mondo attorno a sé, usando saggezza e logica invece di rabbia e giudizi affrettati. Per raggiungere armonia con il Lato Chiaro della Forza i suoi praticanti spesso meditano per rischiarare la mente dalle emozioni. Le emozioni particolarmente negative come violenza, rabbia e odio, se non vengono respinte e combattute portano verso il Lato Oscuro, che viene seguito dai Sith. Costoro disprezzano i Jedi che considerano dei codardi perché, come afferma sarcasticamente Yuthura Ban “Corruzione è una parola che i patetici usano per descrivere il naturale desiderio di potere che essi stessi negano.” Nella frase del saggio Yoda, “Illuminati noi siamo…con questa materia grezza” come in tante altre simili, echeggiano le teorie di filosofie orientali e di fonti sapienziali di tutto il mondo, da cui Lucas ha ampiamente attinto. Per questo i due avvertimenti di Yoda: “Paura, odio, ansia e vendetta sono tutti sentimenti che portano al Lato Oscuro, Luke.” e “La paura porta alla rabbia, la rabbia porta all'odio, l'odio porta alla sofferenza” vanno pienamente sottoscritte.
Senza voler essere barbosa, dovrei dire che il film di Lucas si basa su abile pout pourri di filosofie orientali, che agli amanti di queste sarà facile riconoscere, ma è comunque utile come elemento di approccio a queste prospettive, visto che molti non si sarebbero forse sognati di leggere nulla di esse, se non ne fossero rimasti incuriositi dal film.
Il Lato Oscuro della Forza si nutre di paura, perché la paura è il peggior nemico dell’uomo, ed è anche il peggior nemico dell’evoluzione spirituale dell’uomo. La nostra cultura incoraggia profondamente il sentimento di paura dandogli la maschera del giudizio e della competizione. Nel primo mettiamo in atto un paragone tra due persone, infatti giudicando non si fa altro che esprimere un giudizio di valore dell’altro, cioè se vale più o meno di noi e il giudizio si erge quando abbiamo paura che l’altro ci oltrepassi in un gara al più meritevole e più bravo. Altro elemento dell’inadeguatezza è la paura di non essere approvati, il timore non riscuotere il consenso degli altri, per creare dipendenza e assoggettamento.
Ma in generale il sentimento di paura è diffuso in tre aspetti che costituiscono dei vissuti universali: la paura di essere abbandonati (paura di separazione) la paura di non essere all’altezza della situazione (paura di non valere) e la paura di essere vinti (paura di non avere la forza e il coraggio di affrontare le emergenze). Anche il giudizio affrettato di condanna con cui siamo soliti liquidare le cose che non comprendiamo, si nutre delle nostre paure dell’ignoto. La paura esiste anche quando non vogliamo vedere le cose per come sono, cioè quando facciamo lo struzzo, infatti sopraggiunge la negazione della loro esistenza e giustezza: non è vero quindi non esiste, quindi non devo averne paura.
L’ironìa è proprio nel fatto che si finisce sempre per attrarre proprio l’oggetto delle nostre paure. Questo avviene perché le paure sono fomentate dai nostri pensieri, dalle nostre parole e dai nostri sentimenti. Essi funzionano come una vera e propria calamita per quei contenuti e per quei concetti aldilà del loro essere di polarità positiva o negativa. La polarità dei contenuti del pensiero, è irrilevante rispetto al forte potere magnetico che è posseduto dal pensiero stesso. La forza del pensiero agisce in modalità evocativa per l’esperienza temuta o desiderata, la catalizza, ed essa puntualmente si presenta. Tante filosofie e forme sapienziali avvertono sulla purezza del cuore e del pensiero per il motivo che ho detto. Essere sempre vigili, essere sempre padroni del nostro pensiero, protegge ed esorcizza dall’attualizzazione dei nostri fantasmi mentali, per questo tanta attenzione si dedica alla meditazione giornaliera e al dominio della mente, per affrontare senza rischi il percorso spirituale. Per questo nella nostra mente va custodito solo il pensiero di ciò che vogliamo realizzare e non si devono sprecare energie a pensare a ciò che ci fa paura. Le paure sono frutto delle nostre resistenze interiori, sono frutto delle barriere che la nostra mente costruisce, sono il prodotto della nostra volontà di prendere una direzione, sia essa positiva o negativa. Il pensiero di potere essere felice, la fiducia di potere superare gli ostacoli, la consapevolezza del nostro valore e del nostro essere degni di felicità, spiana la strada alla realizzazione personale e alla tranquillità dell’animo, poiché investe le energie in realizzazioni positive, piuttosto che disperderle in preoccupazioni ed ansie dannose.
L’abitudine a pensare con i vecchi schemi di pensiero ci condanna a rivivere perennemente le stesse storie e gli stessi insuccessi, anche se le persone cambiano perché il copione che impersoniamo viene scleroticamente ripetuto con situazioni simili che scegliamo perché ben conosciute, sia pure dannose ma rassicuranti. Tendiamo a ripetere sempre gli stessi errori, dandone la colpa alla sfortuna o alle circostanze fortuite. In realtà non vi è nulla di fortuito, soprattutto negli incontri, essi sono sempre frutto di quell’enorme magnete che abbiamo costruito con il nostro pensiero e con la nostra convinzione, sia pure negativa o infelice. Ma perché? Secondo alcuni autori spirituali questi incontri servono da enorme specchio, da potente stimolazione, che ci deve aiutare a prendere consapevolezza e guarire dai meccanismi ossessivi e limitatanti che ci soffocano la vita. La nostra realtà interiore emana un certo tipo di energia, che viene captata e recepita da coloro che ne hanno una simile, perciò giunge nella nostra vita solo lo specchio della nostra emanazione. L’arrivo di queste persone o esperienze, serve per farci accettare gli aspetti oscuri o distruttivi di noi stessi, serve per farci compiere un grosso salto evolutivo proprio in virtù del superamento degli schemi sbagliati dell’esistenza. Nel risanare le parti malate di noi possiamo godere di benefici insospettabili e tornare veramente ad una nuova vita. Tagliare con le parti oscure, richiede un Io compassionevole, non rancoroso e rabbioso, richiede il grosso equilibrio di riuscire a ringraziare coloro che si assumono il karma negativo di farci del male per farci evolvere, come afferma il buddismo, e di benedirli perché dovranno pagare duramente per il male che ci fanno. Questo ci renderà immuni e non vittime della potenza diabolica del male. Questo mi sembra il compito più impegnativo nel dominio del Lato Oscuro della Forza.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

giovedì 11 settembre 2008

La pecora nera al mercato dei pensieri forti


Qualche tempo fa ho letto un articolo in cui si affermava che pensare fa male al cervello, e in un trafiletto riportato dal giornale “The Economist” si affermava: “Come un duro lavoro fisico lascia il segno sulle mani, pensare molto lascia il segno sul cervello”. Mi è venuto da ridere perché il mio pensiero è andato a Rita Levi Montalcini, una donna che il cervello non lo ha affatto risparmiato e che ne abusa brillantemente a 99 anni, con la pubblicazione del libro “L'asso nella manica a brandelli”, per la Baldini Castoldi Dalai, nel 2008. A 97 ha dichiarato alla giornalista di Repubblica "Credo che il mio cervello, sostanzialmente, sia lo stesso di quand'ero ventenne. Il mio modo di esercitare il pensiero non è cambiato negli anni. E non dipende certo da una mia particolarità, ma da quell'organo magnifico che è il cervello. Se lo coltivi funziona. Se lo lasci andare e lo metti in pensione si indebolisce. La sua plasticità è formidabile. Per questo bisogna continuare a pensare". Io la penso esattamente come lei: il pensiero è un toccasana per la salute fisica, mentale e spirituale. Per adesso tale attività non è stata ancora proibita però viene continuamente dissuasa e disturbata perché pericolosa, noiosa ed estremamente demodé. Tutto cospira per convincerci che stare senza pensieri è più comodo, si vive meglio, al riparo da tante seccature e, soprattutto si appare meno barbosi. Non riesce facile avere rapporti con persone che vogliono sempre capire, sapere ed indagare. I bambini troppo vivaci vengono bollati come iperattivi e vengono normalizzati in modo forzoso, affermando che il loro squilibrio è endocrino e biochimico. Il Disturbo da deficit d'attenzione ed iperattività (ADHD) è un disturbo neuropsichiatrico che viene diagnosticato nei bambini e che viene curato con il il metilfenidato (Ritalin), o con suoi derivati. Questo medicinale, appartenente alla famiglia delle amfetamine, è, una sostanza stupefacente. In Italia fu ritirato dal commercio nel 1989, ma ora sembra si voglia reintrodurlo. In America vi è un’ampia documentazione di bambini vivaci curati con Ritalin, che sono morti per crisi cardiache e di adolescenti che si sono uccisi, a causa di forti crisi depressive collegate alla sindrome da astinenza dal farmaco stesso. Recentemente in America, è stata istituita una legge la quale stabilisce che, su tutte le confezioni di queste sostanze appaia ben grande e chiara, una scritta con un avvertimento dei pericoli che si corrono con la loro assunzione e inoltre, si prescrive che, prima di somministrare tali sostanze, il medico dovrà ottenere il consenso informato dal paziente. Il Movimento umanista italiano ha promosso una campagna contro l’uso di psicofarmaci sui minori, avvertendo che, contrariamente che in Canada, Australia, Giappone e Nuova Zelanda dove è stato proibito non solo il metilfenidato, ma tutti i psicofarmaci ai minori di 18 anni, in Italia molti bambini vengono già curati con il pericoloso farmaco sebbene sia inserito nella Tabella A degli stupefacenti. I metodi con cui questo viene fatto furono denunciati da una coraggiosa inchiesta di Report.
Chiaramente il gioco è nel controllo di tutti i fenomeni da normalizzare perché scomodi e incontenibili. “Il Ministero per la Salute vuole creare una ‘rete di controllo’ sui bambini, che verranno inquadrati e schedati per questi presunti problemi comportamentali, e poi verranno sottoposti a terapie a base di psicofarmaci stimolanti. Poi compileremo la lista dei morti come negli Stati Uniti. Lo voglio dire chiaramente: il Ministero non sa quello che fa ed a cosa andrà incontro”. Così si è espresso il prof. Giorgio Antonucci, psicoanalista e già collaboratore di Franco Basaglia, riguardo alla futura regolatoria italiana per l'immissione in commercio e i criteri di rimborsabilità del farmaco contro l'iperattività dei bambini, il metilfenidato, meglio conosciuto come Ritalin.
Il pensiero libero viene sconsigliato così fin dall’inizio, si preferisce insegnare che c’è chi può pensare per te, e può farlo anche meglio di te, e che pensare è faticoso e pericoloso, perché facendo indagini sul senso della vita, si rischia di essere infelice. Molto più facile ricorrere a fonti accreditate che, evitandoti noie, possano fornire un bel pensiero forte, cioé accreditato da ampio numero di consensi, condiviso da tanti, forte del numero se non della ragionevolezza, ma adeguato a fare da barriera e difesa alla massa. Molto peggio invece, assumersi la responsabilità di elaborare un pensiero genuino ed originale, quindi troppo personale ed autonomo, perché esso è debole, perchè sostenuto e rappresentato da una sola persona. Per questi motivi si tende a delegare l’atto del pensiero, per questo si disattiva il proprio “sistema per pensare” e si cerca di trovarne un altro più forte e condiviso, accettando così che faccia tutto al nostro posto. Per questo vi sono tanti maestri di pensiero di successo in giro, osannati e incensati sebbene vendano dei concetti e/o dei preconcetti desueti ed abusati. Tali stereotipi riscuotono ancora molti consensi, malgrado siano una congerie di stupidaggini e prodotti sottoculturali di stile sciatto, sguaiato, trasandato, all’insegna della rozzezza e della grossolanità: tutto si accetta se è “in” e nulla si attua se è“out.” Non è molto facile dunque reagire all’omologazione e ritrovare il gusto di pensare, di riflettere e di costruire delle idee che non siano affermate solo perché sostenute da molti. Senza dubbio è difficile pensare in solitudine e pensare in modo diverso, autonomo e anticonformista. Difficile è resistere alle mode, alle ideologie, alla massificazione, alla disumanità che avanza, alla corruzione del denaro che compra tutto. Difficile resistere alle minacce e alle persecuzioni, in paesi in cui l’indipendenza di pensiero assume toni politici e sociali di forte spessore, ancor più difficile resistere alle lusinghe e agli onori che si potrebbero conseguire dimostrandosi solo “un pochino più malleabile e collaborativa” o “meno Don Chisciotte” o “meno Bastian contrario.”
C’è bisogno di molto coraggio per entrare in disaccordo con le opinioni della maggioranza, per elaborare dei pensieri personali e per costruire profonde convinzioni, si viene tacciati di stravaganza, di irragionevolezza e boicottaggio. Difficile resistere alla forza della massa. Nel vocabolario di una nuova resistenza invece, possono entrare molti fattori di orgoglio, che possono rinforzare la nostra autonomia, una nostra audace concezione del mondo, un’audacia creativa e costruttiva sulla nostra realtà. Si può essere felici di non avere alleanze o amicizie millantate solo per convenienza e calcolo, felice di non essere un trombone che viene suonato da chiunque passi, sulle note di una marcetta che non ti piace ma che balli, perché così fan tutti. Felice di essere una pecora nera che va al mercato del pensiero forte e che decide che non c’è nulla che valga la pena di essere acquistato.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

martedì 9 settembre 2008

Ricercare il vero amore


Ho cercato l'amore in molte vite. Ho versato lacrime amare di separazione e di pentimento per capire che cosa sia l'amore. Ho sacrificato ogni cosa, gli attaccamenti e le illusioni, per imparare, alla fine, che amo soltanto l'Amore, soltanto Dio. Allora ho bevuto l'amore da tutti i cuori sinceri. E ho visto che egli è l'unico cosmico amante, l'unica fragranza che permea nel giardino della vita tutti i variopinti fiori dell'amore.
Molte anime, ansiose e impotenti, si domandano perché mai l'amore voli da un cuore all'altro: le anime risvegliate sanno che il cuore non è incostante quando ama persone diverse, perché è l'amore per l'unico Dio-Amore, che è presente in tutti i cuori.
Il Signore ti sussurra sempre silenziosamente: Io sono l'Amore. Ma, per fare l'esperienza del dono dell'amore, ho diviso me stesso in tre: l'amore, colui che ama e colui che è amato. Il mio amore è bello, puro, eternamente felice e io lo assaporo in molti modi e in molte forme.
Come padre, bevo riverente amore dalla sorgente del cuore di mio figlio. Come madre, bevo il nettare dell'amore incondizionato dalla coppa dell'anima del bambino. Come bambino, assorbo l'amore protettivo della giusta razionalità paterna. Come neonato, bevo l'amore senza limiti dal sacro Graal della magia materna. Come padrone bevo l'amore comprensivo dalla coppa della sollecitudine del servo. Come servo, sorseggio rispettoso amore dalla coppa dell'apprezzamento del padrone. Come Guru, gusto l'amore purissimo dal calice dell'assoluta devozione del discepolo. Come amico bevo dalle fontane spumeggianti dell'amore spontaneo. Come amico divino, bevo a grandi sorsi le acque cristalline dell'amore cosmico, dalla riserva dei cuori che adorano Dio.
Amo l'amore soltanto, ma mi lascio illudere quando, come padre o come madre, curo e amo solo il mio bambino; quando, come amante, mi prendo cura solo dell'amato, quando, come servo, vivo solo per il padrone. Ma poiché amo soltanto l'amore, spezzo infine l'illusione della miriade dei miei sé umani. Per questa ragione conduco il padre nelle regioni astrali, quando dimentica che è il mio amore, e non il suo, a proteggere il figlio. E strappo il bambino dalle braccia della mamma, perché lei possa capire che è il mio amore che adorava in lui. E rapisco l'amata all'innamorato che crede di amare lei, invece del mio amore che risponde in lei.
Così il mio amore gioca a nascondino in ogni cuore umano, affinché tutti possano imparare a scoprire e adorare non i temporanei involucri umani del mio amore, ma il mio amore stesso, che danza da un cuore all'altro.
Gli esseri umani si tormentano l'un l'altro dicendo: "Ama solo me", e così io raffreddo le loro labbra e le sigillo per sempre, affinché non pronuncino più questa menzogna. Poiché sono tutti miei figli, voglio che imparino a pronunciare la verità: "Ama l'unico Amore in tutti". E' una falsità dire a un altro: "Ti amo", finché non si comprende la verità: "Dio, quale amore, in me, ama il suo amore in te".
La luna ride dei milioni di innamorati che, inconsapevolmente, hanno mentito ai loro amati dicendo: "Ti amerò per sempre". Le loro ossa sono sparpagliate sulle sabbie dell'eternità spazzate dal vento. Essi non possono più usare il loro respiro per dire: "Ti amo". Non possono né ricordare né mantenere la promessa di amarsi per sempre.
Senza dire una parola, io ti ho sempre amato. Io solo posso veramente dire: "Ti amo", perché ti amavo prima che tu nascessi il mio amore ti dà la vita e ti sostiene anche in questo momento; io solo potrò amarti quando i cancelli della morte ti imprigioneranno là dove nessuno, neanche il tuo più grande amore umano, potrà raggiungerti.
Io sono l'amore che fa danzare le marionette umane sui fili delle emozioni e degli istinti, per recitare il dramma dell'amore sul palcoscenico della vita. Il mio amore è meraviglioso e infinitamente dolce, quando amate soltanto l'amore; ma la fune di salvataggio della vostra pace e della vostra gioia si spezzerà, se vi lascerete irretire dalle emozioni umane e dagli attaccamenti. Figli miei, cercate di capire che desiderate veramente soltanto il mio amore.
Coloro che mi amano solo come persona, o che mi amano imperfettamente in una sola persona, non sanno che cosa sia l'amore. Sanno che cosa è l'amore solo coloro che mi amano saggiamente, perfettamente, completamente, con totale abbandono, coloro che mi amano perfettamente e ugualmente in tutti e che mi amano perfettamente e ugualmente come tutti.
(Paramahansa Yogananda)
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

sabato 6 settembre 2008

A Vostra Eccellenza, sulla mala qualità delli cingani erranti…


Emerge una grande preoccupazione nell’uomo quando non riesce a catalogare con quale sorta di gente s’imbatte. Di fronte all’incognito, allo sconosciuto, all’”altro da sé” emerge allora la forza dello stereotipo, ed entro queste stereotipìe si cerca di fare confluire delle specificità caratteriali, che si pensano e/o s’immaginano come vere ed autentiche. Si creano così delle categorie non ben definibili, in cui i tratti costitutivi sono applicabili a generi diversi perciò intercambiabili, in una sorta di passepartout politico, culturale e ideologico. In preda al timore dell’ignoto, si diviene come confessori o inquisitori medievali, pronti ad impugnare tutte le pratiche punitive e repressive che si possono reperire, al fine di delineare, controllare ed esorcizzare l’elemento alieno. Queste utili riflessioni mi sono scaturite dalla lettura di un saggio critico dedicato ad alcuni bandi, che la Serenissima Repubblica di Venezia emanò dal 1549 al 1588, contro i cingani, gli tzigani, gli zingari cioè i rom. Da queste fonti, emerge una sapiente gestione politica dell’immagine (dalla forte connotazione antropologico-criminale) del deviante e del diverso, che mi sembra di grande modernità ed attualità.
Allo stereotipo tzigano, i bandi attribuiscono i tratti di genti erranti, truffaldini, ingannatori, dediti alla chiromanzia e ad altre pratiche di latrocinio. Per questo il 21 dicembre 1549, il Senato considerato il “molto danno e non poco dispiacere” provocato ai sudditi dalla “prattica de i cingani erranti, che vanno alloggiando in campagna, et nelle ville del Stato Nostro” concede ai rettori di dette terre, 10 giorni di tempo per mandare dette persone, “fuora dalli Territorii a loro commessi.” Erranti e vagabondi sono queste genti, neppure criminali, ma per i cingani questo basta per renderli indesiderabili nei domini veneziani. Si invitano – come in tante grida cinque-seicentesche – all’arbitrio dell’”Eccellenze Vostre” di trovare il giusto rimedio perché tale pratica possa estirparsi, cioè del transito degli indesiderabili sui territori veneti, sia pure nel frangente del solo transito e non della permanenza di essi. Molta severità s’invoca anche nella concessione del transito, affinchè non si conceda l’accesso a gente di mala qualità che causano molestie, danni e molti altri disturbi, con “grande mormorazione dei sudditi” veneti. Laddove qualche cancelliere usasse metodi di beneficio con dette persone, sia privato della sua Cancelleria a causa di tali licenze, e gli sia impedito in perpetuo di esercitare alcun ufficio “nei Territorii dell’Eccellenze Vostre.”
La parte sanzionatoria e punitiva non può escludere una figura criminale, per cui, che tali genti che vanno transitando e vagando siano fatti uscire “subito et immediate” e che i “clandestini” siano posti al “remo nelle galee nostre, dove abbino a servire alla Catena” almeno per 10 anni. Si decidono anche delle taglie da pagare per ogni cingano che venga consegnato alla giustizia, come pure che i “cingani così huomeni, come femine” ritrovati sui territori veneziani possano essere “impune amazati” e che gli esecutori di tali delitti non siano accusati di alcun reato.
Dalla grida veneta emerge la moderna costruzione di misure punitive costruite contro figure anomale, sfuggenti e perciò difficilmente controllabili. La costruzione è magistrale e definita a tavolino, poiché la società del tempo ammetteva pienamente la figura del bravo girovago - il Griso di manzoniana memoria - la cui utilità sociale veniva riconosciuta tramite l’impunità, che derivavano dal servizio prestato all’establishment come guardia del corpo. Tale impunità era certa, anche se quei personaggi avevano perlopiù, trascorsi di banditismo e criminalità ben conosciuti alla giustizia.
Nel 1588 la Serenissima pubblica una nuova grida sui cingani, preludendo però tali norme, con un incipit in cui si denunciano dei presunti “complici,” che tengono poco conto della giustizia, e che offrono aiuto e riparo a detti cingani, diventando così complici dei loro latrocini, a tutto svantaggio delle “povere genti” che sono vittime di tali malfattori. Tali fiancheggiatori devono essere messi alla galea almeno per 3 anni, legati ai remi con la catena, ad arbitrio, da parte del rettore, di tenere conto della “qualità della persona” e rendere la pena meno severa. Quest’ultima eccezione equivale a dare un implicito consenso per le protezioni altolocate per le quali, ad esempio pagare una multa, poteva costituire un fastidio impercettibile.
Strani fenomeni, in cui le figure criminali e devianti non sono assolutamente riconosciute o riconoscibili con caratteri propri, cioè con una fattispecie compiuta e distinguibile, ma vengono identificate sulla base di stereotipi culturali a cui vanno negate anche le garanzie della gente comune. A tali figure moleste non vanno concessi dei salvacondotti, anche nel caso che possedessero dei requisiti che glieli potesse far rivendicare; tutto ciò in nome di una loro “particolarità” a priori. In questa turba di persone, mal viventi e vaganti, si ravvisa una violenza tale da incutere paura, in virtù del loro numero e della loro forza implicita. Venezia, tramite il suo Senato, si preoccupa per la pace e la tranquillità “delli boni e quieti” cittadini di proibire di uscire armati ed in numero di più di 4 persone, ovvero mette al bando tutte le “comitive criminali.” Con la dimensione collettiva, si opera una maggiore sensazione di intento criminale e di premeditata azione di offensività ai danni dell’ordine sociale. Si mette in atto il timore dell’orda barbarica e dei flussi incontrollabili, per creare una retorica del pericolo e del timore sociale, contro le caratteristiche distinguibili di tali genti”infesti e vaganti”: cioè genti vagabonde, pitocchi, mendicanti, prostituti, ubriachi e altre persone sospette a causa di tali condotte di vita. La pratica del bando cinquecentesco, sempre comminato “ad personam” viene sovvertita, poichè esso diventa un provvedimento collettivo, contro una categoria che costituisce il flagello dei buoni cittadini. Essi hanno lo status di “erranti, vagabondi, mal viventi” per cui sono in definitiva “altro” rispetto i comuni cittadini. Sono forse “foresti” , ma dei forestieri dai tratti esotici, dai modi animaleschi, violenti, dediti al furto e all’inganno, mal viventi che sbarcano il lunario con espedienti truffaldini. Si offre il trionfo delle stereotipo impreciso ed indefinito, ma estremamente funzionale, poiché semplifica e si adatta all’immagine di una paura serpeggiante ed indefinita, quindi facilmente plasmabile e rimodellabile. Il bando è la risorsa giuridica migliore per relegare e controllare gli incontrollabili e per non dovere pensare il paradosso delle loro anomalìe. Esso viene comminato con una sfumatura negativi dei confini, poiché il bandito viene scacciato “altrove da qua” e comunque fuori dai confini ordinari dello Stato. Se poi la vita al bando presuppone un’esistenza di transiti e un potere andare e venire, di essere presenti provvisoriamente anche se non persistentemente, anche a questo la grida pone rimedio imponendo forti limiti anche al diritto di transito, imponendo un fuori da qua, un altrove di queste genti rispetti ai confini della Repubblica. Ed io mi chiedo dove sia “l’altrove” di colui che viene scacciato da tutti.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

giovedì 4 settembre 2008

La perfezione dell'essenziale


Una condizione particolare che ho vissuto mi ha fatto riscoprire la bellezza dell’autenticità e dell’essenzialità. Questa essenzialità a cui alludo, è solo in parte correlata al disgusto per gli sprechi della nostra società consumistica, sebbene l’impulso sociale compulsivo-ossessivo, che è il prodotto patologico del capitalismo avanzato, stia spingendo il pianeta verso uno sviluppo insostenibile ed ottuso che rischia di annullarci. Fare nulla è impossibile perciò dobbiamo fare una rifondazione almeno personale, dobbiamo fare un passo che lasci traccia del nostro essere, non farlo sarebbe karma negativo.
L’essenzialità a cui mi riferisco è una sorta di ecologia della mente o di ecologia dello stile di vita, che potrebbe costituire il nostro passo, il nostro contributo per un migliore modo di vivere e di rapportarsi con gli altri. L’ essenzialità che auspico, è quella che permette di vivere dei ritmi di lavoro e di tempo libero personale che possano stare in un equilibrio più equo e costante. Certamente uno stile di vita sobrio aiuterebbe a rompere la spirale perversa di produzione/consumo da cui siamo ossessionati, e a cui chiediamo di anestetizzare le nostre insoddisfazioni. Un maggiore riequilibrio del nostro tempo personale e dei nostri stili di vita ci permetterebbe di vivere in modo più umano e soddisfacente e ci aiuterebbe a sentirci più felici, ridando il senso alle cose veramente essenziali ed autentiche.
La cura di noi stessi è il primo passo per un’etica di vita più umana ed equilibrata. Spesso questo accudimento personale viene demonizzato a causa di retaggi religiosi e culturali inadeguati, gli stessi che hanno castrato per secoli la corporeità e la sensualità umana. Errori ed orrori di pensiero che hanno sradicato e reso infelici un’infinità di persone, errori che ancora oggi schiacciano la vita di molti e che impongono una mortificazione di cui nessun dio saprebbe cosa farsene.
Prendersi cura di sé significa riconoscere il valore assoluto della bellezza della condizione umana, della gioia del respiro, del pulsare del sangue nelle vene, significa riconoscere la gioia del contatto con la propria carne e con i propri sentimenti. Significa infine, sapere riconoscere anche la bellezza degli altri e riconoscere la soddisfazione di potere guidare la propria vita, significa sapere reggere la responsabilità di un rapporto di affetto, di amore e riconoscimento. Nessun rapporto può essere gratificante se comporta la perdita dell’identità personale e la riduzione del nostro valore come individui, nessun rapporto di disparità può dare gioia. Avvertire la preziosità del proprio corpo e della propria mente, del nostro essere, non ha nulla da spartire con il narcisismo che è l’incapacità di amare, che è inflazione dell’Io. Nel corpo, come dimensione e percezione della globalità dell’essere umano vi è la pienezza della vita, vi è la maturità dell’essere e dell’esserci nel mondo. Il senso è quello che veniva proclamato da Heidegger, che vedeva il significato della vita degli uomini come un prestarsi alla possibilità e al progetto. Esistere significa infatti per Heidegger "ex-sistere", ovvero non essere più "un permanere", ma costantemente andare oltre questo permanere, verso la possibilità aperta, verso la novità. L'esistenza dell'uomo per Heidegger, può autenticamente svilupparsi solo entro la possibilità della libera scelta, solo se comprende il senso dell'essere come orizzonte entro cui è possibile il libero "gioco" del divenire.
Perciò una dimensione puramente esteriore ed estetizzante non riesce a dare soddisfazione alle esigenze spirituali umane, sebbene la società consumistica millanti l’ideale di una qualità di vita puramente esteriore ed appariscente, di una felicità grossolana e burina, che si compra e paga, ma che non appaga mai. Il corpo che sente veramente è attraversato da affetti, passioni ed emozioni e dalla dimensione del piacere, che è la massima manifestazione dello splendore e delle gioia dell’esistenza.
Il corpo che sente è intenso ed essenziale, non si nutre di apparenze, si nutre di sostanze vere e di contenuti di valore. Per ottenere questo è necessario creare uno spazio interiore che possa contenere la nostra storia, per prendersi cura della nostra identità. Per comprendersi è necessario ritrovare le trame della nostra vita e ricostruire il filo del nostro racconto personale, del racconto della nostra vita. Se necessario bisogna ricostruire tutti quei fili che si sono spezzati e ritessere tutte le trame sfilate. Bisogna avere il coraggio di lasciare lo spazio alle nostre emozioni, ai sentimenti e alle nostre paure, riconoscendo che quelle fragilità hanno creato la nostra sensibilità e l’altezza del nostro sentire. Questo lavoro viene spiegato meglio da Heidegger quando afferma che l'esistenza inautentica si perde nel "si dice", "si fa", ovvero nell'accettazione distratta di un'esistenza già vissuta da altri e quindi già creata, senza alcuna possibilità di creare nulla come novità sostanziale. L'esistenza autentica invece respinge questa inautenticità affermando consapevolmente il proprio carattere di estrema possibilità relativamente allo slancio creativo (l'esistenza autentica vive seguendo l'originalità radicale del proprio dipanarsi e non le forme delle esistenze già dipanate da altri).
Questo lavoro sul sé e sulle personali aspirazioni, il lavoro sulla fragilità, ha bisogno di nutrirsi di bellezza, di sentimenti, di sostegno e di gioia, di pause di ricreazione e di rilassamento, di risate. Facendo risuonare questi sentimenti in noi stessi, creiamo lo spazio per ospitare e riconoscere anche gli altri, ma occorre l’intimità, un’interiorità che sia capace di apprezzare il silenzio, la sospensione ed il ritiro, una capacità di sapere fare dei bilanci, una sensibilità che sappia dimostrare quella spiritualità cioè quella dimensione profonda dell’esistenza che si accresce con il silenzio e la meditazione, cioè con la pratica dell’essenzialità. Questa capacità di essere autentico ed essenziale, ci rende ancora più umani e sobri, ma anche ospitali ed accoglienti perché capaci di percepire con poco, recettivi ai sintomi e agli sguardi, al volo delle rondini e alle orme invisibili degli animali. Lasciando tacere le preconcezioni, annullando quelle voci interne ed esterne che non ci appartengono, ci si riscopre semplici e perfetti, ancora più umani e sublimi perché veramente padroni e responsabili del nostro essere. Quando non dobbiamo dimostrare nulla a nessuno, quando stiamo bene nei nostri panni, quando manifestiamo la nostra vera ed autentica essenza, allora diventiamo finalmente liberi e felici.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

mercoledì 3 settembre 2008

Uscire dalla trappola del Messia


Riflettevo con un’amica sui rapporti che richiedono un’enorme carica energetica e sulla tendenza di alcune persone ad instaurare relazioni troppo intrusive: queste persone sono appiccicose, soffocanti, sempre bisognose, egocentriche, sempre sull’orlo della crisi e pronte a colpevolizzarti se non si è solleciti ad offrirgli aiuto. Spesso esse ci sono molto care, o lo sono state, per cui ci rendiamo conto solo a posteriori, quando il sentimento si è raffreddato, di quanto avessero condizionato la tua vita. Esse si informano raramente sulle esigenze e sui sentimenti altrui e tendono a risucchiare tutte le risorse, monopolizzando il tempo e le energie degli altri. I rapporti troppo asfissianti non producono benessere, soprattutto quando ci accorgiamo che qualcuno vuole camminare con le nostre gambe perché non sente le sue sufficientemente forti o non vuole faticare a costruirsi comode stampelle, mentre invece preferiscono aggrapparsi come un parassita e lasciarsi trascinare. La mia migliore consigliera, la mia Mazzarino, mi diceva che questo avviene a chi è dotato di forte personalità per cui, chi ha una potente carica energetica, rischia di essere vampirizzato da coloro che hanno minore energia, in ironica armonia con le leggi della fisica. Ho ribattuto che comunque, ogni uomo ha le sue risorse energetiche per cui ognuno dovrebbe governare le proprie risorse interne, ma lei mi ha risposto che la maggioranza non ne è capace o non ne ha voglia; questo spiega gli atteggiamenti conformistici e stereotipati delle masse. Oggi molte persone non hanno forti valori energetici, vivono con un alone energetico sbiadito ed incerto, sono confusi e deboli, sono amorfi. Io credo che una simile visione dell’uomo sia pessimistica, ma lei esercita una professione in cui maneggia solo materia e mente umana - e con grande maestrìa - per cui so che ha ragione. Ma come è possibile che sia così sgradevole lavorare con la propria energia personale? Si può accettare di vivere senza assumersi il timone della propria vita? Si può vivere per vegetare o vegetare pensando di vivere? Ho conosciuto chi lo ha scelto scientemente e non senza sofferenza, ma gli sembrava meglio così, forse era molto più comodo. Ma se tutti posseggono una fonte inesauribile di magnetismo personale, solo pochissimi riescono a svilupparlo in modo adeguato, perché migliorare sé stessi è duro e porta sofferenza. Come molte delle nostre facoltà, spesso non riusciamo a valorizzare le doti ed i talenti naturali a causa della mancanza di volontà e della debole determinazione.
Nulla ci può essere tolto delle nostre virtù, come pure si ottiene sempre una manifestazione pratica come ricompensa dei nostri sforzi, per questo si manifesta il magnetismo posseduto perchè il livello vibratorio su cui siamo accordati, vibra sulla lunghezza d’onda delle frequenze emanate dalla nostra anima. Il magnetismo non è elevato se vibra sui livelli fisici ed animali, soprattutto in coloro che sono soggetti all’ipnosi di Maya, cioè in coloro che soccombono all’illusione terrena. Essi posseggono vibrazioni basse, che si manifestano sui piani inferiori e materiali dell’esistenza e mancano degli alti livelli vibratori presenti nelle personalità profondamente spirituali. Il magnetismo spirituale è invece, una carica energetica di profonda vitalità positiva, un potere dell’anima di attirare benessere e vitalità, esso è il potere di emanare la vitalità divina presente in ognuno di noi, ma da ridestare e coltivare con costanza e determinazione.
La cabala afferma che, alla nascita, ci viene infusa la Nefesh, la parte più bassa dell’anima, l’anima fisica e animale legata al mondo materiale, capace di fare del male solo per appagare i suoi bisogni. Perfezionandoci conquistiamo la Ruach, che è l’anima sensibile capace di distinguere tra il bene e il male e capace di scegliere la via della saggezza: è il “soffio” che può salire al cielo. Solo tramite lo studio, la meditazione e il compimento delle buone azioni si può conquistare la Neshamah, che è l’anima o lo spirito superiore, di natura divina, pura e nobile. Neshamah è il santo grado celeste, la corona del cielo più alto, è lo scettro dell’uomo che possiede un’anima santa.
Gli indù credono che l’energia cosmica o prana, entri nel nostro corpo all’atto del concepimento e che, nel corso della vita, venga costantemente ricostituita. Paramahansa Yogananda spiega il detto di Gesù “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio” in questo senso. La “bocca di Dio” a cui si allude è il modollo allungato attraverso il quale, il divino spirito-soffio vitale fluisce nel corpo, emanato dalla sorgente cosmica. Lo sviluppo dell’energia vitale richiede la massima cura sia del corpo che della mente e, nell’induismo, molte pratiche di yoga kundalini hanno lo scopo di armonizzare l’unione tra Jivatman (l’anima individuale) e Paramatman (l’anima o spirito-energia universale). Risvegliare la nostra kundalini ha lo scopo di risvegliare la nostra più profonda consapevolezza, realizzando la perfetta integrazione del Sé vista come equilibrio di corpo, mente e spirito.
Nella Bibbia si narra che, quando Dio portò la sua parola al profeta Daniele, non solo gli infuse il dono della profezia, ma ne rinvigorì anche il corpo, stremato e del tutto privo delle energie vitali, ridonandogli forza e vigorìa. Van Helmont, discepolo di Paracelso, nel suo Magnale Magnum, asserisce che la segreta proprietà magnetica “permette a due persone di influire reciprocamente tra loro […] Ogni essere creato possiede il suo proprio potere celeste ed è strettamente alleato con il cielo […] il magnetismo è una proprietà sconosciuta di natura celeste […] nascosta nell’uomo interiore.”
Tra le persone e l’ambiente si determina quindi, un costante scambio energetico e magnetico e le persone con maggiore carica energetica, cedono una parte della loro carica a coloro che ne posseggono meno. Incontrando le persone si avverte la carica magnetica che essi emanano, così come ogni oggetto ed ogni azione sia positiva che negativa, crea delle vibrazioni in tutto l’etere. E’ per questo che coloro che hanno una forte carica magnetica, ma sono dotate di debole potere mentale, dovrebbero rifuggire dalla frequentazione di persone con forte magnetismo negativo, poiché possono cadere facili vittime della forza negativa dell’altro. Qualora si stia affrontando un percorso spirituale che risveglia dei poteri magnetici personali, ma non si sia ancora sviluppata una sufficiente forza mentale, sarebbe raccomandabile non frequentare persone negative. Bisogna invece essere certi che il nostro magnetismo positivo sia molto potente, per potere affrontare chiunque e non rimanerne influenzato e, se ci sentiamo deboli o influenzabili, è necessario creare strategie di difesa. Bisogna evitare di sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda delle vibrazioni indesiderate, ma questo controllo richiede una grande calma interiore; infatti la calma impedisce alle vibrazioni irritanti di interferire e disturbare. Prendiamoci delle pause o delle distanze se le nostre energie risentono negativamente di una relazione. Facciamo silenzio in noi stessi e disponiamoci ad ascoltare le nostre esigenze più profonde. Per questo è preferibile frequentare persone che abbiano un’assonanza vibratoria simile alla nostra, essere calmi e determinati e agire nella consapevolezza di essere padroni di noi stessi. E’ necessario usare in modo saggio il tempo che abbiamo a disposizione, facendo ogni giorno almeno una cosa che ci doni la soddisfazione di averla realizzata. Dobbiamo usare il nostro tempo per utili letture e per imparare ad analizzare i nostri sentimenti, in modo da essere sempre consapevoli dei nostri stati d’animo; questo ci aiuterà a rinforzare la nostra autostima e la nostra determinazione. E’ poi necessario sviluppare la forza di volontà, l’unica virtù che può farci cambiare in meglio. Se i nostri moventi sono errati, bisogna avere il coraggio di riconoscerlo e poi dobbiamo trovare la forza per cambiare e per migliorarci. Il solo fatto di pensare che non possiamo cambiare, ci condanna ad essere creature deboli, facilmente influenzabili dall’ambiente che ci circonda e facilmente manovrabili da coloro che ci vogliono dominare. Sviluppando la volontà nulla potrà abbatterci; da ogni vicissitudine potremo risorgere e tornare ad essere felici. Se ci imponiamo di fare una cosa, sforziamoci di farla almeno per qualche minuto ed ogni giorno sforziamoci di farla per un tempo maggiore e poi sempre di più: questo sviluppa la volontà, rinforza la nostra autostima e ci permette di fortificare il nostro potenziale personale, il nostro magnetismo, il nostro fascino. Se qualcuno ci opprime troviamo la forza di dire no, anche se ci hanno insegnato che negarsi non è bello. Chiediamoci se la nostra volontà di aiutare gli altri non mascheri invece la necessità di sentirsi utili, nell’errata convinzione che le altrui esigenze siano più urgenti delle nostre. La verità è che le nostre esigenze sono sacrosante e assicuriamoci invece di non essere oppressi da quella che la psicologa americana Carmen Renee Barry, definisce “la trappola del Messia.” Chiediamoci se non ci stiamo condannando da noi stessi alla completa oblazione e martirizzazione. Convinciamoci che dire di no è un’arte e diventa lo strumento per affermare che nulla deve essere un obbligo e che la nostra sensibilità e la nostra empatìa non possono divenire un’arma da usare contro di noi.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami