martedì 29 aprile 2008

Il veleno di Eros


In “Al di là del bene e del male”, Friedrich Wilhelm Nietzsche, con la sua potente forza immaginativa afferma che: “Il Cristianesimo dette da bere ad Eros del veleno. Costui in verità non ne morì, ma degenerò in vizio.”
Platone - nel “Simposio” - descrisse Eros come un demone, figlio di Penia, la povertà e di Poros, l’espediente: essendo un demone e non un dio, Eros aspira al bello ma non lo possiede, per cui è disposto ad ogni trucco per poterne godere. Escogita così l’espediente di cercarlo nelle cose terrene, nella bellezza delle cose terrene, a cominciare da quella dei bei corpi, delle persone belle. Eros diviene un veicolo per l’ascesi verso il bello in sé, che è al di là di tutte le cose, ma che in diversa misura, partecipa di ognuna. Questo è Eros in Platone: un formidabile cacciatore di bei corpi e insieme di belle anime. Nel cristianesimo tale figura si ritrova, con le medesime caratteristiche, nel vizioso Don Giovanni di Kierkegaard, il quale conquista tutto senza andare oltre; infatti, egli vuole godere solo dei corpi e condanna l’anima propria e delle sue conquiste alla dannazione eterna. Ancora Platone afferma che, il corpo è una cosa caduca destinata ad ospitare l’anima; esso è la prigione dell’anima, e la vita vera inizia solo dopo che l’uomo se ne libera. Fu così creata la dicotomia tra una sessualità materiale ed un amore spirituale e psicologico, ben lontana dal concetto di mediazione tra corpo ed anima, presente nelle antiche scuole di pensiero. Per Ippocrate e per Epicuro e per i presocratici, infatti, l’anima non era separata dal corpo, ma risultava costituita da materia, in alcuni casi da atomi sottili. Raggiungere un’omogeneità ed un’armonia rimane nel pensiero dell’”uomo integrato” delle filosofie orientali che, tramite delle pratiche come lo yoga ed il Tai chi ch’an, le attualizzano. Nello yoga non è presente né l'esaltazione né la mortificazione del corpo. Quest'ultimo viene assunto in tutte le sue potenzialità, ed è utilizzato per trasformare le energie pulsionali e fisiche, al fine di distillarle e indirizzarle verso l’unione con l’Assoluto. Il Tai chi ch’an è un'antica disciplina psico-fisica, ed il suo scopo é quello di armonizzare le singole parti del corpo: la sincronia tra gli arti é a sua volta in sincronia con il respiro, esattamente come nello yoga. Entrambi le pratiche, hanno lo scopo di porre in armonia tutte le membra del corpo attorno ad un centro, in modo da fortificare l'individuo senza renderlo rigido. Nel Cristianesimo che accoglie tante pratiche stoiche, vengono inserite le tecniche dell’automartirio quali i digiuni, le fustigazioni, la castità e le pratica dell’amore cristiano, e così continua la morte di Eros. La lotta contro la carne diviene la lotta contro le tendenze diaboliche insite nella natura umana. Il Cristianesimo sostituisce l’amore per le cose terrene con l’amore per le cose celesti e lo stesso Dante non può che condannare Paolo e Francesca, vittime del “desio carnale”. Odiernamente abbiamo piuttosto la rinascita di Eros, ma in forma deviata, tramite una vera patologia narcisistica a livello di psicologia sociale. Un cercare il puro desiderio (come Narciso che si compiace dell'amore delle ninfe ma le rifiuta come oggetto d'amore), escludendo dal gioco erotico degli specchi l'altro, poiché non funzionale alla propria immagine. In tal senso, si subisce la stessa sorte della sfortunata Eco: innamorata della sua bellezza, lei che è «specchio sonoro» dell'Altro, «vox tantum atque ossa supersunt: vox manet; ossa ferunt lapidi straxisse figuram»: di Eros resta solo l’eco di una voce. L’io muore perché gli viene presclusa la sua libera potenza creatrice, ed il desiderio svanisce. La sensibilità ed il profondo sentire, quel «talento così unico per il soffrire», come lo definì Nietzsche in “La nascita della tragedia” rischia di scomparire.
Secondo la filosofia contemporanea, l’uomo non ha un corpo, ma è un corpo. Corpo ed anima non sono separati e il corpo è il veicolo per la crescita e per la grandezza dell’anima. Nietzsche diceva che il corpo é un grande saggio che ne sa più di noi. Il corpo è la “grande ragione”, che opera e si muove indipendentemente dal consenso dell’uomo. Ciò che distingue l’uomo dagli altri esseri viventi è appunto la ragione. Maurice Merleau-Ponty e Michel Foucault attingono alla “coscienza” come a qualcosa di correlato con il “corpo”, che è interpretato come qualcosa da cui l’uomo non può assolutamente prescindere, e che lo pone in contatto con il mondo esterno. La civiltà attuale preferisce pensare agli individui come esseri dotati di corpo e di passioni. E’ in corso una rivalutazione del corpo in cui l’uomo è invitato al godimento delle apparenze, all’apprezzamento della corporeità, ossia di quello che non deve essere svalutato come transitorio. L’uomo deve restare non nel corpo come “macchina”, ma nel corpo come “veicolo di comunicazione”, il corpo può essere plasmato e anche l’anima può essere plasmata. La riscoperta della corporeità ha gettato però Eros in mano alla mercificazione per cui, seppure affrancati dalla chiesa, restiamo pur sempre in un’inflazione fatale, per cui un Eros troppo facile diviene senza valore, perchè “mercificato”. Se Eros fosse vincente avrebbe ancora un po’ delle caratteristiche che gli dava Platone, cioè una tecnica ed una ricchezza espressiva ma anche un fondo di assenza e di mancanza, un carattere sfuggente che rende unico l’oggetto erotico. Erroneamente si crede che la bellezza sia dovuta solo alla proporzione della figura, dalle strutture regolari, ma nella bellezza che vede Eros esiste anche un elemento imponderabile che sfugge ad ogni calcolo e logica proporzione: un “nescio quid” elusivo. L’Eros è capacità di attrarre a sé, di sedurre l’altro. Senza dubbio tale capacità di Eros, di mantenere alta la tensione, il desiderio e l’incertezza di conoscere ed ignorare, il darsi e il negarsi, richiede una maturità ed un’educazione dei sensi adeguata. Nella nostra società si registra una spiccata propensione ai “non-binding commitments”, a impegni che non impegnano, revocabili e comunque rettificabili. I “non-binding commitments”, implicano di fatto che, accanto alla coerenza, anche il senso di responsabilità si affievolisca, proprio perchè l'individuo è disposto ad assumere, paradossalmente, solo impegni che non impegnano. In alcuni campi della filosofia contemporanea si cita spesso il termine di token persons per indicare gli individui-gettone (alla lettera: “individui - occorrenza”), che equivarrebbero pressappoco ai “replicanti” di Dick, esatte repliche di sé stessi, create per assicurare la continuità e la permanenza dell’io. Sarà dunque questa la strada per la soddisfazione di tutti i nostri desideri?
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

lunedì 28 aprile 2008

Il vaso di Pandora


Esiodo narra che gli dei e gli eroi ebbero la stessa origine ma, inizialmente, il genere umano era costituito di soli maschi. Questa stirpe di esseri maschili era costituita di Titani che - secondo gli orfici – sono gli antenati colpevoli del genere umano. Il loro nome era ricavato da un beffardo gioco di parole, in cui si univa la derivazione di “titainein” cioè tendersi e “tisis” cioè punizione. I Titani avevano azzardato, con temerarietà, un’ambiziosa impresa ed erano stati sconfitti: infatti nella primigenia guerra tra Saturno e Giove erano rimasti fedeli a Saturno e dopo la sconfitta, erano stati incatenati e gettati negli abissi. Per questo c’era ostilità tra la loro stirpe e Giove. Giapeto, uno dei dodici Titani, aveva avuto quattro figli tra cui Atlante e Menezio - che erano stati sconfitti da Giove - e i due gemelli Prometeo ed Epimeteo. I due fratelli, che erano inseparabili, avevano dapprima mantenuto la neutralità, poi Prometeo, prevedendo la vittoria di Giove, si era alleato al vincitore. Finchè nell’Olimpo era regnato il padre Saturno, tra gli Dei e gli uomini c’era stata una perfetta armonia, ma la vittoria di Giove aveva cambiato le cose, perché questi voleva mantenere la sua supremazia divina anche sulla stirpe umana. Fu quindi fatta un’assemblea per decidere la parte che di ogni vittima sacrificale dovesse toccare agli Dei e la parte che sarebbe toccata ai mortali. Della spartizione fu incaricato Prometeo, il cui nome significa “il preveggente” o “colui che vede prima” e il Titano fece due mucchi di cui uno più grande, ricoperto di grasso ma pieno di ossa ed uno più piccolo ricoperto dalla pelle, che nascondeva le parti migliori dell’animale. Così Prometeo, pieno di rancore per l’umiliazione della sua stirpe, voleva beffarsi di Giove e favorire gli esseri umani. Giove scelse il mucchio più grande ma si adirò per la beffa e così non volle donare il fuoco agli uomini. Prometeo allora ascese al fuoco dell’Olimpo e rubò alcune scintille del fuoco divino, portandole in dono agli uomini. Giove punì Prometeo incatenandolo ad una cima del Caucaso e mandò un’aquila a mangiargli il fegato. Ogni giorno l’organo ricresceva e nuovamente veniva divorato, in un supplizio senza fine. Anche gli uomini dovevano essere duramente puniti - narra Esiodo - e Giove disse: «Essi riceveranno da me, in cambio del fuoco, un male di cui gioiranno, circondando d’amore ciò che costituirà la loro disgrazia. » Quindi Giove ordinò a Vulcano di plasmare una bellissima fanciulla con terra ed acqua e di introdurvi voce e forza e di infondergli la vita. Tutti gli dei le donarono i loro doni e Mercurio le infuse un cuore infido ed ingannevoli parole. La fanciulla, bella come una dea, fu chiamata Pandora che significa “fornita di tutti i doni”. Giove donò alla fanciulla un bellissimo vaso e la inviò come sposa al Titano Epimeteo. Questi, il cui nome significa ”che capisce solo dopo”, era stato avvisato dal fratello Prometeo di diffidare dei doni di Giove, ma sedotto dalla grazia di Pandora, dimenticò ogni prudenza e accettò di sposarla. Pandora, in prossimità delle nozze, si incuriosì del contenuto del meraviglioso vaso e non resistette alla tentazione di aprirlo. Dal vaso uscirono tutte le malattie, le sofferenze e le fatiche che Giove vi aveva racchiuso; con le malattie entrò nel mondo anche la morte e quando Pandora riuscì a richiuderlo, nel vaso era rimasta solo Elpis, la Speranza. Esiodo conclude che, da Pandora «viene la stirpe funesta delle donne / che abitano fra gli uomini, grande malanno per i mortali» (Teogonia, 590 s.).
Nel mito si riflette tutta la misoginia ed il moralismo della cultura greca, terrorizzata dalla figura femminile, in cui l’unica controparte alla donna onorata è la figura della folle Baccante seguace di Dioniso. La vita della donna greca trascorreva tra le mura di casa; poteva partecipare solo alle feste familiari e per il resto doveva occuparsi dei bambini e della tessitura. Molte donne greche sono morte senza lasciare traccia del loro nome, infatti esse avevano pochissimi diritti e non potevano avere delle proprietà personali, ed erano sottoposte tutta la vita, alla tutela di un parente di sesso maschile (tutore, marito, padre o fratello). Tradizionale in Omero è la scissione della figura femminile in «moglie legittima» (kouridíe álochos) e concubina, secondo un assunto che appare poi canonizzato, e che appare duro a morire ancora oggi. Solo Platone affermò che le donne avrebbero dovuto essere educate come gli uomini e considerate delle pari, ma già in Aristotele troviamo la tesi dell’inferiorità naturale della donna, che ancor prima che dalla psichiatria ottocentesca, avrà un robusto sostegno dalla biologia e dalla psicologia antiche. Solo nell’antica Sparta le donne trascorrevano la maggior parte del loro tempo all’aria aperta, impegnate in esercizi ginnici come i coetanei maschi: ma non si deve dimenticare che tale pratica, per esplicita testimonianza, aveva come fine riconosciuto la generazione di figli più forti e più sani. Euripide fa dire a Medea: «l’uomo, quando si è stufato di vivere con quelli di casa, se ne va fuori e pone fine alla nausea che ha in cuore, recandosi da un amico o da un coetaneo. Noi invece siamo obbligate a guardare a un’unica persona. Dicono che noi trascorriamo la vita senza rischi in casa, mentre loro combattono con la lancia, ma si sbagliano: vorrei essere schierata in battaglia tre volte, piuttosto che partorire una sola volta!»
Sebbene siano trascorsi migliaia di anni, ancora oggi molte donne sono ancora schiave e la stessa parola emancipazione, rivela l’antica pratica giuridica di concedere libertà ad uno schiavo, emancipandolo alla vita libera. L’odierna società consumistica, come l’antica civiltà greca, non riesce ancora a riconoscere alla donna, quei diritti che le sono connaturali e legittimi. La figura femminile viene vista ancora con sospetto e paura e per questo angariata con violenze e sopprusi di ogni genere, come appare quotidianamente dalle pagine dei giornali. Le violenze sono infide perché perpetrate da parte di figure conosciute: amici, padri, fratelli o mariti e viene consumata con le complicità di chi, pur vedendo o sospettando, preferisce volgere il capo dall’altra parte.
Ma ora vorrei concludere con una versione diversa della storia di Pandora, nella quale parlano altre fonti. La Grande Dea Madre, Gea non voleva generare solo piante insensibili o animali irragionevoli per cui volle essere madre di un essere capace di pietà e mitezza; per questo fece uscire dal suo ventre l’uomo. Allora Giove disse che l’uomo andava differenziato dagli Dei immortali e poi reso perfetto. Per questo mise sulla terra lo sciame delle malattie e la morte, per rendere l’uomo diverso dagli Dei, che sono immortali. Nella sua opera di perfezionamento dell’uomo venne ancora in suo soccorso la Madre Terra, che fece emergere dal suo seno la bellissima fanciulla Pandora, “ricca di ogni dono” e che ha un nome che viene dato alla Terra stessa, di cui essa è fatta. Pandora, che viene detta anche Anesidora cioè “colei che manda su i doni” e che è un altro nome della Dea Madre. Così la grande Dea Madre offrì agli uomini una fanciulla con la sua immagine, affinchè essi la potessero amare facilmente. Così l’uomo fu definitivamente perfezionato tramite il dono dell’amore da cui deriva la compassione, in cui s'intrecciano indissolubilmente la bontà e la mitezza.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

sabato 26 aprile 2008

Socrate nel villaggio globale


Qualche giorno fa mi sono imbattuta in una citazione di Ivan Illich (1926-2002), il grande pensatore eretico, oggi ingiustamente dimenticato. Si legge nel sito web “L’altra officina” a lui dedicato: “Era un libero pensatore, fuori da ogni schema. Aveva una grande dote: sapeva levarsi in volo e guardare il mondo dall'alto, al di fuori delle mura che ci fanno ombra. Illich era capace di smontare pezzo per pezzo le nostre "certezze", ogni suo libro ha la capacità di "alleggerire il lettore, di farlo sentire più libero, più umano, più vivo. I suoi scritti "eretici" hanno sollevato grandi polemiche e si sono attirati le dure critiche degli intellettuali organici" della sinistra. Ma non è mai diventato famoso. Eppure Ivan Illich può dare a questo secolo e alle nuove generazioni ancor più di di quanto abbia dato alla generazione degli anni settanta. L'opera di Illich è più che mai attuale. Il buio di questi tempi ha più che mai bisogno di quel raggio di sole.”
E’ stato considerato il padre dell’ecologia moderna e si può a buon diritto considerare il precursore del pensiero no global. La sua figura è assolutamente straordinaria già a livello biografico; è stato teologo, storico, sociologo, linguista, economista. Era laureato in teologia, filosofia e filosofia della storia e conosceva ben 13 lingue. Già dall’infanzia la madre gli parlava italiano, tedesco e francese, e lui le padroneggiava pienamente a 6 anni. Chi lo ha conosciuto racconta della sua capacità di passare contemporaneamente da una lingua all’altra e di conversare in simultanea in più lingue. Ascoltarlo conversare era come vedere fare uno slalom linguistico. Non volle aderire a nessun partito e rimase sempre immune da ogni adesione ideologica e la portata del suo pensiero esercitò un’azione travolgente, non solo sulla cultura provinciale ed ottusa del pensiero occidentale moderno, ma anche sulle ideologie falsamente progressiste ed avanguardiste delle sinistre. Fu scomodo per il suo pensiero originale, eclettico ed aperto e per la visione profetica e reale del mondo che sarebbe venuto e che lui prevedeva già 30 anni fa. Il destino di Illich è veramente cinico e baro, e lo ha rimosso dalla coscienza perché pericoloso in un momento storico in cui la difesa strenua dei pregiudizi consolidati è affidata all’ignoranza, alla obnubilazione delle coscienze e al rifiuto a ricominciare da capo a ritessere i fili del nostro sapere e del nostro fare. La sua critica istituzionale è ancora lucidissima e pienamente convalidata dai tempi nostri. L’istituzione – lui dice - è la risposta organizzata ai bisogni, cioè alle domande che l’individuo rivolge alla società, nella convinzione che essa possa supplire alla sua impotenza ad esercitare un diritto. Così la necessità soggettiva si trasferisce ad un meccanismo oggettivo, che si rinforza e diventa pretesa esclusiva di disporre degli strumenti necessari per la soddisfazione di quei bisogni. Il diritto soggettivo diviene dovere e nasce l’obbligo sociale di rivolgersi all’erogatore unico ed unico autorizzato alla fornitura di quei servizi. Nasce così il monopolio istituzionale. E’ la società organizzata che tende a conservare la propria figura, ad imporre le sue regole e le sue convinzioni, cioè i suoi valori e, quindi oggettivizza i bisogni soggettivi, espropriando il singolo della sua libertà. L’istituzione diviene così autoreferenziale ed il potere viene esercitato con la forza o con il consenso, con la pretesa di esercitare un bene e un servizio per la collettività. Si crea così un monopolio espropriante che mantiene gli individui in uno stato di inferiorità e di dipendenza, costretti ad obbedire a chi comanda con delle giustificazioni che poco differenziano i metodi coercitivi dai metodi democratici, laddove gli ultimi si avvalgono di metodi di persuasione che fanno del consenso una vera e propria abdicazione alla libertà di giudizio e di coscienza.
La società dei consumi interiorizza le costrizioni sociali e trasforma la paura della repressione dei regimi autoritari, in vergogna dell’emarginazione sociale. Il risultato è controllo assoluto dei singoli. La scuola è la prima istituzione autoritaria, infatti la costruzione di una progettualità pedagogica esprime la natura tecnica e burocratica della scuola stessa, per cui essa non serve ad educare, ma serve a ben altro. La scuola - afferma Illich - nasce per istituzionalizzare la costruzione di rituali mitopoietici, cioè dei miti sociali. Max Gluckman afferma che i rituali sono forme di comportamento che rendono coloro che vi prendono parte, ciechi di fronte alla discrepanza esistente tra lo scopo per cui viene eseguito e le effettive conseguenze. La scuola è il rituale di una società impegnata nel progresso e nello sviluppo. Essa crea dei miti che per la società consumistica sono una necessità, e li crea tramite il processo educativo in cui vi è un consumatore e vi è qualcun altro che è l’organizzatore. L’allievo collabora producendo la cosa che consuma e che interiorizza. La scuola è la prima istituzione autoritaria in cui l’individuo viene sottoposto ad indottinamento istruttivo, essa trasforma ogni alfabetizzato in un tecnico a vari livelli in cui viene estromessa ogni competenza particolare ed ogni coscienza di sé. La scuola insegna in modo statico, mancando assolutamente di condizioni concrete, cioè del confronto con le esigenze personali dell’allievo e con le sue necessità formative.
Nel saggio “Per una storia dei bisogni” del 1981, Illich sostiene che l’età moderna crea dei falsi bisogni e trascura i veri problemi che ci affliggono, producendo una elite di nuovi professionisti la cui funzione consiste proprio nell’inculcare alla gente dei bisogni fasulli. Più aumenta la tecnologia e maggiore è la riduzione delle libertà umane nei riguardi di ciò che può analizzare e controllare. La liberazione dell’uomo dipende dalla padronanza che egli ha del suo corpo e dei suoi bisogni, indipendentemente dalle tecniche disponibili, in modo tale che i suoi bisogni non siano indotti da qualcun altro.
Per questo le istituzioni che fagocitano l’uomo sono: la chiesa, la scuola, la medicina, le società di gestione dei trasporti e la tecnologia. In questi contesti, gli “utensili” cioè le istituzioni divengono improduttive per il soggetto e dannose per la libertà umana, ma estremamente utili a sè stesse e alla loro esistenza. Esse collaborano all’invenzione dei bisogni, che è basilare nella cultura occidentale. La cultura consumistica ha inventato il concetto di “consumatore neutro” togliendo ogni valore alle differenze di genere, entrando così, anche nel campo privato dei vissuti sessuali ed intimi. Lo stesso lavoro è divenuto il principale tempo vissuto e la necessità di velocizzare il tempo degli spostamenti ci fa vivere per molte ore in mezzi di trasporto rendendo onore, per assurdo, al compito opposto a quello per cui era stata creata. Il progresso tecnologico viene legittimato dalla necessità di soddisfare dei bisogni presunti, per cui la crescita industriale, lo sviluppo non aumenta la ricchezza ma si limita a modernizzare la povertà. La sua critica alla mondializzazione proviene dall’instancabile difesa dell’immanenza della capacità umana di non essere inquadrato in ideologie del progresso ed in categorie costruite a tavolino dai poteri forti: i famosi exit poll gestiti dagli esperti. Negli ultimi anni si dedicava alla “filosofia della prevenzione” che trasforma il consumatore in decision makers. Per mantenere la distanza da tutte le certezze a proposito dei bisogni, aveva costruito uno stile di vita errante, accettando una mancanza di casa che tradizionalmente viene accolto nelle società nomadi con la cultura dell’ospitalità. Alla sua cultura mitteleuropea, nato da un padre padre croato e cattolico, proprietario di terre che appartenevano da secoli alla famiglia nell'isola dalmata di Brazza, e da una madre ebrea sefardita, aveva mischiato suggestioni latino-americane. Era esule dall’adolescenza a causa delle persecuzioni razziste e fu per tutta la vita in giro nel mondo, dividendosi tra Brema, l’Italia, l’Università della Pennsylvania e Cuernavaca in Messico. A Cuernava aveva fondato il Cidoc un centro di interdocumentazione dove vengono raccolti da un lato enormi quantità di lavori sulle tradizioni popolari latino-americane e dall’altro dati e materiali sullo sviluppo delle grandi istituzioni mondiali nel campo dell’educazione, della salute e dell’economia. Parlando di sé diceva di essere “un alienato”, cioè costretto a guardare il presente ma capace di acquisirne la necessaria distanza. Si riteneva fortunato ad essere sempre stato in contatto con una dozzina di ottimi amici, come lui capaci di “disciplinata stravaganza” e per avere ospitato, negli anni, “molte belle persone estremiste.”
Il filosofo francese Jacques Dufresne lo definì il “Socrate del villaggio globale”.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

martedì 22 aprile 2008

Per fortuna c'è l'Apocalisse!


Ieri notte ho sognato Franco Battiato, vestito da derviscio, che volteggiava cantando “Povera patria”. Era in mezzo ad un suk marocchino e tutti gli tiravano noccioline e datteri. Io che apprezzo molto Battiato, a quel punto intervenivo e cercavo di difenderlo, gridando che era un grande cantante e che dovevano portargli rispetto, ma tutti ridevano perché parlavo una lingua che nessuno conosceva e che non capivo neppure io. Allora tutti hanno cominciato a bombardarmi di datteri pure a me, così eravamo, io e Battiato, nel suk marocchino, imbrattati e derisi da una folla beffarda. Mi sono svegliata agitatissima e mi sono alzata per farmi una tisana. Purtroppo ero inquieta, perché siamo alla partenza della 16. legislatura della Repubblica, e tale partenza è già infausta, per essere associabile all’arcano 16 dei tarocchi, cioè alla Torre. Questa associazione simbolica, citata da Filippo Ciccarelli in Repubblica, a cui non avevo pensato, l’avevo letta la sera prima e mi aveva gettato nello sconforto. La Torre rappresenta da sempre un arcano nefasto, secondo Oswald Wirth è simbolo di egoismo radicale in azione, di accaparramento restrittivo. E’ l’arcano che è legato ai dogmi autoritari, all’orgoglio, alla presunzione, all’ assolutismo. Identifica la rapacità umana che si avvale dello sfruttamento intensivo anche dei beni della terra. Sotto l’influenza di tale arcano si attua il disdegno assoluto di ogni mediazione. L’arcano mette in guardia da ogni presuntuoso che intraprende azioni superiori alle sue forze e che non sa arrestarsi al momento giusto. Dopo la vittoria del Cavaliere, mi ripromettevo di entrare in fase narcolettica per tutta la legislatura, ma il mondo circostante mi ha riafferrato dalla mia “ruminazione filosofica” e mi ha rigettato nella cruda realtà: avrei dovuto migrare in Papua o in Nuova Guinea come auspicava un mio amico. Ahimè non me lo posso permettere!
Ovunque giro, sento in sottofondo il Totoministri, che mi offre suggestioni da far “tremar polsi e vene”. Sembra che Ceccarelli sia stato veggente! Gli scenari proposti tolgono il sonno o causano incubi in cui cantano ronde padane. Bossi, dopo l'incontro di Arcore afferma che, avremo lui alle Riforme, Maroni all'Interno, Zaia all'agricoltura, con un ruolo di vicepremier di Calderoli e un ruolo da viceministro per le infrastrutture per Roberto Castelli. Signorilmente, il Senatur glossa: "Le Riforme e l'Interno vanno alla Lega. Ci siamo io e Maroni. D'altra parte al Viminale facciamo un piacere a Berlusconi, perché chi dei suoi è in grado di affrontare i problemi della sicurezza e dell'espulsione dei clandestini? Ci vuole uno con le palle e Maroni lo è". La dichiarazione “Asso acchiappatutto” è stata sottolineata dal disappunto dei suoi alleati. Lo stesso Cavaliere, prudentemente, ha ribadito che sceglierà solo dopo avere sentito tutti. Sul programma però non si transige: priorità la questione sicurezza - rassicura - subito dopo si va alla modifica "dell'articolo 119 della Costituzione (federalismo fiscale) e dell'articolo 116 della Costituzione (ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia)". E allora sarà strana l’insonnia?
Ma io non mi arrendo e penso che, per una volta Dio esiste, perché tanto nel 2012 ci sarà l’Apocalisse, la cosa è sicura, per cui li dovremo sopportare solo per 4 dei 5 anni previsti e la sofferenza già si allevia. Poi le riforme in oggetto, con l’Apocalisse di mezzo, sai tu quanto vengono ad essere neutralizzate, visto che si impedirà l’effetto a lungo termini dei programmi di governo?
Unico dubbio, ma poi velocemente fugato: e se non fosse vera e tutto poi si rinvia? Allora me la sono studiata bene, ho fatto le mie ricerche in rete, ed ho scoperto che la cosa pare certa.
Innanzitutto la questione è documentata da moltissimo tempo e non solo in rete, io stessa ho letto il libro “La profezia dei Maya”di Maurice Cottarell, l’archeologo che ha studiato la civiltà maya e il suo calendario. Questi studiò dei reperti, rinvenuti nella tomba del dio-re Pacal, scoperti nel 1952, da cui apprese molte informazioni sulle credenza di quella misteriosa civiltà che non ha lasciato fonti scritte. I Maya credevano di vivere nella quinta era del sole, e che le quattro precedenti fossero state sancite da una catastrofe che le aveva concluse. Grazie alle loro raffinatissime conoscenze, avevano potuto fare dei calcoli matematici e astronomici e avrebbero individuato che la periodicità delle catastrofi sarebbe collegata ai cicli delle macchie solari, capaci di invertire la polarità magnetica della terra. I Maya consideravano che la nostra era, fosse formata da un milione e 872 giorni, per cui, partendo dal primo giorno, fissato al 12 agosto 3114 a.C., arriviamo al 22 dicembre 2012. In quel giorno i Maya prevedevano il raro riallineamento della precessione degli equinozi. Si avrebbero così degli avvenimenti sia geologici che astronomici tali da causare uno sconvolgimento su scala planetaria. Il ricercatore Terence McKenna, scomparso nel 2000, chiamò il fenomeno: “Time Wave Zero”, l’onda temporale zero, e lo segnalò sin dal 1975. Il paradigma “Time Wave Zero”, traccia una mappa frattalica di tutta la storia umana, di tutte le genti e di tutte le società, che si è mossa con l’alternanza di libertà-restrizione, felicità-sofferenza, cioè con l’alternarsi di forze di coscienza positive e negative. Con l’evoluzione del tempo il frattale ha ridotto sempre più i propri intervalli temporali, e sta arrivando al termine nel dicembre 2012, quando si esaurirà la coscienza della polarità. Si arriverà allora alla sperimentazione del Tutto come Uno, senza più conflitti ed opposizioni.
La cosa non si ferma alle affermazioni di santoni o mistici drogati di stramonio, sebbene in passato Michael Drosnin, autore di un sistema di criptaggio che si basava sul Libro della Genesi, facendo i suoi calcoli, avvertiva che il leader israeliano Yitschak Rabin sarebbe stato ucciso a Tel Aviv nel 1995,e per questo venne preso per matto.
Secondo alcuni scienziati, stanno avvenendo dei fenomeni fisici inquietanti che culmineranno tutti nell’anno suddetto. Da alcuni decenni, soprattutto dal 2003, l’attività solare è aumentata e raggiungerà il picco nel 2012. Il campo magnetico terrestre ha sviluppato delle falle grandi come il buco dell’ozono, in conseguenza dei quali si sta invertendo la polarità terrestre. Tale fenomeno si è osservato, nel laboratorio nazionale di Los Alamos nel nord del New Messico, usando un complesso modello matematico messo a punto da Gary Glaztmaier. L’inversione si è verificata lasciando gli scienziati sbalorditi. Alcuni geofisici russi segnalano che l’intero sistema solare sta entrando in una nube energetica che sta contemporaneamente alimentando e destabilizzando il sole, e la terra starebbe entrando nella nube energetica tra il 2010 e il 2012. Intanto in rete si è diffusa la voce che forse il Perù e la Bolivia, comunque la zona delle Ande, potrebbe essere indenni dalla catastrofe. Molti ricconi si stanno organizzando per acquistare dei terreni in quelle zone, e sembrerebbe che sia Mudoch che Berlusconi abbiano acquistato dei terreni in quelle zone, a questi si stanno aggiungendo velocemente anche altri illustri nomi. Vuoi vedere che si salvano anche dall’Apocalisse?
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

domenica 20 aprile 2008

Il sussurro del diavolo


Accadde che Satana, girando per il mondo, s’imbattesse un gruppo di suoi accoliti, che stavano tentando un sant’uomo, da molti anni anacoreta nel deserto. I diavoli cercavano in ogni modo di farlo cadere in tentazione e lo attaccavano con le lusinghe più allettanti, ma l’asceta resisteva eroicamente, senza tentennare dalle sue posizioni. Satana, difronte a quella scena, si avvicinò ai suoi diavoli e disse:”Lasciate fare a me, vi mostrerò come si fa!” Si avvicinò allora all’orecchio dell’anacoreta e gli sussurrò dolcemente: ”Mentre tu eri nel deserto, tuo fratello è diventato arcivescovo di Costantinopoli.” A quelle parole l’espressione beata del sant’uomo si deformò in una smorfia di dolore. Allora Satana si rivolse ai suoi accoliti e disse trionfante:”Avete visto come era facile?”
Lucifero è il padre dell’invidia. Nella Bibbia lo vediamo, prima invidioso dell’armonia di Adamo ed Eva e per questo infidamente tentatore, poi ribelle perchè orgoglioso della sua bellezza ed invidioso del potere di Dio, che tenta di spodestare la Maestà Divina e per questo viene gettato sulla Terra dalle armate dell’arcangelo Michele, suo fratello e alter ego positivo. Lo vediamo così trasformarsi, da Lucifero “portatore di luce” a Satana “il separatore, il disgregatore”.
L’indivia è un sentimento profondamente stupido, nel senso che questa accezione assume in campo psicologico, cioè in un senso che non riguarda il deficit intellettivo. La stupidità psicologica nasce con l’attitudine al pensiero, nasce con lo strumento che genera il pensiero e riguarda l’assoluta incapacità di riuscire a costruire e generare pensieri costruttivi e creativi. Nozich definisce l’invidioso colui che, non potendo possedere una cosa, vuole che nessun altro la abbia. La stessa definizione era espressa nella Bibbia, dove si dice che lo stolto è colui che, non potendo dissetarsi alla fonte, vuole che nessuno possa bere di quell’acqua. L’invidioso vuole l’impoverimento dell’altro, sebbene lui non ne tragga un’arricchimento personale. Dice Aristotele nella Retorica, che “noi invidiamo coloro che sono vicini a noi per tempo, spazio, età e reputazione”, infatti l’invidia si rivolge al nostro ambiente limitrofo, essa è frequente nell’ambiente familiare, lavorativo ed amicale. Questa realtà psichica lavora con la triade nefasta di superbia, stupidità e di curiosità intrusiva, che fanno da supporto al desiderio di distruzione. Essa investiga con occhio morboso e malevolo, scruta e soppesa gli altrui meriti e poi, malinconica per il benessere altrui, piena di amarezza e di livore si camuffa, utilizza ogni pretesto ed infine trama nel silenzio del suo cuore di distruggere ogni concordia.
L’invidia è il sigillo di Satana, che si annida nel cuore di coloro che se ne fanno possedere. Nel Libro della Sapienza (2,24) si dice: “La morte è entrata nel mondo per invidia del Diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono.”
Le differenze che vengono osservate - nel malevolo confronto con gli altri - causano il sentimento invidioso, che si rinforza maggiormente considerando come, colui che ne è oggetto, è talmente simile a noi, che facilmente ne potremmo usurpare il posto. Vedere che l’altro ha di più, riduce il senso di stima personale, perché questa ha bisogno del continuo confronto con gli altri: infatti l’invidia è il sentimento che si prova quando un nostro pari ci oltrepassa. L’invidia si può rivolgere, alla persona e alle sue qualità oppure alle cose che essa possiede; quindi sia ad oggetti che ai riconoscimenti degli altri. Allora, l’invidioso si crea la convinzione che, tali successi non siano meritati e inizia la sua azione di demolizione. Se malgrado tutto il successo altrui persiste, allora compare l’ira ed il rancore. La persona invidiata diviene un attentato al benessere dell'invidioso che vorrebbe solo farlo scomparire dal mondo. Ma questo odio verso la realtà esterna è anche un letale attacco al nostro mondo interiore e verso le parti migliori di noi stessi, per questo l’invidia, la superbia e l’ira sono considerati i tre catastrofici sentimenti che presero possesso di Luciferio contro la potenza, la bontà e la gloria di Dio. Parlando di coloro che suscitano l'invidia e spiegandosi il motivo di tale sentimento, si può capire la parte più profonda di sè stessi, delle proprie aspirazioni e dei propri fallimenti personali, delle difficoltà e dei limiti che si avvertono nell'intimo. L’invidia è un sentimento tipicamente femminile, infatti viene ammesso da 9 donne su 10, ed è diffuso in ogni età e classe sociale, è indipendente da ogni differenza culturale ed è collegato ai legami più forti e significativi. Tale sentimento è un retaggio culturale ereditato dai tempi in cui la donna era costretta a vivere in ambiti ristretti, con poche opportunità di uscire dall’habitat natale. Non realizzandosi nella vita sociale e lavorativa esterna concessa all’uomo, la donna viveva conflittualità collegate a rapporti interpersonali con poche persone e perlopiù dello stesso sesso.
La mediocrità di orizzonti e di progetti di vita, ancora oggi, offre lo spunto per esercitare un occhiuto e malevolo sguardo agli interessi del familiare e del vicino, la meschinità spinge ad indagare sulla nuova macchina o sui successi del collega: da questo punto di vista tutto è restato invariato. A tutto questo si aggiunge, la frustrazione di vivere in una società in cui domina la competizione, il successo disinvolto e la burina ostentazione di nuove ricchezze, per cui questi messaggi fanno sempre più accrescere la frustrazione e quindi i sentimenti di indivia verso gli altri e verso i più previlegiati. Nell’ideologia del successo delle società capitalisticamente avanzate, prevale poi il piacere di suscitare l’indivia altrui come sicuro indicatore di successo e di realizzazione sociale, per cui, lungi da essere un retaggio biblico, l’invidia non solo è sempre più presente, ma è anche destinata ad aumentare velocemente nei nostri tempi.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

venerdì 18 aprile 2008

Il fuoco del vasaio


La necessità di avere un compagno di vita ha radici profonde nell’animo umano, come non meno diffusa è la tendenza a non sceglierne alcuno, in modo da non doversi assumere delle responsabilità.
La tentazione di una ricerca personale e spirituale è quella di focalizzarsi troppo su se stessi, dimenticandosi delle esigenze degli altri, rinforzando un atteggiamento egoistico, piuttosto che conseguire un avanzamento nel progetto di evoluzione personale.
Se fosse preferibile non compromettersi con i sentimenti umani, vorrebbe dire che le persone disposte ad una seria ricerca spirituale, dovrebbero abbandonare completamente la società e ritirarsi a predicare l’amore universale dalla spelonca di un romitorio. Questa via è assolutamente impraticabile, mancante di qualsiasi comprensione della natura umana ed innaturale. Se l’esistenza ha un fine, il primo senza dubbio è quello di godere della corporeità e di tutto il meglio che l’esperienza umana ci può offrire.
Partendo da una vita gioiosa sia a livello corporeo che emotivo si deve proseguire con l’educazione del sentimento, dell’amore, della comprensione e delle bellezze che l’uomo ha dimostrato di saper possedere. Come negare poi la condivisione di queste qualità con dei nostri simili, con compagni che ci possano comprendere ed apprezzare poiché amano e stimano le stesse cose? In questo modo si celebra la gioia della vita; nell’amare ed essere amati e nel perdersi nello sguardo dell’altro.
Mi sembra di ricordare che il Nazzareno fosse un ragazzo di compagnia: quale migliore esempio di Gesù per capire la vera via al giusto agire? Assolse l’adultera salvata dalla lapidazione, dicendo: "Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco". Non mi sembra affatto un tipo bigotto. Se è pur vero che non si possiede nulla se non se stessi, è anche vero che si può amare un altro, accettandolo per come è, anzi dovremmo amarlo proprio perchè è in quel certo modo. Dovremmo amare nell’altro il suo essere un “unicum”.
Spesso però non amiamo gli altri per il loro vero essere, ma amiamo le idee e le fantasie che essi ci ispirano, perché siamo all’inseguimento dei fuochi fatui della nostra mente, delle idee inconsistenti ed illusorie di cui ci inebriamo per sopravvivere meglio. Come dire che vorremmo plasmare gli altri perché corrispondano meglio al nostro egoismo ed egocentrismo. Per il nostro pensare assolutistico ed ottuso vogliamo costruire un fantoccio disposto ad impersonare i nostri sogni e le nostre chimere. La frase:”Mi hai deluso!” cosa nasconde, se non questa incapacità ad interpretare la pantomima del copione che avevamo preparato?
Dovremmo invece osservare la realtà che ci circonda per come è, non per come la vorremmo, e così pure le persone. Spesso esse assumono sembianze ingannevoli, per questo ci lasciamo facilmente gabbare da quelli che A. Bona chiama i “sosia d’amore”, cioè da persone che fingono di essere quello che noi desideriamo, per avere libero accesso al nostro cuore: questi sono predoni di anime. A essi però offriamo ingenuamente il fianco, dimostrando di essere fragili alla lusinga, come Ulisse con le Sirene.
Molti individui sono assolutamente alieni alla nostra vera natura, sono profondamente inadeguati alla nostra indole interna, malgrado ciò però, noi ci ostiniamo a volerli possedere e trattenere. Dovremmo invece lasciarli andare, quando sappiamo che ci fanno soffrire, e ricercare una persona adatta alla nostra sensibilità e che sia in grado di capire e rispettare le nostre tendenze e le nostre esigenze. La cieca adorazione, l’amore assoluto per l’altro e la completa offerta di noi stessi, sono mortificazioni imperdonabili di noi stessi.
Schopenhauer afferma che l’amore è un’astuzia della specie che maschera di nobili sentimenti la sua cruda tendenza alla riproduzione, all’istinto di vita. Ma il pessimismo di Schopenhauer era causato da una madre anaffettiva che non seppe scaldargli l’anima, per cui lui ebbe sempre problemi ad amare ed essere felice: per questo concepiva la vita come un pendolo tra noia e dolore e dalle sue idee traspare il gelo che aveva dentro.
Io invece credo che i sentimenti che sgorgano dal cuore dirigono le nostre migliori energie vitali e che l’amore può veramente salvare la vita e ridargli il colore. L’amore è veramente la chiave della vita, senza si sopravvive ma non si vive.
Diceva Denton Welch del desiderio d’amore “ Quando desideri con tutto il cuore che qualcuno ti ami, dentro ti si radica una follia che toglie ogni senso agli alberi, all’acqua e alla terra. E per te non esiste più nulla, eccetto quell’insistente, profondo, amaro bisogno. Ed è un sentimento comune a tutti, dalla nascita alla morte. “ (Diario, 8 maggio 1944)
L’amore offre l’istinto ottimistico per la vita, è l’amore che accende il sole nelle giornate di pioggia, con lui conosciamo tutte le dolcezze dell’universo. La rinuncia all’amore nasconde sempre la paura delle nostre fragilità e delle nostre vulnerabilità. Scrive Fabrizio Floris in “Eccessi di città”: “Così negli anni mi sono allenato a non piangere, a celare sentimenti e passioni, a vivere intimamente ogni emozione: le lacrime anziché andare dall’alto in basso mi inondavano dentro.” Infatti l’invulnerabilità non fa parte delle doti dell’essere umano, se non fosse per Achille, che pure fu ucciso nell’unico punto vulnerabile, il tallone per l’appunto.
Diceva Erich Fromm che veniamo al mondo bisognosi di “latte e miele”, ed è proprio a questa necessità che risponde il mondo dei nostri sentimenti, dei nostri vissuti sensibili sebbene ci facciano apparire così fragili e vulnerabili. Il cinismo ha consegnato le frasi fatte del tipo: chi fa da sé fa per tre, meglio solo che male accompagnato,fidarsi è bene, non fidarsi è meglio, etc., ereditate dai tempi in cui la vita era dura e nemiche della vera gioia di vivere. Queste frasi confermano tutte le cattive esperienze e lasciano che il nemico ti vinca due volte. Ti vince facendoti del male e ti vince poi, uccidendoti, con il veleno che ti ha istillato e che ti rovina la vita. Come fargliela in barba? Celebrando la vita e restando gioiosi e vivi dentro, riappacificandosi con le delusioni passate e riaprendo le porte alla fiducia nella vita .
Vorrei celebrare l’amore e la passione, con i versi di Guan Daosheng, poetessa cinese del 13. sec.:

“Tu e io siamo davvero pazzi
uno dell’altra,
caldi come il fuoco del vasaio.
Dallo stesso pezzo
di argilla, la tua forma,
la mia forma. Ci schiaccia di nuovo
facendoci ridiventare argilla, la mescola
con acqua e riplasma
te e riplasma me.
E così io ho te nel mio corpo,
e anche tu avrai me nel tuo, per sempre. “

Buona erranza
Sharatan ain al Rami

martedì 15 aprile 2008

Costruire i confini


Spesso indugiamo a maltrattarci e ad abusarci sia fisicamente che psicologicamente. Naturalmente non mi riferisco alla pratiche masochistiche o alla tendenze estreme, mi riferisco piuttosto alle pratiche di abuso in cui tutti possiamo restare impantanati.
Gli atteggiamenti si maturano negli anni e si consolidano in noi, si stratificano, in modo tale da sembrare delle parti costituenti della nostra personalità. Creiamo un copione che poi ripetiamo ossessivamente. Agiamo non come vorremmo, ma come siamo abituati a fare, ci lasciamo vivere ripetendo abitudini e consolidando risposte che divengono ovvie e che riteniamo naturali. Si costruiscono così relazioni familiari e poi amorose, rapporti di lavoro e relazioni amicali, scambi e frequentazioni, in cui la nostra volontà non viene nemmeno più interpellata. Siamo dei bravi ragazzi e ci comportiamo e agiamo così come gli altri si aspettano che dobbiamo fare. Ma quanto ci costa questa approvazione che negoziamo con il mondo esterno? Quanto costa il sacrificio di noi stessi?
Nel concetto di sacrificio è sempre sottinteso un atteggiamento mortificativo e abusivo di noi stessi, poichè usiamo o lasciamo usare la nostra persona senza concederle il libero arbitrio. In tali situazioni dimostriamo di non saper porre delle barriere, delle salutari frontiere a quello che siamo disposti a concedere, agli altri e a noi stessi. Costruire confini è essenziale per stabilire il senso del nostro essere.
Spesso invece abusiamo di noi anche fisicamente, abusiamo di cibo, di sigarette, di alcool, di droghe o di altre esperienze sia legittime che illegittime, che usurano la salute o umiliano la persona. Comunque e sempre l’abuso ed il maltrattamento di noi stessi, dimostra una mancanza di amore e di autostima, una limitata capacità di osservarsi e di ascoltarsi, una disattenzione letale che attenta al nostro benessere.
Invece è opportuno ribadire i confini che ci competono, il rispetto delle regole che abbiamo posto a salvaguardia della nostra e della vita altrui, dobbiamo fare capire agli altri chi siamo e cosa vogliamo: è un segno di consapevolezza.
Se le nostre volontà sono solide in noi stessi, ci accorgeremo che non è necessario urlarle o imporle, è sufficiente attuarle, con un’azione rispettosa ma risoluta. Lo stesso Gandhi diceva che "La forza non viene dal vigore fisico. Viene da una volontà indomabile." Dobbiamo quindi avere il coraggio di saper dire di no anche se, spesso, il diniego scatena in noi profondi sensi di colpa. Ricordiamoci sempre che i migliori amici di noi stessi, siamo solo noi … come pure i peggiori nemici. Basta cambiare il punto di vista.
Va avviata un’opera di ridefinizione della nostra vita e della nostra persona. Se prima abbiamo dato poco ascolto a noi stessi, ora viene il momento di imparare ad ascoltarci. Primariamente dovremmo concederci il silenzio sia esterno che interno, poi ridare forza alla voce interiore e chiedersi quale cosa vorremmo veramente, cosa ci piace e ciò che vorremmo fare. Impariamo a valutare le esperienze in base al sentimento che ci procurano: benessere, malessere, gioia, vergogna, colpa etc. così potremo capirne il significato reale. I nostri sentimenti sono un barometro sensibile ed affidabile, è necessario essere disponibili all’ascolto.
Dobbiamo dedicarci del tempo, ritagliarsi degli spazi quotidiani in cui poter pensare a noi stessi, alle nostre cose. Dobbiamo ricavare dal tempo a nostra disposizione, dei momenti in cui ci coccoliamo, concedendoci qualcosa che ci piace. Dobbiamo attuare dei rituali di benessere: questo ci aiuta a riprendere contatto con il nostro corpo e con la nostra sfera intima.
Diamoci anche i tempi giusti per fare le cose, quindi organizziamoci in modo da seguire un ritmo che ci permetta di riflettere mentre agiamo, ricordiamo che tutte le esecuzioni automatiche hanno un’effetto alienante, non a caso si delegano alle macchine.
Per il grande psicanalista Wilfred Ruprecht Bion, la “preconcezione” corrisponde al concetto kantiano di pensiero vuoto, è ogni concezione che suppone, ed ha un significato di modello mentale, di struttura mentale che predispone al pensiero. Ma la preconcezione è una struttura e non il suo contenuto, per cui il fatto che alcuni comportamenti vengano o meno consolidati, dipende solo da noi. Siamo noi che creiamo l’ abitudine a pensare in un certo modo piuttosto che in un altro.
Dobbiamo ridarci fiducia, concederci delle opportunità positive, dobbiamo convincerci che i limiti personali sono creati dalla paura, sono i prodotti delle nostre preconcezioni, non sono reali.
Sentire che abbiamo dei limiti invalicabili è il segno che stiamo usando uno schema di vecchie preconcezioni, preconcezioni costruite sulla forza dell’abitudine e non corrispondenti alla previsione di sicura realtà. Impariamo e rivalutiamo la curiosità, il saper guardare il mondo in tutte le sue sfumature, il sapere osservare piuttosto che guardare, impariamo ad elaborare preziose informazioni da un ambiente esterno di apparente nulla: impariamo ad esaminare le tracce.
Diceva di sé Walt Whitman “Sono immenso, contengo moltitudini, mi contraddico” descrivendo il magma affascinante e ribollente della creatività che gli pulsava dentro. Whitman non a caso, sin dall’infanzia, fu oppresso da una forte pericardite "immensa in passione, pulsazioni e forza", emblematica e non fortuita somatizzazione della sua eccezionale spinta affettiva ed emotiva.
Dobbiamo sentire in noi questo magma incandescente e queste moltitudini, dobbiamo avere il coraggio di riscoprire le passioni e gli interessi che ci aiutino ad apprezzare la vita, dobbiamo volere ritrovare la voglia di vivere senza la quale nessun progetto di vita può essere vittorioso. Il saper vedere il bicchiere mezzo pieno è un’arte che si apprende, non è innata. Per avere la voglia e la gioia di vivere, è però necessario essere convinti che siamo veramente degni di essere vivi e felici.
Diffidiamo delle concezioni che affermano l’indegnità dell’uomo e la sua naturale condizione di peccatore, poiché sono modalità collettive e distruttive di concepire la persona; pericolose perché in grado di trascinare ottuse masse.
Scegliamo eroi o modelli positivi da cui trarre spunto, da vedere come figure di arricchimento per il cuore e la mente, meglio se già morti e scelti nel passato: sono maggiormente affidabili come guru. Serviranno come fari per i tempi duri, quando potremmo avere tutti contro mentre cerchiamo di fare la scelta che per noi è più giusta.
Cerchiamo anche le occasioni e le persone che ci aiutino a ridere e divertirci e facciamolo da subito, senza aspettare che scompaiano i problemi per essere felici. La felicità e la gioia vanno afferrate quando si presentano. Diceva Gandhi “Perché cambiare il mondo quando possiamo cambiare noi stessi? Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo.”
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

domenica 13 aprile 2008

Impronte e tracce di global warming


Il quotidiano La Stampa del 28 febbraio 2008, segnala che la città di Kivalina, nel profondo Nord dell’Alaska, passerà alla storia come la prima comunità ad aver fatto causa per l’«effetto serra», prima impresa legale di tale genere mai tentata negli Stati Uniti.
I legali del villaggio di Kivalina, in cui vivono 390 persone, quasi tutti eschimesi, non sanno dire se il surriscaldamento del pianeta sia configurabile in una precisa categoria di reato oppure no. Tuttavia sanno definire nel dettaglio quali sono i danni riportati dagli abitanti di Kivalina e per questo - appoggiati da due importanti organizzazioni non profit come il Native American Rights Fund e il Center on Race, Poverty & the Environment - hanno fatto causa per «global warming» a Exxon, Shell, BP e altre compagnie. Sostengono che è colpa loro se il ghiaccio di Kavalina si sta sciogliendo. La tesi giuridica degli avvocati è semplice: è soprattutto a causa delle emissioni causate dal petrolio - dicono - che il pianeta si sta riscaldando; dunque è a causa dei petrolieri se i ghiacci dell’Artico si stanno sciogliendo. I danni, di portata tale da mettere a rischio la vita stessa dell’isola, a Kavalina sono accertabili e dimostrabili. Secondo il procuratore Matt Pawa di San Francisco, dove hanno sede legale alcune delle più importanti compagnie petrolifere d’America, si tratta della prima causa per «global warming» mai intentata in America avente “una vittima distintamente identificabile”.
Già nel maggio 2007, gli Inuit della Groenlandia, avevano protestavano contro la British Airports Authority (appoggiata dal governo) che spingeva per avere l’autorizzazione all’allargamento dell’aeroporto di Stansted per arrivare a 35 milioni di passeggeri nel 2015, e potenzialmente a 68 milioni nel 2030. Poco male, se per gli Inuit della Groenlandia e del Canada, questo non significasse il raddoppio delle emissioni di anidride carbonica dovute al traffico da e per Stansted, che oggi ammontano a 5 milioni di tonnellate all’anno. L’appello di Aqqaluk Lynge, leader degli Inuit della Groenlandia ed ex presidente dell’Inuit Circumpolar Council, conclude: «È troppo chiedere un po’ di moderazione per la salvezza del mio popolo oggi e del vostro popolo domani?».
Le popolazioni eschimesi dell’Alaska sono popolazioni che hanno sempre stupito l’uomo bianco per i loro comportamenti. Molti etologi, che hanno lavorato con guide Nunamiut dell’Alaska, sono rimaste stupite dalla completezza di osservazione che essi hanno verso i minimi particolari, verso le più piccole tracce che osservano nell’ambiente polare, ambiente apparentemente monotono ed uniforme. Per gli studiosi, tale acutezza osservativa è presente in tutte le culture orali ed è frutto del continuo esercizio della memoria: l’antropologo Edward T. Hall, ha definito questa differenza di sensibilità, il risultato di una differenza in “schemi sensoriali derivati da un modello culturale”.
Gli studi di Judith Kleinfeld hanno confermato l’acutezza degli eschimesi nella percezione degli stimoli visivi, percezione molto più raffinata rispetto a quella dell’uomo bianco. La studiosa ha osservato il diverso atteggiamento dei bianchi e degli innuit nel rapporto con l’ambiente. Quando il cacciatore eschimese parte per la caccia, lascia a casa tutti i suoi problemi, scivola invece in uno stato di concentrazione ed analisi dell’ambiente circostante ed esamina tutto nei più piccoli particolari. Il suo sguardo è concentrato nell’osservare: la profondità della neve, la natura e profondità delle orme, il modo con cui è schiacciata l’erba lungo la pista, la direzione del vento, il suono contro il giubbotto di pelo, l’odore dell’aria, il profilo dei paesaggi, il movimento ed i voli degli animali, il movimento dei corvi nella vallata, ed altre impronte impossibili da percepire per i bianchi.
E’ abitudine di molti biologi invece, portarsi dietro le loro preoccupazioni e parlarne durante il viaggio. Gli eschimesi, invece, parlano di rado quando sono in movimento e forniscono solo brevi risposte alle domande, che ascoltano con poca attenzione. Quando parlano è per commentare un’eccezione alla regola oppure una particolarità che li colpisce o la previsione di un avvenimento in considerazione delle condizioni ambientali.
I bianchi percepiscono il livello tridimensionale (lunghezza, altezza e profondità) della realtà, mentre James Gibson afferma che ci sono ben 13 tipi di percezione della profondità: gli eschimesi ne percepiscono molte di più dell’uomo bianco. L’antropologo Edmund Carpenter ha descritto la straordinaria destrezza degli eschimesi polari Aivilik a ritrovare la strada di casa, in un’universo privo di orizzonti e privo di punti di riferimento. Sia Gibson che Carpenter affermano che, chi per abitudine legge il paesaggio senza l’ausilio di carte geografiche, sviluppa un occhio sofisticato come l’orecchio del pipistrello.
Tutte le società aborigene hanno un forte legame con la loro terra e la rispettano profondamente. Gli aborigeni australiani credono che: “ferire la terra è ferire te stesso, e se gli altri feriscono la terra feriscono te. Il paese deve rimanere intatto … gli aborigeni si muovevano sulla terra con passo leggero; meno prendevano dalla terra e meno dovevano restituirle.”
Il capo pellerossa Seattle, nel 1853, scriveva in una lettera all'allora presidente degli Stati Uniti Franklin Pierce: “Come puoi comprare o vendere il cielo, il calore della terra? Questa possibilità ci è estranea. Noi non siamo i padroni della purezza dell'aria o dello splendore dell'acqua. Noi possiamo decidere solo del nostro tempo. Tutta questa terra è sacra per la mia gente… L'uomo bianco non comprende il nostro modo di vivere. Per lui una zolla di terra è uguale all'altra. Lui è uno straniero che viene di notte e spoglia la terra di tutte le sue ricchezze. La terra non è sua sorella, bensì sua nemica, e dopo averla svuotata, lui se ne va via.. Il suo guadagno impoverirà la terra e dietro di sé lascerà il deserto. La vista delle sue città è un tormento agli occhi dell'uomo rosso. Ma forse questo è così perché l'uomo rosso è un selvaggio che non capisce nulla.”
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

venerdì 11 aprile 2008

I maestri di talenti


Ragionavo con un’amica del talento e mi ha chiesto di dire cosa ne penso.
Comunemente si crede che il talento sia una forma superiore di certe capacità particolarmente apprezzate, si parla di talento letterario, artistico, musicale, etc. Piuttosto dovremmo pensare alle attitutini che, a torto, sono considerate come sinonimo di abilità e di capacità e che invece, sono una sorta di substrato innato ai talenti di cui si diceva sopra.
Quindi le attitudini sono delle capacità potenziali, da sviluppare con una adeguata educazione e da esercitare con pazienza: sono dei piccoli semi che vanno messi a frutto.
Ricordiamo che nel Vangelo di Matteo, Gesù racconta due parabole - le dieci vergini e la parabola dei talenti - per illustrare il percorso del regno dei cieli, cioè il percorso della felicità.
Nella parabola delle dieci vergini, racconta che a dieci ragazze viene affidato il compito di assistere alle nozze. Ciascuna delle vergini porta con sè una lampada, ma solamente cinque portano anche la riserva di olio per alimentarla. Siccome lo sposo ritarda, le vergini si assopiscono e le lampade rischiano di spegnersi per mancanza di combustibile. Allora le cinque vergini stolte, rimaste senza olio, chiedono alle cinque sagge di dividere le loro riserve. Le sagge vergini rifiutano perché l'olio non basta per entrambi e le invitano ad andare dai mercanti per comperarlo. Mentre le stolte vanno a comprarlo, arriva lo sposo, quindi entrano alla festa di nozze solamente le cinque vergini sagge. Le altre, ormai in ritardo, restano escluse.
Nella parabola dei talenti, narra di un uomo che, partendo per un viaggio, chiama i suoi servi e consegna loro i suoi beni. Ad un servo affida cinque talenti, ad un secondo due talenti e ad un terzo un talento. I primi due, sfruttando la somma ricevuta, riescono a raddoppiarne l'importo; il terzo invece va a nascondere il talento ricevuto. Quando il padrone ritorna apprezza l'operato dei primi due servi, mentre condanna il comportamento dell'ultimo.
Nella parabola delle dieci vergini, Gesù insegna che, per arrivare alla felicità è necessario tenere accesa la luce interna alimentandola continuamente. Nella parabola dei talenti afferma che ognuno ha dei doni, dei talenti, che deve mettere a frutto. La semplicità apparente delle due parabole - veri koan sapienziali - ricapitola l’intero percorso possibile per l’uomo che vuole essere felice: conosci te stesso e sviluppa tutte le tue potenzialità.
Per questo possiamo dire che esistono tanti talenti, quanti sono gli esseri umani, tutti belli e tutti fruttuosi : a noi il compito di scoprirli e manifestarli.
Molto spesso mi sono sorpresa ad osservare delle persone, rammaricandomi nel vederle mortificate in atteggiamenti o insicurezze che ne occultavano il talento o le doti naturali. Qualità che io percepivo presenti e latenti, ma inconscie e sconosciute ai loro stessi possessori. Li vedevo negarsi tutto il fascino e la grazia armonica, la stravolgente bellezza che avrebbero potuto avere. Peccato che loro non se ne rendessero conto ed occupassero la maggior parte del loro tempo a mortificarsi e a sprecarsi.
Per scoprire i propri talenti l’importante è sperimentare. Per farlo è necessario avere il coraggio di aprirsi alla vita e alla curiosità. Coltivare interessi, coltivare passioni, volere amare e non avere paura di mettersi in gioco e poi accettare anche di sbagliare. L’importante è essersi divertiti, essenziale è provare gioia nel fare nuove esperienze.
Molto spesso mi paragono ad uno strumento musicale e cerco di capire a quale famiglia strumentale appartengo: se sono un legno, un fiato, una percussione, etc.
Poi devo capire quale musica mi piace suonare, alla fine inizio ad accennare delle note, mi esercito, lavoro fino al punto di potere fare parte di una grande sinfonia. Queste per me sono le attitudini: due parabole interpretate alla blasfema e una suonata di oboe eseguita con la luna piena. Per questo siamo tutti maestri di talenti, maestri in un’arte: dobbiamo solo imparare a sviluppare le nostre migliori maestrie.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

mercoledì 9 aprile 2008

Le catene dell'anima


Siamo noi i soli che possiamo creare le nostre gabbie mentali, le nostre prigioni interiori, noi soli sappiamo come incatenare la nostra anima. Siamo noi stessi i nostri migliori carnefici. Creiamo le nostre catene e le colleghiamo ai fatti del nostro passato. In questo modo soffochiamo la nostra vita in nome di una cosa che non esiste più, cioè il passato, oppure la condanniamo ad aspettare qualcosa che non esiste ancora, cioè il futuro. Siamo soffocati tra due assurdi logici ed incatenati senza prospettive.
Così relegati, come possiamo sperimentare tutte le potenzialità che sono dormienti nel nostro cuore, nella nostra mente e nella nostra anima?
Vorremmo un mondo diverso, ma gli altri non possono cambiare per un nostro atto di volontà, in realtà, possiamo e dobbiamo cambiare solo noi stessi. Possiamo iniziare a volerci bene, ad essere amici di noi stessi, ad apprezzarci per quello che siamo, possiamo migliorarci continuamente. Questo è il senso della libertà dell’uomo. Per crescere bisogna usare il nostro fuoco sacro, l’energia maschile nascosta in ognuno di noi e, con la sensibilità del nucleo femminile ugualmente presente, manifestare le energie creative dormienti nel nostro io più profondo. Non dobbiamo quindi fuggire dal nostro passato, ma allontanarci da esso, lasciandolo andare, pacificandoci con gli avvenimenti occorsi, crescendo e modificando la nostra pelle psichica. A volte è necessario saper rielaborare anche esperienze molto dolorose, ma queste sono le situazioni che maturano il senso della vita. Le esperienze dolorose, mentalmente rielaborate e metabolizzate, offrono il vissuto di una persona ricca e capace di passione, vibrante di sentimento. Una persona bella perché ricca nel cuore.
Per Erich Fromm, la maggior parte dei successi terapeutici inizia da una forte intensità di malessere interiore. Il paziente deve toccare il fondo della sua sofferenza, solo dal fondo si risale per una vera resurrezione. Chi non ha coscienza del suo soffrire, non arriva da nessuna parte, non cresce. Lo stesso Meister Eckhart affermava splendidamente “L’animale più veloce che vi porti alla perfezione è il dolore”.
Nella crescita vi è impegno e sacrificio, bisogna avere il coraggio di abbattere muraglie, lasciare armature, scudi e corazze, mettere da parte aculei e pungiglioni. Bisogna avere il coraggio di rinunciare a tutte le difese che ci hanno aiutato a sopportare le ingiurie della vita. Bisogna essere un vero guerriero, infatti, diceva Lao Tse “Chi vince gli altri è muscoloso, chi vince se stesso è forte”.
Tutte le difese rigide che abbiamo adottato, non fanno altro che ucciderci lentamente, togliendoci la libertà di manifestare la nostra vera essenza. La mancanza di dinamismo, l’abulia, l’inerzia e la pigrizia, lentamente costruiscono il malessere interiore e causano la morte dell’anima. Nel cambiamento, nell’azione e nell’entusiasmo per le nuove scoperte, si nasconde la nostra resurrezione.
C’è chi affronta la vita in modo rigido, come una persona tutta d’un pezzo, come una persona inossidabile ed invulnerabile. Le persone con le spalle larghe però, restano spesso prigioniere di una prigione di ghiaccio. Esse, per affrontare la realtà, hanno bisogno di scinderla in modo manicheo, devono vederla in modo schematico: nero/bianco, buono/cattivo, bello/brutto, conveniente/sconveniente, etc…
Il mondo viene incasellato in mille schemi predefiniti e rigidi, così da non potere sbagliare e poter avere sempre l’approvazione degli altri. Spesso questa rigidità ci impedisce di innamorarci, i nostri sentimenti sono congelati e le nostre sensazioni vengono chiuse in un frigidaire. Dobbiamo, allora, scongelare il nostro cuore ed aprirci alla dolcezza dell’amore, al suo calore e alla sua passione.
Le persone rigide, spesso, possono vivere molti anni senza innamorarsi perché, nella loro struttura di cemento tutto è già incasellato nella “giusta” dimensione. Colui che è rigido non accetta di mettersi in discussione, non accetta di essere scrutato da uno sguardo indagatore, non vuole fare un lavoro di analisi ed introspezione perché afferma di non averne bisogno. In realtà ha paura di rivelare la sua profonda fragilità e continua a vivere ripetendo copioni ripetitivi che gli assicurano stabilità emotiva. Le rigidità bloccano le sue energie vitali perché soffocano tutte le nuove idee e le visioni creative del mondo. La rigidità atrofizza le potenzialità espressive e causa paralisi affettive ed impotenze emotive. Anche il corpo rivela la rigidità affettiva ed il movimento diviene limitato, goffo, ripetitivo o scattoso. Spesso vi sono dolori alla schiena, come manifestazione dell’incapacità di “reggere” quell’arido progetto di vita.
Il vero riequilibrio si ottiene solo lavorando sul nostro io più profondo, sulla rimarginazione delle ferite interne, sul superamento dei modelli familiari e sociali, sulla consapevolezza dei condizionamenti esterni e sulla rivendicazione della nostra libertà di essere e di agire.
Nell’essere flessibili non si rischia nulla, diveniamo come il salice che si piega senza spezzarsi, poiché possiede radici salde e profonde. Quelle solide radici sono costruite sull’autostima, sulla certezza dei nostri valori personali, sulla sicurezza delle nostre convinzioni interiori. Possiamo giocare con la tempesta senza perdere il nostro equilibrio. L’equilibrio nel movimento non significa però instabilità, infatti l’instabile cerca fuori di sé le certezze, viaggia senza una meta precisa, senza una stella che gli faccia da riferimento, si agita perché non riesce a riconoscere l’origine del suo turbamento. L’instabile è inattendibile per gli altri ed incapace di lasciarsi andare alla vita e ai sentimenti, non sa affidarsi realmente a nulla e non sa custodire nessuno.
Quando si arriva al sé maturo, invece, si arriva al reale radicamento interiore, si riposa nel Dio interiore, siamo nel nostro tempio interno, siamo a casa. Ogni strada è sicura perché possediamo la bussola per un sicuro ritorno: in noi vi è il centro, la stabilità e la sicurezza necessarie per ogni occasione, in noi vi è l’armonia.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

martedì 8 aprile 2008

Lo sguardo del lupo


Pensavo che non mi leggesse neanche un cane, invece scopro che mi legge un lupo. Non solo mi legge, ma mi scrive pure, seccato e polemico, veramente indignato. Vuole che faccia una rettifica perché ho detto “mondo di lupi”, in un post precedente, con intenti offensivi, così scrive, per la sua specie. Giuro che ho adorato Zanna Bianca e Zanna Bianca era un lupo, per cui affermo la mia piena simpatia per la razza lupina. I lupi sono animali straordinari, essi sono animali erratici e le varie sottospecie spesso si incrociano tra loro, per cui sono predisposti al meticciato: qualità pregevolissime.
Di tutti gli animali, i lupi sono i più intelligenti. Posseggono un alto grado di organizzazione sociale e hanno sviluppato un sistema di comunicazione e interazione di gruppo in grado di stabilizzare le loro relazioni sociali.
Sono animali unici, in virtù delle spiccate differenze di personalità espresse da individuo a individuo, infatti ognuno è un animale a sé. Alcuni sono più timidi, altri più aggressivi, altri più volitivi e la società del branco permette di maturare la loro condotta personale.
Essi sono in grado di vivere una settimana senza cibo e di percorrere fino a 30 km senza rompere il passo: sono dotati di grande resistenza. Trascorrono in media circa 8-10 ore in movimento, soprattutto per la caccia, nelle ore crepuscolari. Sono anche ottimi nuotatori e cacciatori eccezionali, capaci di modificare sempre le loro tecniche di caccia: cacciatori intelligenti ma non predoni.
La struttura sociale del branco è importantissima e ogni branco ha una sua caratteristica che lo contraddistingue, come gli individui. La disciplina del branco è rigida ma non spietata. La struttura del branco è dinamica e soggetta al cambiamento, ed è tutt’altro che autoritaria, infatti il branco valorizza moltissimo le caratteristiche individuali ai fini del massimo vantaggio di gruppo. Nella gerarchia del comando, il ruolo di capobranco può essere assunto sia da un esemplare alfa maschio che femmina.
Sebbene la riproduzione sia perlopiù assicurata dalla coppia alfa, dopo lo svezzamento, tutto il branco si prende cura dei piccoli, curandone l’alimentazione e l’educazione. I lupi più vecchi manifestano un forte interesse per i piccoli, che li contraccambiano con affetto, leccandosi il muso e strofinandolo contro gli adulti. Essi si prestano ad essere trattati come bambole di pezza, per insegnare ai lupetti le tecniche predatorie. I lupi più vecchi non sottraggono il cibo ai piccoli, come pure un adulto non ricorrerebbe mai alla forza, trattando con un cucciolo. Konrad Lorenz si chiedeva se un tale rispetto dei diritti, non fosse una sorta di primitiva moralità.
I lupi, condividono il loro cibo con i membri più anziani ormai impossibilitati alla caccia e si fanno regali, soprattutto cibo. Adolph Murie, dopo anni di osservazione di lupi in libertà, dichiarò che l’aspetto più sbalorditivo dei lupi è la vicendevole amicizia tra i singoli. Anche da adulti giocano a rincorrersi, si azzuffano con i piccoli, corrono in cerchio, nelle radure, con l’andatura barcollante del cavallo. Si spaventano a vicenda, scagliandosi addosso a chi sta riposando o sbucando all’improvviso da piccoli nascondigli. Si pavoneggiano, sfilando con in bocca dei pezzi d’osso o dei rami.
I lupi posseggono tre sistemi di comunicazione: vocale, posturale ed olfattivo. Rudolph Schenkel, fu il primo che documentò l’ampia gamma delle espressioni facciali del lupo: la faccia è il fulcro del gesto muto del lupo, che è connesso a movimenti di orecchi, occhi e labbra. Lo sguardo intenso è usato di frequente dal lupo, per comunicare, sia con i suoi simili, sia con gli umani, che con gli altri animali. Lo sguardo del lupo è intenso ed espressivo, come e più di quello umano.
Il suo udito è raffinatissimo e percepisce anche suoni che il nostro orecchio non può sentire e segnali che non sappiamo vedere.
Nell’analisi dei comportamenti, ai movimenti facciali, ricchi ed intensi, vanno poi uniti i segnali di vocalizzazione con gli atteggiamenti posturali, uniti al terzo canale dei messaggi olfattivi, cioè l’emissione di marchi odorosi e le secrezioni ghiandolari. Esiste poi una via di comunicazione aliena ai sensi, quasi extrasensoriale, che il lupo attiva. Si sono osservati degli esemplari che fissano l’orizzonte e poi altri esemplari, fissare lo stesso punto, anche senza messaggi o legame visivo, come se fosse operante una sorta di richiamo telepatico.
I nostri tentativi di capire il loro linguaggio sono complicati dalla complessità di questo meraviglioso animale.
Nell’ottobre 2007, in Abruzzo, sono stati uccisi tre esemplari di orso bruno marsicano, a questi si aggiungono due lupi appena ritrovati nella stessa zona. Si tratta di specie tra le più importanti della
fauna italiana. Tra questi l’orso Bernardo, diventato famoso nel mondo.
Fulvio Pratesi, Presidente onorario del WWF Italia, ha dichiarato: “Consentire che si perda un orso o un lupo alla volta è come lasciar sfregiare un’opera d’arte, è un atto insano come prendere a martellate la Pietà di Michelangelo [..] Grifoni, lupi, corvi imperiali, aquile reali, gipeti e ora l’orso: un patrimonio faunistico che continua ad essere messo a rischio da atti criminali. Un barbaro sistema di uccisione che ancora oggi non è trattato come un reato contro il nostro patrimonio naturale e culturale e contro la salute dei cittadini.”
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

sabato 5 aprile 2008

Perché alle Zebre non viene l’ulcera


John Carew Eccles, il grande neurofisiologo australiano, studiò a livello pionieristico il rapporto tra la mente ed il corpo. Il grande amore di Eccles per la neurofisiologia era unito al più grande rispetto dei valori umani: era appassionato non solo di biologia e medicina, ma anche di filosofia, di poesia e di religione: una sorta di scienziato “umanista”.
Profondamente sensibile e spirituale considerava l’essere umano molto più grande della semplice macchina biologica. Volle studiarne il mistero e fu la ricerca di tutta la sua vita. Scelse deliberatamente come suo maestro sir Charles Sherrington, il più grande fisiologo del suo tempo, l’unico, come disse, di cui voleva essere discepolo. Non se ne pentì mai, poiché Sherrington era profondamente spirituale come lui. Uno scienziato brillante e controcorrente nel clima scientifico positivista di allora.
Del 1944 è l’incontro di Eccles con il filosofo Karl Popper, con cui ebbe una collaborazione scientifica che durò per tutta la vita. Come ebbe a dire lo stesso Popper: «Ci legava un comune interesse per il libero arbitrio e l’avversione per il determinismo. » Per tutto il resto erano diversissimi: Eccles profondamente religioso e cristiano e Popper ateo convinto.
Nel 1963, al culmine della sua notorietà scientifica internazionale, Eccles ottenne il premio Nobel per la fisiologia e la medicina, insieme ad Alan Lloyd Hodgkin dell’Università di Cambridge e ad Andrew Fielding Huxley dell’Università di Londra.
Eccles definisce senza remore la natura della mente umana, e la sua relazione con il corpo, come il più intrattabile dei problemi. Citando Pascal, Eccles afferma: «L’uomo è a se stesso il più prodigioso oggetto della natura; non può intendere infatti che cosa sia corpo, e ancora meno che cosa sia spirito, e meno di tutto come un corpo possa essere unito a uno spirito. Sta in questo il massimo delle sue difficoltà, e tuttavia è questo il suo proprio essere. »
Nella stessa pagina nella quale cita Pascal, Eccles torna sul “significato” della vita umana, della vita di ciascuno di noi; e la chiama una “avventura magnifica”. Invita ad “affrontare la realtà” con impegno, rinnovandosi instancabilmente fino all’ultimo giorno. Lui lo fece sempre, arrivando a dichiarare come false le sue stesse scoperte, rarissimo caso tra gli scenziati. Tutto in nome dell’onestà intellettuale. Grande uomo e grande scienziato!
Oggi, stiamo finalmente scoprendo scientificamente i meravigliosi legami che esistono tra il corpo e la mente. Le nuove scoperte della neurobiologia ed immunologia stanno dimostrando quale meravigliosa costruzione sia l’essere umano.
Negli ultimi anni c’è stata una vera rivoluzione negli studi che riguardano la mente ed il cervello, ormai esiste la necessità di riconoscere le interazioni tra corpo e mente, e i modi in cui le emozioni e la personalità possono avere un impatto enorme sul funzionamento e sulla salute di ogni cellula dell’organismo.
E’ quello che afferma Robert Sapolsky, professore di biologia e neurologia alla Stanford University. Lo stress rende le persone più vulnerabili alle malattie, per questo è necessario studiare come le persone reagiscono agli effetti stressanti. Questa la teoria che spiega nell’ormai famoso “Perché alle zebre non viene l'ulcera? La più istruttiva e divertente guida allo stress e alle malattie che produce. Con tutte le soluzioni per vincerlo”.
Nel libro ironicamente ci si chiede: perché alle zebre e, in genere, ai babbuini, alle iene piuttosto che ai criceti, non viene l'ulcera (ma nemmeno la depressione, la colite, l'infarto, il diabete e altre malattie croniche) mentre agli esseri umani sì? Perché i criceti non devono iscriversi in palestra per scaricare le loro ansie? Il volume è interamente dedicato allo stress e alle sue conseguenze sulla salute, Sapolsky risponde a questa domanda tutt'altro che oziosa, spiegando come, di fronte allo stress, l'organismo attivi le medesime risposte fisiologiche di quello animale. Senza però essere in grado di disattivarle con rapidità allo stesso modo. Alcuni studiosi hanno affrontato il problema del rapporto fra memoria ed emozione. Gran parte di questi studi hanno riguardato lo studio di una specifica emozione, la paura. E' stato dimostrato che la memoria emotiva viene immagazzinata nell'amigdala. La reazione di paura, una volta stabilita, diventa uno stato relativamente permanente (la memoria emotiva). Da tempo l'amigdala (o meglio il complesso nucleare amigdaloideo) è considerata una regione cerebrale importante in varie forme di comportamento legato alle emozioni. L'amigdala è quindi un sito critico per l'apprendimento emotivo grazie alla sua posizione centrale fra le stazioni di ingresso e di uscita.
La reazione d'impotenza del soggetto nella situazione di ansia anticipata verso uno stato di pericolo, possono determinare effetti somatici negativi o "somatizzazione dell'ansia" che è la causa principale dell'ulcera gastrica e di altri disturbi. Sapolsky, con rigore scientifico, spiega come capire il nostro sistema nervoso, come decodificare i meccanismi che governano lo stress, ed insegna come imparare a gestirlo e combatterlo.
Scriveva Eccles, nell’ultimo dei suoi libri "Come l’Io controlla il suo cervello" (1994): «Non v’è dubbio che, con il rapido avanzamento delle nostre conoscenze scientifiche, in particolare in biologia e nelle neuroscienze, sia lecito anticipare che le questioni possano ora essere “viste con occhi nuovi”. A ciò si oppone naturalmente una ben trincerata ortodossia materialista, filosofica e scientifica, che è ferma a difendere i suoi dogmi con una autoesaltazione a mala pena raggiunta anche ai vecchi tempi del dogmatismo religioso. Per parte mia, mi sento molto incoraggiato da questa resistenza dura a morire: fa bene sapere di battersi contro roccaforti screditate! »
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

martedì 1 aprile 2008

Meditazioni in movimento


Mi riesce difficile meditare in forma statica. Ogni volta che mi ci sono azzardata, ho dovuto ingaggiare una lotta con un cavallo pazzo, che è la mia mente, che stava lì a battere lo zoccolo impaziente. Me lo figuro come un bambino simpatico e dispettoso che tira per la giacca e dice: “Cosa fai adesso? Dormi? ... Quando andiamo a divertirci? … E dai! … Muoviti!”
Siccome la cosa mi sembrava imbarazzante, anche in virtù del fatto che, apprendere una disciplina, un metodo ordinato, serve sempre, ho provato a chiedere consiglio ad una persona molto qualificata.
Lei, alla mia domanda, si è rilassata contro lo schienale della poltrona, e con lo sguardo divertito, ha sentenziato: “Non è per te. Non ti ci vedo nella meditazione, sei troppo attiva, troppo dinamica, stai meglio a tirare calci e pugni. Non è nella tua indole fare yoga. Continua con la boxe.”
Questo mi ha confermato il sospetto che il Tai Chi Chuan fosse stata la migliore forma di meditazione che io abbia praticato.
Il Tai Ch'i Ch'uan è il più famoso esercizio di Ch'i Kung, in movimento. Tai Ch'i Ch'uan significa letteralmente la boxe (Ch'uan) della Suprema (Tai) Polarità (Ch'i). Gli esercizi di Ch'i Kung, comprendono tecniche complesse per la purificazione della mente e del corpo con l’ideale intento di raggiungere ciò che i taoisti chiamavano “immortalità”.
Praticando Tai chi, nella fase primaria di apprendimento dei movimenti che si articolano nelle posizioni codificate delle forme, la mia attenzione è concentrata sui movimenti grezzi.
Devo apprendere gli schemi strutturali necessari a ricordarmi quali movimenti devo eseguire e per farlo procedo - purtroppo sono cocciona - come un bambino delle elementari con le poesie a memoria; concentrata ed annoiata.
Anche in questo, credo che le arti marziali aiutino nello stimolare la virtù della pazienza. Se poi ti aspetti i risultati eccelsi da mostrare agli altri, allora è tanto meglio se abbandoni; esse puniscono l’esibizionismo e la superficialità. Tutti coloro che praticano la marzialità cinese, con intensità spirituale, avranno visto le esibizioni di pura ginnastica eseguite da qualcuno: cose aride e formali, che non rivelano l’anima e lo stile personale del praticante.
Tanti dei manuali di strategia militare cinese, che vengono apprezzati in Occidente, sono in realtà delle guide alla ricerca interiore del praticante.
Nel Tai chi, una volta appresa la parte di puro esercizio menemonico, arriva il respiro e la concentrazione, per attivare il trasferimento dell’energia percepita e per fare veramente delle prove sulle energie in movimento.
A questo punto il respiro diviene lento e costante, il corpo rilassato ma in equilibrio, il movimento lento e sinuoso: la mente ed il corpo si perdono nella bellezza della forma. All’inizio l’esecuzione è più veloce ma poi diviene leggermente più lenta ed intensa. A questo punto si inizia a percepire il calore che affluisce lungo il corpo e che si concentra sulla punta delle dita.
Ora non faccio Tai chi, oggi faccio Fit Boxing. Fa parte del periodo la fit, e mi va bene, perché tanto io la eseguo con l’atteggiamento mentale con cui facevo Tai chi. Concentrazione e metodo e … occhio al sacco! Il resto manco lo vedo.
Più rilassante del Sanda (combattimento) perché qui non devi tenere conto del partner di allenamento. Come impegno mentale non ve ne è nessuno, visto che sono solo calci e pugni e una buona velocità di gambe, come nella boxe. Cose semplici; per cui eseguendo le mie sequenze di calci e pugni, mi faccio la mia meditazione.. e sono veramente concentrata solo sul sacco.
Mi sono resa conto che comunque è solo un palliativo, come guardare da lontano una cosa che si desidera tanto: c’è insieme tormento ed estasi.
Ma si dimostra l’amore per la disciplina anche così, cercandola dove non è.
Qualche tempo fa, tornavo dalla mia lezione, guidavo verso casa, con il corpo tonificato ed elastico, la mente rilassata e tranquilla. Stanca e soddisfatta.
Una serata piovosa con poche macchine, e nessuno che abbia voglia di correre. Neanche io vado veloce, guido e mi godo la pioviggine che mi bagna il parabrezza. Sto bene. Sono qui ed ora, e mi sento felice come un feto nel caldo liquido amniotico. Ho trovato la mia piccola via zen nella pratica della boxe.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami