martedì 31 marzo 2009

La pecora belante diventa tigre ruggente


Una tigre, che faceva strage di greggi, venne uccisa dagli uomini del villaggio. Essa lasciò un piccolo tigrotto orfano e terrorizzato, che nessuno ebbe il coraggio di uccidere. Il tigrotto così fu adottato da un pastore, che lo mise in mezzo alle sue pecore. Quando l’orfano fu nel gregge, era tanto affamato, che iniziò a prendere il latte dalle mammelle di una pecora. Allora il pastore lo lasciò crescere con il suo gregge, trattandolo come un animale domestico. Così il tigrotto cresceva timido e pauroso, brucando l’erba come una pecora e credendo di vivere tra i suoi simili. Un giorno arrivò la notizia che un’altra tigre si avvicinava al villaggio per cacciare le greggi. Quando la tigre attaccò le pecore, riconobbe la piccola tigre tra loro e allora, rinunciando al suo pasto, afferrò il tigrotto per il collo e lo rapì, portandolo nella sua tana.

Quando si furono rifugiati nella foresta, la tigre cercò di spiegare al tigrotto la sua vera natura, ma quello belava terrorizzato e cercava di fuggire, per tornare al villaggio. Allora la tigre prese il tigrotto e lo portò fino al fiume e qui lo costrinse a specchiarsi nell’acqua, ed il piccolo tigrotto indietreggiò terrorizzato perché, nell’acqua aveva visto non una, ma due tigri maestose. Quindi il tigrotto si osservò con più attenzione e si chiese: ”Che cos’è che mi avviene? Chi sono veramente io?”

La tigre anziana lo riportò alla sua tana e gli offrì della carne fresca, ma il tigrotto non riusciva a cibarsene, perché era abituato al sapore dell’erba che brucava con le pecore del gregge. Allora poco alla volta, superata la ripugnanza iniziale, il tigrotto iniziò ad assaggiare la carne, perché alla paura iniziale era subentrata una profonda attrazione per l’animale che lo aveva rapito. Quando ebbe gustato quella carne, si svelò e ridestò la sua vera natura, che lo spinse a finire il pasto con grande piacere e con una bramosìa irresistibile che proveniva dal suo essere più profondo che vedeva la luce. Alla fine del pasto, il tigrotto emise un ruggito potente, che spezzò definitivamente l’illusione che lui fosse una pecora belante: da questa storia nasce la massima zen che recita ”la pecora belante si è trasformata in una tigre che ruggisce”.

La storia contiene un messaggio di speranza per tutti perché la tigre e non il leone, per gli orientali, è l’emblema del re degli animali. La pecora è l’emblema dell’umiltà, mentre la tigre è il simbolo dell’animale coraggioso, potente e rispettato. L’inganno della vita, fatto di sonno e di illusioni, ci tiene avvinti a sé, come se fossimo in balìa di un ipnotizzatore, di un mago da strapazzo, che ha convinto delle splendide tigri che esse sono delle povere pecore belanti e terrorizzate. Ma tutti gli uomini posseggono la natura del Budda, tutti sono stati creati ad immagine di Dio, tutti possiedono la libertà, la potenza infinita e illimitata dell’Atman.

Ma questo noi non lo sappiamo, e siamo convinti di essere in costante stato di bisogno, frustrati, sofferenti, vulnerabili e servili imitatori degli altri, pensiamo influenzati da mentalità gregarie, mentre invece come tigri siamo in grado di vivere liberi ed indipendenti. Per essere sicuro che la tigre non scopra la sua vera natura, l’ipnotizzatore la convince che è una pecorella notevole, ammirevole, meritevole di rispetto, molto interessante ma incompresa dalle altre e maltrattata rispetto a ciò che veramente meriterebbe. La tigre dormiente così diventa un ovino preda della vanità, del desiderio di piacere e di essere accettata, schiava dell’egoismo e della presunzione di essere una pecora facente parte di un gregge ordinato e bene organizzato: così la massa delle tigri anestetizzate vivono belando, tremando e brucando, immerse nell’ipnosi profonda.

Il senso che l’essere ha di sé, è svelato nel koan buddista, tramite l’immagine della tigre, lo splendido animale che può anche essere un guru capace di svelare l’inganno dell’ipnotizzatore, come fa la vecchia tigre. Anche se non tutti sono in grado di diventare discepoli spirituali, gli induisti e i buddisti credono che questo percorso deve essere affrontato nel ciclo delle morti e delle reincarnazioni: per queste religioni non esiste alcun inferno definitivo, perciò tutti possono e devono divenire dei candidati alla saggezza.

Il senso egoico, la coscienza abituale che un essere umano ha di se stesso è un’illusione, una suggestione di maya, che equivale al sonno imposto dall’ipnotizzatore. Abbiamo paura di scoprire il nostro vero viso, ma dentro di noi alberga ancora l’istinto della nostra vera razza. Il discepolo ha molta paura, per questo deve affrontare il suo viso riflettendosi nello stagno, solo così riconoscerà di non essere una pecora ma per farlo, deve iniziare a nutrire dubbi sulla nostra natura gregaria e coltivare la speranza di avere una natura felina. Questo passaggio è la vera iniziazione, solo dopo si potrà gustare il cibo di conoscenza, il nutrimento che farà risorgere la tigre che dormiva nel nostro cuore. Per questo si dice che quando il discepolo è pronto arriva il suo guru.

Il guru fornisce il giusto nutrimento tramite una dottrina di verità, che fa ridestare il discepolo e che lo fa risorgere alla sua natura divina: è un cibo per la testa, per il corpo e per il cuore. In seguito, quando i discepolo sarà “disintossicato” dai cibi nocivi che venivano erogati dall’ipnotizzatore, allora saprà apprezzare quel cibo “tonico” che ha saputo rigenerare la sua vera natura: allora non si esprimerà più con il belato degli ovini ma comincerà ad esprimersi da tigre, non avrà bisogno di belare, ma potrà ruggire, le sue azioni non saranno più sottomesse e timorose, ma fiere e indipendenti.

Bisogna capire che la vigilanza è l’unico antidoto agli incantesimi degli ipnotizzatori, perché essi ci inducono al sonno della ragione per mancanza di vigilanza, ma possiamo uscire da questo incantesimo riattivando la nostra vigilanza. Ma il discepolo è diviso tra la paura per la tigre e l’attrazione che prova per lo splendido animale, così che la tigre ci attira e ci terrorizza profondamente, perché abbiamo l’impressione che ne saremo divorati e che verrà a cadere tutta la nostra tranquilla vita gregaria. Siamo noi che ci facciamo indietro quando la natura della tigre cerca di uscire all’esterno. Eppure ogni uomo, senza eccezioni, ha in sé l’atman, la natura del Budda che è destinata a risvegliarsi: in ognuno, dietro al condizionamento della pecora, si nasconde il ruggito della tigre.

Buona erranza
Sharatan

domenica 29 marzo 2009

Il destino degli automi



Nella scuola dell’esistenza, la maggioranza delle persone non ritiene che investire in saggezza sia una buona forma di investimento, perciò la maturità non si coniuga necessariamente con l’età anagrafica. Sapere conquistare dei titoli di studio o migliorare il proprio status sociale e raggiungere l’agiatezza economica, non significa assolutamente avere conquistato la ricchezza interiore, né garantisce la libertà di pensiero, la capacità di godimento estetico e il piacere di vivere; chiunque sia preda di questa illusione, sarà costretto prima o poi a ricredersi. D’altro lato, anche la ricerca di una illuminazione spirituale tramite la lettura di mille libri di esoterismo, non garantisce affatto la conquista della capacità di saper vedere armonicamente con il corpo, la mente e il cuore ben centrati in noi stessi: potremmo leggere tutti i libri del mondo e restare ancora insoddisfatti e confusi, privi di ogni forma di amore per il prossimo.

La scuola della vita ci offre sempre degli insegnamenti di ampio raggio, che coinvolgono la nostra direzione di crescita, che stravolgono tutta la nostra educazione e tutte le concezioni sociali che fino a quel momento ci avevano sostenuti: entriamo in gioco noi, in tutta la totalità del nostro essere.
Nella scuola della vita, il vero successo non si cerca fuori di noi, ma in noi stessi, ed è offerto dalla ricerca di nuovi sentieri interiori, e dalle esplorazioni che facciamo all’interno di noi, per questo i migliori allievi della vita sono coloro che sanno riconoscere i propri conflitti e le proprie limitazioni. Molti viaggiano in mille strade del mondo, ma restano limitati nelle mura di un villaggio mentale ristretto.

Le esperienze di vita si conquistano riflettendo sulle proprie sconfitte e sulle nostre perdite, superando anche profondi momenti di sconforto e confusione, duri momenti in cui siamo soli, sia a livello intellettuale che sociale. Gioire delle vittorie è importante ma non fa crescere, è la gratificazione per il lavoro svolto, è una pausa rigenerante, in attesa di nuove conquiste. La creazione umana e l’esistenza sono, perché sono in movimento e in dinamica evoluzione, perché la stagnazione anticipa la morte.
Il migliore modo che la vita ha ideato per farci crescere è costituito dagli stimoli stressanti, per questo le persone apparentemente calme e imperturbabili, possono non restare più tali di fronte a forti impatti e grossi sconvolgimenti, e dimostrano di perdere forza d’animo e coerenza interiore.

Essere capaci di rigenerarsi, di restare lucidi e coerenti, di non perdere le qualità di umanità e di tolleranza verso gli altri, dimostrare di sapere uscire da profonde difficoltà personali, economiche e spirituali, saper risorgere da forti crisi affettive, rifondarsi dopo periodi in cui si perde l’identificazione personale: tutto questo è un vero percorso da eroe. Quale migliore Vello d’Oro è preferibile alla nostra pelle, che ritorna a casa indenne, dopo un viaggio pericoloso che poteva costarci la vita? Questo è il vero significato dei viaggi di coloro che venivano mandati in terre lontane per compiere grandi imprese, questi sono vittoriosi viaggi eroici.

Per rifondarsi bisogna essere in grado di modificarci dall’interno, sapere rifondare il mondo del pensiero e dell’emozione, altrimenti non ci sarà nessuna trasformazione nel mondo esteriore. Senza il rinnovamento interiore del singolo, di ogni singolo, non ci sarà neppure nessuna trasformazione sociale, tutto sarà mutamento effimero, di facciata e di parvenza: false trasformazioni di automi ottusi.

Molti desiderano apparire come persone di forte spessore intellettuale e spirituale, ma la maggior parte dei veri maestri sono molto ben nascosti e i veri insegnamenti necessitano di canali molto più sottili ed intimi: il contatto con la divinità avviene solo all’interno di noi stessi. Molti di coloro che si proclamano fortemente spirituali e spiritualizzati sono spesso persone che seguono una moda affascinante, solo formalmente discepoli fedeli di un credo, ma pronti a passare ad un’altra concezione qualora appaia più conveniente ed opportuna.

L’atteggiamento mentale che permette una nuova rifondazione del pensiero viene indicata sia dall’induismo che dal buddismo, dal taoismo come dalla predicazione di Cristo. Queste concezioni indicano un atteggiamento privo di autocommiserazione e di autocompiacimento, tipico di colui che è dotato di una mente acuta, aperta e tollerante, capace di sapere ascoltare gli altri e di sapere comprendere le difficoltà in cui gli esseri si dibattono, perché tali debolezze sono naturali e connaturate alla natura umana.

Una mente così sa capire la storia delle persone, sa comprenderle fino in fondo, sa applicare l’arte raffinata dell’ascolto, ma sa anche rispondere con sagacia, con sensibilità ed efficacia. E’ sempre necessario sapere reagire con educazione, con amabilità, senza esporre pubblicamente al ridicolo gli errori delle persone, ma sapendoli aiutare con discrezione e facendo sentire l’altro sempre superiore ai suoi errori e mai vittima di essi. Bisogna aiutare le persone a mettersi in discussione per migliorare. Coloro che irridono agli errori altrui sono falsi amici e veri seminatori di discordia, sono esseri nemici di sé e degli altri, esseri che sentono di non valere nulla e che amano umiliare gli altri per consolarsi della propria pochezza.

Nella vita è perfettamente inutile cercare di convincere gli altri, non bisogna cercare di persuaderli delle nostre convinzioni, non bisogna credersi superiori agli altri anche quando stiamo cercando di aiutarli. Chiunque sia un buon servitore della propria coscienza, non aspira mai a convincere, piuttosto muove l’intelligenza altrui con l’arte del dubbio e dell’elaborazione del pensiero.

Anche colui che vuole farci divenire gregario delle proprie idee, si comporta in modo amabile ed accattivante, ma la sua voce assomiglia a quella dell’adulazione. I manipolatori usano dei mezzi obliqui e subdoli, delle forme indirette di persuasione con cui ci rendono insicuri ed incerti, dubbiosi delle nostre idee e vogliosi di aderire alle idee prevalenti del buon senso comune. Vogliono farci schiavi anche quando queste idee sono estranee al nostro più profondo sentire, anche quando quel pensare comune non ci appartiene affatto, perchè la loro sete di dominio ha la precedenza sulla nostra felicità.

L’idea che il progresso scientifico e tecnologico potesse renderci felici, appare fallita miseramente. Il sogno che la prosperità economica e sociale avrebbe aumentato la solidarietà, il senso civile, la qualità delle relazioni personali e la qualità della vita sembra pienamente sconfessato dall’osservazione della realtà in cui viviamo. Nulla di tutto questo è avvenuto, anzi sono aumentate le guerre e le discriminazioni, come pure le violazioni dei diritti umani, anche in paesi ritenuti civili. Le forme con cui la dittatura esercita il suo dominio sui popoli, sono divenute solo più raffinate, ma non sono affatto scomparse le tirannie dei pochi sui molti.

La scienza e la tecnologia, pur avendo allargato il nostro sguardo fino allo spazio cosmico, non ci ha resi capaci di fare evolvere la nostra intelligenza e la nostra consapevolezza. Oggi milioni di persone sanno indicare le parti più infinitesime dell’atomo, ma non sanno concepire che la pelle bianca, nera, gialla o rossa non è il parametro giusto per giudicare le persone. Nulla ha saputo sconfiggere la miseria primaria della condizione umana, cioè l’ansia e l’angoscia del vivere, per cui l’uomo tecnologico è in preda alle sue paure come il cavernicolo che si nascondeva negli anfratti rocciosi per sfuggire la paura del tuono e del fulmine.

Ancora oggi, malgrado il progresso tecnologico, ci vogliono dominare con la sferza della paura, ed il gioco riesce. Riesce perché le persone non sono più in grado di osservare e di riflettere su ciò che osservano, riesce perchè non siamo educati a farlo e perciò rischiamo di non sapere più usare la testa. Succede però che le persone che non pensano, atrofizzino il loro cervello e diventino come automi. Ed è risaputo che il destino degli automi è quello di obbedire agli ordini degli altri, privati di ogni forma di coscienza e di libertà.

Buona erranza
Sharatan

martedì 24 marzo 2009

I molti volti del potere


Aldilà dei problemi personali, delle tematiche individuali, aldilà degli specchietti per le allodole con cui veniamo invischiati nelle circostanze della vita, mi sembra che una buona pratica di autodifesa sociale, sia costituita dalla riflessione sulla mentalità prevalente, ormai ossessionata dai concetti di predominio, di possesso e di potere.

Ma attenzione a non considerare il potere in una chiave di lettura troppo semplice perchè, in tempi in cui è molto difficile gestire il cambiamento, interpretare il potere in chiave semplicistica rischia di offuscare la realtà. Il pensiero semplice offre pace mentale, non dà problemi, è troppo facile e troppo semplice. Una mente che pensa in modo semplice è una mente che diventa fiacca e passiva e così diventano fiacche anche le sue interpretazioni. Dice Hillman che “la mente ha bisogno di un nutrimento più ricco e ama muoversi con acutezza, come un serpente o una volpe.”

Quando si parla di potere bisogna distinguere tra quel potere che dobbiamo sempre rivendicare come essere umani, per cui richiedere più potere, cioè una maggiore energia vitale, maggiore capacità di dominare le situazioni problematiche, oppure chiedere dei maggiori riconoscimenti o una maggiore resistenza nel sopportare le prove della vita, corrisponde a rivendicare un legittimo potere su noi stessi e sul nostro cammino personale. Allargando questo tipo di potere personale alla sfera del sentimento, all’intelletto e allo spirito, si contribuisce all’affermazione di un esercizio del potere per mezzo della volontà e dell’impegno umano, ed è un fine eccellente. L’aumento del potere personale, deriva dall’allargarsi della nostra consapevolezza delle varie forme di potere che si presentano davanti ai nostri occhi e nel saperne riconoscere i molti volti.

Se la nostra mente è intossicata dalle idee di crescita perpetua e di efficienza, o da idee semplicistiche di controllo, di autorità, di supremazia e di prestigio, non sapremo vedere i volti del potere, e saremo bloccati nella gestione concreta di un potere che sarà solo esercitato su di noi. Nel privato saremo ossessionati da un potere che vogliamo e coltiveremo questo ideale con desiderio, rinforzando il potere che gli altri esercitano su di noi. Coloro che sanno smascherare i falsi volti del potere, sono coloro che hanno il potere di idee forti e originali, perché il nuovo volto del potere è quello che che si sta applicando all’autonomia delle idee. Oggi il potere possiede la capacità di invadere la mente delle persone, di possederle e farle proprie, fino a farle pensare come una mente ideologica: tutte le idee che ci possiedono senza che ce ne accorgiamo, hanno il potere di possedere noi.

Hillman chiama queste idee il “nostro mobilio mentale” e lo considera un mobilio di età vittoriana e di stampo darwiniano a livello sociale, per cui esse affermano che “Il progresso è naturale” e “Ciò che è naturale viene da Dio, quindi il progresso è buono” e “Il progresso avanza con una selezione naturale, per cui il forte resta ed il debole soccombe.” Da tutte queste immagini deriva anche il concetto di efficienza, così tanto declamato, che corrisponde alla massimalizzazione delle risorse del più forte selezionato per la sopravvivenza. Tutte queste idee sia di crescita che di efficienza, sono collegate all’idea dell'eroe che avanza a sfidare il nemico con fiero decisionismo. Tutte le mentalità legate ai concetti di servizio e di manutenzione diventano delle ideologie della perdita di tempo poiché richiedono risorse che non si notano ai fini dell’efficienza, e perché propugnano delle azioni da retroguardia e di stampo antiquato.

Forse, dalle crisi si potrebbe uscire meglio se fossimo capaci di rivedere questi concetti di efficienza e di crescita perpetua, divenuti sinonimi di ideologia buona e indolore, mentre invece, dovremmo rimettere in campo le “antiquate” idee di Servizio e di Manutenzione. Se pensiamo ai concetti suddetti, applicati al campo ambientale, possiamo capire che proprio dal servizio e dalla manutenzione che sapremo fare del nostro pianeta, dipenderà la nostra sopravvivenza fisica. E saremo dei veri eroi se sapremo capire questa lezione molto in fretta.

La teoria dell’efficienza come valore primario, porta a due pericolose derive. In primo luogo favorisce il pensiero a breve scadenza, per cui si vede in modo miope e si diventa insensibili al sentimento, perché non si sanno vedere i valori più grandi della vita, si giudica sul momentaneo. In secondo luogo, i mezzi diventano i fini, perciò il fare diviene primario, aldilà di ciò che viene fatto. Le frasi ricorrenti di questa filosofia sono “ Fallo e non discutere!” e "Non stare a fare domande, non perdere tempo, agisci in fretta!” La fretta fagocita il pensiero e la riflessione.
Le forme di resistenza all'efficientismo disumanizzante sono costituite dal boicottaggio e dall’inerzia, dal lavorare nel rispetto letterale dei propri compiti. Questa è la ribellione passiva alla tirannia dell’efficientismo cieco.

L’idea di crescita vista come costante miglioramento e come progressivo aumento di prestigio, diviene simbolo del potere del miglioramento all’infinito: concetto che la realtà odierna sembra profondamente ridimensionare. Ben presto dovremo sostituire il concetto di quantità con quello di qualità, perché quello che ci sembrava la via del nostro progresso, sta divenendo solo la fonte di enormi problemi. Il progresso che entra in Amazzonia con i bulldozer che spianano e abbattono alberi, con la diffusione di virus a cui gli indios non sono resistenti, che prosciuga le sorgenti per cacciare le popolazioni indigene o che le fa morire di epatite perché bevono acqua inquinata, offre una assurda immagine di se. Basterà per farci ripensare anche i concetti di “paesi sottosviluppati” e di “paesi ipersviluppati”?

Allora riflettiamo sulle parole con cui il potere rivela il suo volto. L'immagine prediletta dal potere è il Controllo, perché ci s’impadronisce di qualcosa quando si arriva ad assumerne il controllo. Il controllo equivale ad una interferenza preventiva, con cui tendiamo a conservare una condizione, infatti chi comanda pone delle restrizioni e dei limiti.
Il controllo come forma di potere negativo, ormai domina le organizzazioni, sia facendo ricorso ad un controllo diretto, sia facendo appello a forme più sottili, basate sull’appello a valori positivi, come quello della lealtà. Le parole usate sono “Io conto su di te.”

Un’altra forma di potere è quella del Prestigio personale e dell’importanza di ricoprire una certa posizione. Viene dimostrata dal fatto di ostentare una posizione di ufficio di maggiore prestigio, un nome sulla porta, l'ostentazione pacchiana dell’arredamento lussuoso e della vista di cui si gode dalla finestra. Questi sono i surrogati dello scettro, della mazza, della mitra e della corona del sovrano di altri tempi, perciò la gente che cerca di avere un'aumento della sua carica, si muove con la ferocia di una massa di cani affamati.

Psicologicamente, il bisogno di tale prestigio equivale alla vanità del narcisismo, perché l’essere ammirati sostiene un livello di autostima assai vacillante. Molti vogliono il potere per potersi sostenere con la forza di un prestigio, di cui non godono, e che sanno di non avere autonomamente. Naturalmente è giusto voler essere riconosciuti e stimati per il nostro essere, perché noi siamo anche come gli altri ci vedono, e perché dall’esterno ci giunge un grosso aiuto al nostro senso di potere e forza personali. La cosa diventa pericolosa quando il prestigio diventa fine unico ed esclusivo, quando ci sente a posto solo se si è importanti tra persone importanti, e quando di questa importanza se ne fa una ragione di vita e un vessillo esistenziale unico.

Il prestigio causa l’esibizionismo, che viene manifestato dall’esasperata ricerca di richiamare l’attenzione su di se tramite celebrazioni, comunicati stampa, riunioni e anche gesti plateali, come vediamo fare dalle stars hollywoodiane. Il desiderio di ricoprire posti prestigiosi causa l’ambizione, che è una forma sfrenata di orgoglio delle proprie effettive capacità, una ottusa millanteria alimentata dalla fame di potere. L’ambizione spinge spesso a comportamenti oltre i limiti, molto azzardati e sull’orlo del lecito.

Essere riconosciuti è un’altra forma di passione per la Fama e per il potere, ed aiuta a creare la reputazione con cui si viene riconosciuti e che, conseguentemente, si tende ad impersonare, diventando quello che si dice di noi: diventiamo così delle persone con una buona o una cattiva reputazione. Naturalmente bisogna fare attenzione a non rovinare una “buona reputazione” a meno che non si aspiri ad impersonare il “cattivo soggetto con una pessima reputazione.”

Colui che vuole potere, vuole esercitare un ascendente sulle persone, vuole influenzarle e vuole condizionarle. Il senso di onnipotenza che ne consegue è identico, sia che si voglia operare un condizionamento positivo o negativo, e per avere il potere di condizionare le persone, si usano tutti i mezzi, spaziando dalla manipolazione alla lusinga, dalla propaganda all’uso di premi e di punizioni esemplari, fino alle più raffinate strategie manipolatorie. Molto spesso costoro, quando perdono l’ascendente che esercitavano sugli altri, appaiono svuotati e si aggrappano con ferocia alla loro carica, anche quando la battaglia è ormai persa.

Il potere ci offre l’illusione della forza e della resistenza, per cui si pensa di essere più solidi e meno fragili, se si gode di una posizione di potere. Quando gode di una posizione di potere l’insicuro si sente forte, solido, inattaccabile ed inarrivabile.
L’amore per la leadership è invece il retaggio del codice animale, dell'animale capobranco che ancora vive in noi. L’animale alfa è il maschio più grosso che guida il branco, in forza delle sue maggiori dimensioni, della sua innata scaltrezza e della sua forza. L’ideale dell’animale alfa, prestato alla politica, confonde il potere con la dominazione, cosa che non è in natura. Questa assurdità è dimostrata dalla società dei lupi, in cui vi sono capobranco femmina.

La fauna umana di cui vediamo sui media, mette in mostra molti avvoltoi che fanno della competizione e del primato del più forte, del più furbo e del più muscoloso, un’immagine che ci spinge altre ogni limite di osservazione etologica. Ecco allora il potere della competizione, il pericolo del paranoico dominio e possesso sessuale, il sintomo della minaccia, dell’allarme, della tensione e dello stress. Ecco dunque le strategie di coloro che vogliono vincere la lotta alla sopravvivenza, in un ambiente ostile quando sopraggiunge la scarsità, per cui anche “L’isola dei famosi” diviene la paradossale metafora di un vademecum dei tempi della crisi.

Io penso che, se vogliamo limitarci ad osservare dei fatti, sarà il caso che ci addestriamo a farlo con una prospettiva molto più scientifica, e sarà meglio che non sia in chiave darwiniana, perché noi siamo molto più del puro istinto. Ricordiamoci che la coscienza serve per focalizzare meglio e che nessuna forma di potere è mai positiva se ci rende ottusi e ciechi.

Buona erranza
Sharatan

domenica 22 marzo 2009

Fratello mio


Fratello mio,
c'è un punto
che non ha tempo nè spazio
non so dove, non so come,
dove noi ci incontriamo
e tutto ci diciamo.

Non possiamo trasformare il mondo
ma noi stessi sì.
Se la realtà presenta tante negatività
almeno noi possiamo non essere negativi.

Possiamo essere consapevoli dei mali amari,
senza dirottare il mondo verso i nostri dolci lidi
e scegliere elixir ed aromi,
nella semplicità di qualche parola ed azione buona,
lasciando a chi ha in mano la vita e la morte
ogni cosa, perchè sempre l'ha avuta.

Col limite dei miei limiti di cui tu mi hai fatto,
che posso fare se non rimettermi in Te?
e se qualche piccola buona cosa esce da me
è Tua, Dio mio.

Fratello mio,
le parole mie sono parole tue
le tue parole sono parole mie
Siamo fatti di Lui
e Lui parla
in questo nostro silenzio d'amore.

N. Nur-ad-Din

giovedì 19 marzo 2009

Specchietti per le allodole


La sensazione di sentirci soddisfatti di noi stessi viene definito sentimento di autostima. In psicologia sociale sono stati condotti degli studi basati su questionari, realizzati per dei sondaggi, ed è emerso che la maggior parte delle persone tende a considerarsi ben al di sopra della media. La maggior parte delle persone, pensa di essere leggermente più competente, più intelligente, più gradevole della media degli altri, tende cioè a sopravvalutarsi rispetto alla classe dei suoi pari. In questo atteggiamento, dicono gli studiosi, non vi è il disprezzo per gli altri, e non è necessario svalutare gli altri, è sufficiente sopravvalutare noi stessi perché tale atteggiamento è spesso utilizzato in modo inconsapevole.

Tutto sembrerebbe molto semplice, se non fosse che l’atteggiamento di sopravvalutazione si adotta più facilmente in situazioni problematiche molto semplici, ma quando queste situazioni diventano veramente difficili e quando si affrontano delle condizioni di estrema difficoltà, allora tutta la nostra fiduciosa onnipotenza, si scioglie come neve al sole. Ma che senso di autostima si possiede se ha delle basi così fragili, e se la nostra fiduciosa autostima crolla e si trasforma in sentimenti di amarezza, in aggressione, in malafede e in ostilità? Questo accade, affermano gli studi, soprattutto quando ci vengono sottoposti a compiti complessi che vengono invece definiti semplici e quando si affronta un cocente rifiuto o una grave mortificazione personale.

Allora, non solo si inizia a dubitare di noi stessi, ma ci si sente fragili, si tende a considerare inferiori gli altri, si comincerà a diventare intolleranti e rigidi, e così reagiamo con l’assalto sociale e diventiamo ostili alla cooperazione e alla solidarietà: le ferite dell’autostima sono dei potenti colpi di testa d’ariete alle nostre difese interne, perciò ci scuotono sempre con molta violenza. E’ ben facile essere calmi e tranquilli quando tutto va bene, mentre è ben difficile mantenere lo stesso atteggiamento, quando siamo colpiti nelle nostre sicurezze personali; in realtà, i materiali con cui costruiamo la nostra autostima sono ben fragili e facilmente manipolabili.

Quando la vita diventa difficile, tutte le debolezze della nostra autostima vengono alla luce senza pietà, e quelli che hanno una maggiore fragilità e vulnerabilità, sono le prede più facili da manipolare. Le persone isolate, le persone che hanno condizioni precarie di vita, tutti coloro che hanno incertezze economiche, coloro che hanno problemi fisici o difficoltà relazionali, tutti costoro, se colpiti profondamente nella loro autostima, tendono a sviluppare diverse forme di sofferenza mentale ed emotiva. Il cittadino occidentale medio, hanno concluso gli studiosi, sembra essere uno dei più fragili nel loro senso di autostima. E allora come possono essere gli stessi soggetti che si descrivevano come di livello leggermente superiore ai loro simili?

La risposta è che, il cittadino occidentale medio è sedotto dalla possibilità di potere avere delle macchine sempre più veloci e lussuose, viene condizionato dall’esigenza di essere sempre alla moda e di riempire la casa di cose inutili che spesso non vengono neppure mai usate. In realtà la società consumistica è piena di lusinghe verso il consumatore a cui fa credere che la merce che propone è esclusiva, che è confezionata solo per lui e che comprandola lui stesso diventa di classe, diventa esclusivo. Questa lusinga occulta, nutre l’ego delle persone e le convince che il loro livello di stima è agganciato al possesso di quei beni, malgrado essi siano perlopiù inutili o voluttuari.

Inglobati nella massa dei consumatori, non rimangono le forze per difendersi e percepire l’asservimento ai valori dell’esteriorità, della giovinezza eterna, della magrezza o di tutti gli stereotipi sociali e dei “must” del momento. Così la stima di sé è sostituita dall’egoismo, dalla pigrizia mentale, dall’invidia e dall’inciviltà: viene sostituita dal vuoto narcisismo. Così abbiamo il messaggio occulto, di un nostro valore che si accresce maggiormente, mano a mano che si riesce a prevalere sugli altri: la competizione sociale viene messa al posto della cooperazione sociale.

L’eccessivo valore che viene attribuito all’egocentrismo e al narcisismo, dimostra che ci lasciamo condizionare da valori fittizi come la prestazione vincente, l’abbondanza e l’apparenza, che sono valori assolutamente vuoti. Le prestazioni eccessivamente competitive, così osannate, producono delle persone che si ammalano perché non riescono ad essere sempre dei vincenti, l’ossessiva ricerca dell’opulenza ad ogni costo, produce il consumo bulimico di cibi e di beni, che vengono acquistati con ritmi ossessivo-compulsivi. Il mito dell’eterna giovinezza vede cadere, come vittime, tutte le persone di successo che cadono in depressione ai primi segni dell’avanzare degli anni.

Il risultato di questa intossicazione, che facciamo fare al nostro ego, produce delle personalità ipertrofiche, che si nutrono solo di se stesse, che si ingozzano di cibo spazzatura e che si credono onnipotenti. Questi valori che danno un falso senso di noi, dimostrano che siamo completamente dipendenti da valori grossolani e da messaggi che riescono ad ingannare gl'ingenui con delle lusinghe e delle prospettive allettanti, cioè dei veri e propri specchietti per le allodole. Così viene costruito un ego apparentemente onnipotente ma fragilissimo. La soluzione, non è quella di pensare meno a se stessi, ma di iniziare a pensarci in modo migliore. L’autostima di cui abbiamo bisogno, non è quella del mondo consumistico che si fonda su cose esteriori, ma è quella che si basa sull’unicità e sulla degnità del nostro essere.

Impariamo a pensare che il nostro valore, non è legato al fatto di indossare dei capi di moda e di firma, ma si basa sull'unicità del nostro essere. Fatto questo, avremo il coraggio di fare ciò che desideriamo, di dire quello che pensiamo, sappiamo sopravvivere ai nostri fallimento e impariamo a trarne risorsa per imparare a vivere meglio; impariamo a dire no quando è necessario. Allora, non ci darà fastidio ammettere le nostre fragilità, e chiedere aiuto se sentiamo di non farcela da soli. Potremo accettarci per come siamo, ma intanto potremo lavorare per evolvere sempre in meglio, vedendo l’unico vero scoglio da superare nel pensiero limitato che noi abbiamo di noi stessi.
Buona erranza
Sharatan

martedì 17 marzo 2009

Come uscire dal labirinto?


“Un giorno o l’altro bisogna affrontare il proprio drago. Ognuno di noi ha nella sua vita un mostro differente. Ciò che sembra terribile agli uni, è per altri un semplice disturbo passeggero. Ma per tutti esiste una “grande paura,” un Minotauro al centro del proprio labirinto interiore, una bestia immonda che ha il nostro volto. Un giorno bisogna battersi per sé, per una propria causa, un qualche nobile fine, sociale, politico, umanitario, spirituale o altro. Deciditi ad affrontare ciò che ti impedisce di vivere appieno. Combatti per la tua vita.

Combatti contro la tua grande paura. Oggi è un buon giorno per accettare la battaglia, per smettere di fuggire, per lottare con ciò che ti terrorizza di più. Capisci che la gente e le situazioni che fanno la tua infelicità sono dei travestimenti di questa paura, le maschere di un drago che abita dentro di te? Ogni vita contiene una discesa all’inferno.

Il labirinto è una rappresentazione classica del mondo infernale (il re Minosse era giudice degli inferi), ma anche dell’utero. Come uscire dal labirinto? Come tornare dal paese dei morti? Come resuscitare? Come rinascere? Come nascere? Teseo, come tutti gli eroi, combatte il mostro prima di liberare la principessa. La principessa, o Arianna, è la sua parte femminile, l’anima, la sua parte di emozione e di dolcezza. E’ perché è legato alla sua parte femminile con un filo, perché è legato a se stesso che può vincere la sua paura (il Minotauro) e diventare libero (uscire dal labirinto).

E’ sufficientemente sicuro della sua identità sessuale per accettare la sua parte femminile. E’ l’energia dell’unione con sé, dell’incontro con se stesso (il filo che lega Arianna a Teseo) che gli permette di diventare libero. Diventare libero, diventare uno e vincere la propria paura sono la stessa cosa. Arianna, come tutte le compagne degli eroi, libera la sua parte maschile, la sua parte di forza e di coraggio. L’eroe che libera la principessa imprigionata emana il proprio lato femminile.

Il drago è sempre la paura, la paura di essere se stessi … o di non essere più se stessi se ci si è liberati. Lo scenario che si è impossessato del nostro essere e nel quale ci siamo rinchiusi: ecco il nostro drago. Affrontare il drago consiste nel ritrovare la situazione nella quale la trappola è scattata. Tornare all’istante della caduta, nel luogo stesso nel quale abbiamo perso la libertà. Alla fase che ci ha condannato. All’età in cui abbiamo perduto la vista. Dobbiamo ritrovare quell’istante che vogliamo rifuggire con tutte le cellule del nostro essere. E lì bisogna giocare nuovamente la partita, ma questa volta uscendo dalla trappola dall’alto. Se l’evento ha generato paura paura o orgoglio, uscirne con pienezza o umiltà. Uscirne con innocenza se la situazione fondante ha generato senso di colpa. Eroe, principessa e drago sono la stessa persona.

Posso apprezzare la donna in te solo se la mia dimensione femminile è capace di riconoscerla. Posso amare la donna in te solo se amo la donna che c’è in me. Puoi amare l’uomo pienamente uomo in me solo perché hai in te questa dimensione di virilità accettata consapevolmente, pienamente realizzata, amata. Allora potrai amare l’uomo che sono, senza invidiare la mia virilità, senza temere la mia estraneità.

Allo stesso modo, il mio amore per te non è unito ad alcuna gelosia per la tua femminilità trionfante, ad alcuna paura, perché questa femminilià si trova anche in me. L’amore è coinvolgimento reciproco delle anime e delle loro differenze. Un’”identità” che non implica le identità differenti che incontra è un’identità morta, reattiva, odiosa, impotente. Amare è risvegliare l’altro in se stessi.

Molla completamente la presa sulle opinioni che gli altri hanno di te. Staccati totalmente dalle immagini e dalle rappresentazioni che ti fai di te stesso. Abbandona completamente ogni idea di merito o di colpevolezza, d’inferiorità o di superiorità. Non hai niente da “provare,” né a te né agli altri. Smetti di domandarti chi tu sia. L’identità è un giogo: ti si può manipolare solo perché hai un immagine di te stesso. L’identità è una prigione. Esci dal labirinto dell’identità.”

Pierre Levy, Il fuoco liberatore, Luca Sossella ed, 2006
(Da:Il capitolo dell’identità, p. 105-108)

domenica 15 marzo 2009

Anche io sono un Ramingo!


Lettera dello scrittore Bruno Tognolini a Renato Soru:

”Presidente Renato Soru,
So che probabilmente avrà ben altro da pensare, oggi.
Ma mi stava a cuore scriverle subito, sul ferro caldo della sconfitta sua e nostra, per dirle due cose.

La prima può parere inutile e puerile, ma non lo è. Piangere compiutamente la sconfitta è importante quanto gioire legittimamente per la vittoria. E allora la prima è questa: mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace. È importante dirlo.

Più di quanto mi sia dispiaciuto altre volte, per le tante altre sconfitte, di cui ormai abbiamo panoplia e galleria. Mi dispiace di più, stavolta, forse perché ho “preso parte” in prima persona, ho contribuito con scritture e letture alla sua battaglia. Ma non solo per questo: anche perché, facendone parte, ho potuto sentire un’onda di energia, una vampa inconfondibile di presenza, che non sentivo da anni.
Mi dispiace che quella vampa non sia bastata, neanche stavolta. Non è bastato, dannazione, ma è servito. Per capire o confermare una visione.

C’è una tribù dispersa, in giro per l’Italia, distratta e distante, una Compagnia di solitari in esilio dentro i propri cammini, come i Raminghi del Signore degli Anelli, che ostinati procedono in silenzio nell’attesa che passi la nottata. Quella nottata che a ogni sconfitta pare allungarsi, e di cui oggi, sarà pure illusione del lutto, ci sembra di non vedere più la fine.
Ci sono ovunque questi Raminghi, in tutta Italia: io li incontro nei miei giri incessanti per scuole e biblioteche e comuni, sono insegnanti e scrittori e dirigenti scolastici e bibliotecari e librai e tanti altri. Altri li incontreranno in altri mondi, ingegneri, medici, studiosi, giornalisti, giuristi…

Una parte, una sotto-tribù, la parte sarda di questa Compagnia Dispersa, si è radunata nelle scorse settimane attorno a Renato Soru. Ciascuno ha tirato fuori sotto la luce del sole le sue idee, che custodiva in silenzio in attesa di momenti come questo. Ciascuno ha tirato fuori le sue armi, cioè la perizia nel dare forma a queste idee. Forma verbale, musicale, poetica, politica, concettuale: le armi che usava ogni giorno nel suo solitario cammino. E queste forme, queste armi di linguaggio e cultura, scoperte al sole, hanno mandato un confortante sfavillio.

Può sembrare consolatorio sgranare ora il rosario dei distinguo, il “quantitativamente” e il “qualitativamente”. Può sembrare inutile: nelle elezioni vince la quantità, non la qualità. Ma se è consolatorio è ben giusto che lo sia: consolarsi è sana e legittima cura, dopo i rovesci. E grandemente consola poter dire che la qualità etica ed estetica, intellettuale e artistica e umana dei Raminghi che Renato Soru raduna intorno a sé è molto alta.
E forse il sottile invisibile gioco della quantità con la qualità non è solo consolazione, non è inutile mascheramento, ma al contrario può celare sorprese per il futuro.

Ora molti di questi Raminghi, molti di noi, torneranno nei loro cammini dispersi, torneranno in sonno. Ben svegli e attivi, beninteso, in questo sonno. Io per esempio non mi sono mai fermato, posso dirlo senza rischio di enfasi, come nota di fatto. Non ho cessato mai di combattere contro la miseria culturale, contro la cattiveria impoverita, libro per libro, incontro per incontro coi lettori, puntata per puntata di Melevisione. Ognuno tornerà nella sua contea, a combattere la sua battaglia, solitaria o con pochi compagni di imprese. Ma per la Compagnia – e uno scrittore sente in modo curioso queste parole – ora è il “sciogliete le righe”.

E qui viene la seconda cosa, Presidente, che le volevo dire.
Non c’è molto di onorevole nell’offrire la propria opera a un vincitore; è più decoroso offrirla a uno sconfitto. E allora sappia, Presidente Soru, che quando i tempi lo consentiranno, alla minima schiarita nella notte, quando lei riterrà che sia giunto il momento di richiamare a raccolta la Compagnia dei Raminghi, per quello che posso fare e che so fare, io ci sarò.
Bruno Tognolini

Cagliari, 19 febbraio 2009"


Questa lettera è talmente bella che l’ho voluta sul mio blog. E’ nel sito www.unonotizie.it che l'ha pubblicata subito dopo la sconfitta della sinistra alle ultime elezioni in Sardegna.
In primo luogo, la cito perché è la testimonianza, laddove ce ne fosse bisogno, che anche una sconfitta, se così ben confortata, se circondata da un tale affetto e da tanta stima, vale quanto una vittoria.
In secondo luogo, la cito perchè Bruno è un vero Ramingo della Compagnia degli Erranti, come me. Un abbraccio a tutti i raminghi erranti.
Sharatan

giovedì 12 marzo 2009

I nemici di Internet


Alla fine di dicembre 2008 abbiamo superato il traguardo del miliardesimo utente di Internet, secondo la società comScore, che si occupa di studiare il traffico sulla Rete. Secondo il suo presidente, Magid Abraham, è “una significativa pietra miliare nella storia di Internet” per una “comunità globale sempre più integrata, e ci ricorda che il mondo sta diventando piatto”. Il secondo miliardo di utenti, “saranno online prima che ce ne accorgiamo e il terzo miliardo arriveranno ancora più in fretta”.

La Cina risulta in testa con 179 milioni di visitatori di siti web a dicembre (17,8% del totale globale), seguita dagli Usa con 163 milioni (16,2%), ma è il versante pacifico dell’Asia più in generale a fare la parte del leone: il 41% degli accessi al web avvengono qui. Tra i primi 15 paesi al mondo figura anche l’Italia, 12° con 20,7 milioni di utenti della Rete (2,1%).

Oggi, leggo su La Stampa, che“Reporters sans frontières pubblica un rapporto intitolato “I nemici di Internet” nel quale l'organizzazione analizza il fenomeno della censura che colpisce la Rete in ben 22 Paesi. “I 12 Nemici di Internet” (Arabia Saudita, Birmania, Cina, Corea del Nord, Cuba, Egitto, Iran, Uzbekistan, Siria, Tunisia, Turkmenistan, Vietnam) hanno trasformato la Rete in una sorta di Intranet, impedendo in questo modo a tutti gli utenti di accedere alle informazioni considerate “indesiderate”. Tutti questi Paesi si distinguono non soltanto per la loro capacità di censurare l'informazione on-line, ma anche per la repressione quasi sistematica degli utenti considerati sovversivi...” ha dichiarato Reporters sans frontières.

Inoltre dieci governi, che Reporters sans frontières ha posto “sotto sorveglianza”, hanno adottato misure inquietanti suscettibili di aprire la via a nuovi abusi. L'organizzazione vuole per esempio attirare l'attenzione sull'Australia e la Corea del Sud, Paesi in cui misure recentemente adottate possono mettere a repentaglio la libertà di espressione su Internet. “Oggi la Rete è sempre più controllata e nuove forme di censura e di manipolazione dell'informazione stanno emergendo. Commenti “teleguidati” messi on-line su siti Internet molto consultati e strategie di pirateria informatica orchestrate dai governi più repressivi confondono l'informazione su Internet”, ha aggiunto Reporters sans frontières. Attualmente, 69 cyberdissidenti sono in carcere per aver pubblicato sulla Rete informazioni non gradite dalle autorità. La Cina mantiene il suo triste record e rimane la più grande prigione al mondo per i cyberdissidenti, seguita dal Vietnam e dall'Iran.”

Ieri, sul sito della Reuters Italia leggevo che “la Corte di Cassazione, ha stabilito che per i nuovi mezzi di comunicazione, non possono valere le stesse regole che riguardano la stampa, ed ha respinto il ricorso contro il sequestro di alcuni messaggi del forum online dell'Aduc, associazione per i diritti degli utenti e dei consumatori, che sul forum “Di' la tua” del proprio sito web consente agli utenti di esprimersi liberamente su qualsiasi argomento.

Per la Cassazione (terza sezione penale, sentenza 10535) “i nuovi mezzi di comunicazione del proprio pensiero”quali newsletter, mailing-list, chat, blog, forum, messaggi istantanei e newsgroup, non possono “tutti in blocco, solo perché tali, essere inclusi nel concetto di stampa” enunciato nell’articolo 21, comma 3 della Costituzione, “prescindendo dalle caratteristiche specifiche di ciascuno di essi” per cui sono equiparabili ad una bacheca e, a differenza della stampa (dove per la riproduzione e per la responsabilità civile e penale ci sono editore e direttore responsabile), l'autorità' giudiziaria può esercitare un controllo diretto.

“Contro questo avevamo fatto ricorso in Cassazione ed avevamo fatto presentare una interrogazione parlamentare (ad oggi senza risposta)”, dice l'Aduc, Ricordando che l'articolo 21 della Costituzione, oltre a ribadire che “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”, recita anche che “Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità' giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili.”

Per l'associazione, la Carta stabilisce cioè che il sequestro possa avvenire non nel caso di un reato qualunque, ma di un delitto già previsto dalla legge sulla stampa mentre, a giudizio dell'Aduc, il delitto di cui all'articolo 403 del Codice penale, con cui la Procura di Catania aveva motivato il sequestro preventivo, “non e' in alcun modo contemplato nella legge sulla stampa. Pertanto, il sequestro preventivo...era per noi un atto incostituzionale. Non è d'accordo la Cassazione che ha stabilito la legittimità della censura per tutto ciò che non è stampa” conclude l'Aduc.”

Come curiosità va detto, che i commenti che hanno portato alla censura, erano di protesta contro l’atteggiamento assunto dalla Chiesa Cattolica verso la pedofilia e riguardavano le accuse di pedofilia mosse contro dei religiosi cattolici. I commenti erano stati ritenuti offensivi perché nel forum, secondo l’ordinanza impugnata, si erano travalicati “i limiti del buon costume”, offendendo la religione cattolica e “alludendo espressamente a pratiche pedofile dei sacerdoti per diffondere il sacro seme del cristianesimo.”

Quando leggo notizie di questo genere mi viene facile creare delle associazioni mentali, e spero che non vengano considerate come delle associazioni mentali a delinquere, tali da farmi incolpare del reato di istigazione alla malizia mentale. Certo dopo il concetto di guerra preventiva, che nobilitava il principio “ti ammazzo oggi perché so che domani tu potresti uccidermi” non dovrei stupirmi più di nulla. In questi giorni, dietro le notizie che leggo e dietro le cose che vedo, mi immagino ‘sti maestri-revisori del karma che mi dicono: ”Senti tu carina… tu … dico a te che fai la gnorri .. tu nascosta in fondo… vieni qui alla lavagna. Allora carina… come la mettiamo con tutte queste belle cosine che stai elaborando? Sono messe bene a punto?”

Quindi mi comunicano associazioni e pensieri maliziosi, che sono frutto solo della mia mentalità disturbata, del mio io deviante, e che sono comunicabili solo dietro il più rigido anonimato. Mi si fa notare che i paesi più internettizzati sono i paesi più controllati e quindi anche quelli più censurati. Questo è male o bene mi viene chiesto, io direi che è male ma poi c’è l’interferenza del Buon Senso Comune che scaccia i maestri del karma e rimette le cose a posto, sui binari del buon senso ordinario e comune.

Ormai governata dal Buon Senso Comune, fingo di non vedere che i signori del karma mi guardano molto male, e dichiaro che il controllo non è male, è segno di considerazione. Ma perché pensare che sia censura? Perché non vederla come un indicatore di evoluzione della comunicazione? Ma perché questo pensiero sempre negativo, sempre critico, sempre controcorrente, sempre all’uso del bastian contrario? Perché sempre questa cattiveria, questa malizia, questo scontento e questo pessimismo così estremo ed esagerato?
Ma vadano al bando, ma che siano eliminati tutti quei profeti di sventura, quei corvi del malagurio che ammorbano le gioie della vita parlando solo di paranoie e di crisi.

Vorrei anche aggiungere che se l’Italia ha conquistato i primati nelle cose più deprimenti, entrare in futuro nella classifica di Reporters sans frontières, non mi sembra un'idea malvagia: è pur sempre un primato. Ma non vorrei tirare troppo all’estremo la pazienza dei maestri del karma con una ulteriore provocazione, perciò tengo per me la curiosità di chiedergli quale sarà la lista dei Paesi Cattivi del prossimo anno e chiudo il post prima che diventi compromettente.

Buona e prudente erranza
Sharatan

martedì 10 marzo 2009

Nelle Paludi della Tristezza



Anche se a volte sembra incomprensibile, accade che il dolore diventi una molla, affinché si sciolgano i nodi dell’anima. Accade che in fondo a tutte le inquietudini siano nascosti dei nodi che non si possano sciogliere, se non con il dolore. Accade che la tristezza diventi come una cascata inarrestabile, e che queste cascate diventino delle ondate d’indicibile dolore. Non è assolutamente possibile fare resistenza, perché il tuo dolore rimane e non riesce ad andarsene: allora quel dolore va vissuto fino in fondo.

E’ quel dolore che ci aiuta a sciogliere i nodi del cuore, e che ci aiuta ad accellerare la nostra trasformazione. Ma se ci illudiamo che il nostro dolore possa essere lenito da una relazione, da un’amicizia, da una missione o da un lavoro che possano aiutarci o anestetizzarci per tutta la vita, allora siamo in preda al miraggio dell’illusione: tutto dura lo spazio di un sogno, e gli inganni hanno la vita più breve di un sospiro.

Abbiamo davanti un deserto che va attraversato, abbiamo sempre una strada che dobbiamo percorrere fino in fondo, un percorso che nessun surrogato chimico e forma d’illusione, potrebbe cancellare o farci deviare. Se abbiamo il coraggio di percorrere quel deserto, allora la via della libertà potrebbe venirci incontro. Forgiati alla scuola del dolore e della necessità, diventiamo sempre più schietti ed acuti e riusciamo a scendere sempre più in fondo, oltre la superficie della vita: diventiamo belli ed essenziali perchè spogliati di ogni inutile orpello ed artificio.

La gioia che nasce dal dolore è un sentimento forte ed intenso come quel dolore che l’ha partorita, perché il dolore è il passaggio e la decantazione verso una più matura gioia di vivere. Questo ci insegnano tutte le filosofie sapienziali, questo insegnano tutte le scuola di conoscenza perché, troppo spesso, l’uomo evolve solo tramite le vie del dolore, mentre invece dovremmo trovare la strada per evolvere senza rimanere dilaniati dalla vita. Le filosofie orientali indicano nella nostra ignoranza e nel nostro cieco attaccamento, la causa di ogni dolore e di ogni radice dell’infelicità umana.

Paramhansa Yogananda afferma che Dio non vuole che l’uomo soffra, anche se purtroppo l’uomo cambia vita solo dopo avere provato un forte dolore. Il dolore sorge quando l’uomo sceglie una via che è in disarmonia con il suo essere, ed è per questo che l’Inferno sembra eterno, perché è la natura del dolore e della sofferenza che appaiono come tali. Chi soffre, pensa che per lui nulla potrà mai più cambiare, e che tutto sarà sempre penoso e doloroso.

Per l’induismo, qualsiasi stato di coscienza crea una vritti o vortice, che ha la forza di attrarre tutto ciò che entra nella sua orbita, perciò si raccomanda di non essere troppo indulgenti con le nostre sofferenze, perché potremmo rimanere prigionieri del nostro dolore ed essere vittime del vortice. Ne “La storia Infinita” il cavallino Artax prima giudizioso, allegro e coraggioso, muore nella Paludi della Tristezza, le paludi nelle quali si affonda se ci si lascia trascinare da pensieri tristi mentre, con il suo padrone Atreiu, sta cercando la vecchissima Morla per cercare di salvare Fantasìa.

Yogananda avverte di non pensare che, il fatto che un sentimento sia molto diffuso, sia anche il segno che esso sia necessario o naturale. Essere normali significa stare bene ed essere felici, mentre essere infelici significa essere in uno stato di “anormalità” spirituale, cioè essere in preda ad una malattia dell’anima. In realtà, egli afferma, il dolore non faceva parte del piano divino, ma era stato pensato come necessità impersonale di difesa, perché il nostro organismo fosse protetto dai danni, come per il dolore che si prova quando si tocca una stufa calda: il dolore è la protezione che ci è stata donata affinchè possiamo riconoscere ed allontanarci da tutto ciò che ci può arrecare danno.

Secondo la leggenda, quando Dio manifestò l’Universo, esso nacque perfetto, perciò gli uomini e le donne, comprendendo la necessità di essere perfetti, ben presto si sedettero in meditazione e si immersero immediatamente nella beatitudine di Brahman. Dopo avere fatto ancora dei tentativi infruttuosi di fare agire la sua creazione, allora Dio disse: ”Devo fare cadere gli uomini nell’illusione. Dovranno lottare e procedere per tentativi ed errori e fargli Così scoprire, quali azioni e quali comportamenti li condurranno alla beatitudine e alla libertà.” E’ per questo che ci hanno chiusi in questo labirinto, ed è per questo che tutte le scritture ispirate alla liberazione dalle vie intricate di Maya, sono vie di vera liberazione e di somma conoscenza, da usare come preziosi fili di Arianna.

Secondo il Dalai Lama, la vita non è un’illusione, ma ci appare come un’illusione, perciò vi sono molte discrepanze tra come le cose sono, e come invece ci appaiono, per cui una cosa transitoria può apparire permanente, come può accadere che alcune forme di dolore possano apparirci come fonti di piacere. La coscienza è condizionata dalle condizioni precedenti, per cui il nostro dolore viene sempre sperimentato sulla base di preconcezioni, cioè sulla base di quello che noi abbiamo già precedentemente definito come piacevole, spiacevole o neutro.

La sensazione è quindi postulata come un fattore mentale che sperimenta ciò che noi chiamiamo dolore, piacere o sensazione di neutralità, alla fioca luce di contatti precedenti. Inoltre qualsiasi tipo di sensazione, anche la più debole, è in grado di darci una spinta dinamica, perciò non riusciamo a rimanere tranquilli quando siamo in preda alle nostre sensazioni.

Il piacere ci spinge a volerne di più, mentre il dolore ci spinge ad evitarlo. La brama di possesso ci spinge a desiderare gli oggetti, mentre la volontà di far cessare il dolore ci spinge alla volontà di distruggere tutte quelle cose che ci fanno soffrire e a separarci dalle sensazioni dolorose: è l’attaccamento che ci spinge ad aggrapparci mentalmente agli oggetti desiderati, alle visioni del sé, ai sistemi etici e ai comportamenti sbagliati.

Ogni dolore è il frutto dell’ignoranza, perchè è il frutto del nostro oscuramento rispetto alla relazione che intercorre tra le azioni e i loro effetti. Sono queste brame e questi attaccamenti che ci fanno cristallizzare nel nostro karma o che invece, possono infondere una nuova carica di potenzialità al nostro karma. E' a causa di ciò che comprendiamo perché, dalla liberazione dai nostri attaccamenti, possiamo trarre delle risorse per "seminare" un karma migliore da fruire nella futura incarnazione.

Osho avverte che siamo degli osservatori che s’identificano troppo con le apparenze, e ciò accade quando smettiamo di essere testimoni per diventare attori, per questo bisogna provare a distinguere tra noi e la nostra mente. Noi non siamo la nostra mente, ma siamo una cosa molto più grande, di cui la mente è solo una parte. Così facciamo scomparire la nostra mente per fare sorgere il nostro Sé, la cui essenza è assolutamente universale.

Diventando un’essenza universale, scompare sia la mente che il Sé cosi che, anche le cose che ci apparivano più importanti e problematiche, possono divenire irrilevanti. Per questo da ogni dolore ci si difende operando uno sforzo, cioè operando un netto distacco dalla cecità egoica e dall’ignoranza individuale: dal dolore ci si difende facendo un grande balzo evolutivo.

La mente è solo una processione di pensieri che passa davanti allo schermo del cervello, afferma Osho. Tu sei un osservatore, ma ti identifichi con le cose belle e sei coinvolto dalle cose brutte, perché senza dualità la mente non può esistere. E non può esserci nessuna consapevolezza con la dualità, come non può esserci la mente senza la dualità. La consapevolezza non è duale mentre la mente è duale, per questo dobbiamo esercitarci ad osservare. Crea distanza tra te e la tua mente, suggerisce Osho, distanziati dalle cose, siano esse belle come pure siano brutte, e restane il più lontano possibile. Guarda le cose come se fossero le immagini di un film, ma guardale da lontano e cerca di non identificarti con loro, resta centrato in te.

Ci sono persone che corrono il rischio di attaccarsi alle proprie cose, anche se sono dolorose e anche se sono collegate a stati d’animo negativi, quasi come ne traessero piacere, e ciò avviene perché l’io può esistere solo con la mente infelice e nessun io nasce dalla contemplazione estatica: le nostre miserie esistono perché noi le alimentiamo e così facendo ci svuotiamo delle nostre energie e delle nostre risorse migliori.

Solo le emozioni e gli atteggiamenti positivi producono energia e gioia, perché sono delle dinamo di energia, che creano altra energia e che non si svuotano mai. Quando sei felice, anche la vita ti offre di più e l’esistenza ti risponde offrendoti altra felicità, mentre quando sei infelice, triste, arrabbiato o avido, allora sei morto nella tua tristezza, crei una frattura tra te e la vita, e sei preda delle ostilità dell’esistenza. Intrappolato nella tua tristezza diventi sempre più debole finchè, sfinito, vieni risucchiato dalle Paludi della Tristezza.

Buona erranza
Sharatan

domenica 8 marzo 2009

Benvenute alla Festa della foca monaca!


Molte festività assumono il sapore dello stereotipo perché diventano obbligate, e allora vengono erogate in modo automatico come fa un distributore con un pieno di benzina: metti la banconota e ti danno il prodotto. La “Festa della donna” assomiglia ad una cosa dovuta, alla celebrazione beffarda della tutela della foca monaca. Se qualcuno mi dicesse: “Embè! E allora, che cosa c’è di male a tutelare la foca monaca, perché non dovrebbero farlo?” Direi che non c’è nulla di male, assolutamente nulla, ma che comunque la tutela è sempre il sintomo di qualcosa che non va. Senza dimenticare che l’ipocrisia umana, pur tutelando un soggetto, nel contempo non smette si sfruttarne le risorse.

Nel concetto di tutela si presume che ci sia un soggetto debole che deve protetto perché tale soggetto, non ha la forza di poterlo fare in autonomia. Scusate se è poco, ma io vedo enunciati assieme, sia un aspetto di superiorità di una parte su di un’altra, ma anche una visione concessoria e paternalistica di tutela che mi disturba molto, perché il paternalismo rende l’individuo asservito alle altrui volontà.

E’ tipico del paternalismo essere tollerante e magnanimo e quindi offrire delle concessioni, che vengono graziosamente erogate in virtù della magnanimità del principe. Io non mi sento mai gratificata dalle cose che mi vengono concesse, io richiedo solo il riconoscimento dei miei diritti e tu non hai il potere di concedere nulla. Come mi può essere regalato ciò che è già mio? Capito il concetto?

Si tutelano i deboli, quelli che non possono e non sanno far valere le proprie ragioni e, quando si offre una tutela, si presume che l’altro essere sia, in qualche modo, inferiore a colui che eroga. Attenzione però, perché gli uomini e le donne la pensano in modo molto diverso, ma dire che uomini e donne siano diversi, non significa dire che uno dei due sessi sia inferiore all’altro. Siamo diversi e come poterlo negare? Ma è certo che siamo anche uguali e questo, prima o poi, saremo in grado di capirlo e comportarci di conseguenza.

Oggi siamo nel tempo in cui si reputa che lo stupro sia il prodotto della seduzione esagerata della bellezza e della sensualità delle donne, oggi si pensa che la soluzione migliore sia quella di far tornare le donne al burkha, ma nel contempo, si abusa dell’immagine di un corpo femminile che viene mostrato ovunque e senza censure. Ma per le donne più evolute, appare evidente che lo stupro è solo il retaggio arcaico del linguaggio delle caverne, in cui un uomo armato di clava, persuadeva la donna concupita, che lui fosse il più forte ed il più “conveniente” per la sopravvivenza della specie.

L’opinione pubblica vede l’orda barbarica che avanza, senza pensare che la massa degli stupratori è troppo spesso nascosta nella famiglia, nei rapporti di parentela e nel giro delle amicizie, e che l’orda è costituita da padri, mariti e amici che stuprano, approfittando della loro prepotenza, che è superiore alle forze e alla volontà delle donne. Sono insospettabili ed impuniti perché queste donne, molto spesso, neppure denunciano gli abusi per la paura degli stupratori e per la vergogna di dover raccontare le violenze subite.

Lo stupro è sempre uno sfregio alla donna, è lo sfogo dell’impulso di potenza e di prevaricazione che opprime e umilia il corpo della donna, perché il corpo è il primo confine dell’identità personale per le nostre civiltà occidentali e perché il corpo è il confine della tribù e della etnia nelle civiltà tribali. Le due significanze non sono mai separabili, basti leggere le dichiarazioni di coloro che si sono rivelati stupratori seriali familiari, per convincersi che il movente dell’incesto sia l’atto di possesso totale e assoluto sulle donne del proprio gruppo familiare. Credo che una notizia di questi giorni, sia in grado di mostrare fino in fondo tutte le contraddizioni dell’ipocrita festa della donna e la cito come notizia su cui riflettere.

In Brasile, c'è una bambina di 9 anni. Il patrigno di 23 anni abusa sessualmente di lei da quando aveva 6 anni e abusa anche della sua sorellina, che ha 14 anni ed è invalida. La bambina di 9 anni resta incinta di due gemelli. La legge brasiliana "autorizza l'aborto in caso di stupro o pericolo di morte", vale a dire proprio le condizioni entro cui si è venuta a trovare la bambina violentata e alla bambina di 9 anni vengono somministrati medicinali per indurre un aborto farmaceutico.

Allora il monsignore brasiliano Josè Cardoso Sobrunho, arcivescovo di Recife, scomunica i medici che hanno eseguito la pratica abortiva, e puntualizza che il “peccato” d'aborto ricade esclusivamente sui medici e "chi lo ha realizzato, e si spera che, in un momento di riflessione, si pentano." Livio Moraes, primario presso l'ospedale dell'Università di Pernambuco, ha ricordato che la legge tutela le condizioni entro cui si è venuta a trovare la bambina violentata e che la madre era favorevole all’aborto della figlia, sebbene il padre biologico fosse contrario. Allora l'arcivescovo Sobrinho ha risposto al primario che "la legge di Dio è al di sopra della legge umana. Per cui, quando una norma promulgata da legislatori umani va contro la legge di Dio, perde qualsiasi valore."

Leggo ancora su La repubblica del 6 marzo: "Sul caso della bimba stuprata è intervenuto anche il ministro della sanità brasiliano, Josè Gomes Temporao, che ha accusato la Chiesa cattolica di aver adottato una posizione "estremista", "radicale" e "inopportuna" avendo deciso di scomunicare i medici che hanno fatto abortire la bambina di 9 anni."Sono scioccato per la posizione radicale di questa religione che, nell'affermare a torto di voler difendere una vita, mette un'altra vita in pericolo."

Dal Vaticano, risponde padre Gianfranco Grieco, capo ufficio del Pontificio Consiglio per la Famiglia, presieduto dal cardinale Ennio Antonelli. "E' un tema molto, molto delicato", ma "la chiesa non può mai tradire il suo annuncio, che è quello di difendere la vita dal concepimento fino al suo termine naturale, anche di fronte a un dramma umano così forte come quello della violenza di una bimba. L'annuncio della chiesa è la difesa della vita e della famiglia - aggiunge ancora padre Grieco - ognuno di noi deve porsi in un atteggiamento di grande rispetto della vita, anche di fronte a un dramma umano come la violenza di una bambina."

E la scomunica ai medici? "I vescovi giustamente predicano il mistero della vita - risponde il religioso - e la chiesa non può tradire il suo annuncio. L'aborto non è una soluzione, è una scorciatoia". "La scomunica significa non potersi accostare anche al sacramento della comunione e se una persona è nel peccato e non si confessa, per la chiesa - ricorda Grieco - non può fare la comunione. In questo caso i medici sono fortemente nel peccato perché sono persone attive nel portare avanti l'aborto, l'uccisione di un innocente. Sono protagonisti di una scelta di morte."

Capito l’antifona? Capito come si fa a difendere l’innocenza di una bimba, la sacralità della vita, l’integrità della famiglia e soprattutto il rispetto per la legge? Dimenticano forse di dirci come la bimba vivrà la sua sessualità dopo avere subito abusi fino dall'età di 6 anni. Ma forse è difficile dirlo perchè la Santa Madre Chiesa è costituita solo da uomini e perchè la sessualità è peccato.

Nessun’altra risposta "più cristiana" si poteva trovare per il dramma di questa bambina? Se la violenza è sempre un caso esecrabile, a me appare ancora più spaventosa quando viene compiuta ai danni dei bambini, e la fedofilia è uno dei pochissimi peccati che lo stesso Gesù ha condannato con parole durissime, dicendo che chi sarebbe stato di scandalo a “uno solo di questi piccoli” sarebbe stato meglio se si fosse legato una macina da mulino al collo e si fosse buttato nel più profondo dei pozzi. Ma la Santa Madre Chiesa contro la pedofilia si sente fragile.

Ma forse oggi dovremmo anche ricordare quello che accade in Africa, dove le donne sono violentate e mutilate in modo raccapricciante, ma dove nessuno interviene perché non c’è interesse economico o posizioni militari strategiche da conquistare. Leggere gli articoli sulla violenze inflitte alle donne del Darfur è un’esperienza scioccante per una donna, ma leggerle e poi pensare al ramettino di mimosa diventa una provocazione.

Io non amo affatto le celebrazioni dovute e non amo essere provocata, amo molto i fiori, ma oggi penso che le mimose stiano molto meglio appese ai loro rami. Allora festeggiamo se vogliamo, ma questa festa è una coglionata ipocrita e commerciale. Per tutte le gentili signore che ancora ci credono, a loro tutte dico: Benvenute tutte alla Festa della foca monaca!

giovedì 5 marzo 2009

Del mentale affamato che non ha mente



L’essere umano non riesce mai a percepire la realtà in modo neutro, impersonale ed oggettivo, ma viene sempre risucchiato dal suo ego, per cui non riesce mai ad essere nello stato di coscienza distaccata che viene definito cone essere nel Testimone.
La coltivazione di questa attitudine a testimoniare viene espressa bene da Nisargadatta Maharaj, come la capacità di sapere osservare, con un atteggiamento di totale distacco e autonomia il mondo esterno, e di saperlo osservare con totale oggettività. Coltivando l’attitudine a testimoniare, si avrà una maggiore sensazione di distacco e quindi una maggiore capacità di controllo, poichè per Nisargadatta Maharaj, la testimonianza non ha nulla di passivo.

Non bisogna assolutamente andare alla caccia del nostro io per ucciderlo, perché sarebbe impossibile, bisogna solo smettere di vederci come scissi tra un Soggetto Osservatore ed un Soggetto Osservato e vederci invece come presenti e testimoni di noi stessi. Solo quando si capisce che non vi è un Io interiore ed un Io esteriore, ma solo un Osservatore Cosciente e vi è la consapevolezza della nostra consapevolezza.

Maharaj, per spiegare il senso del Testimone, usa delle metafore tratte dalla tradizione Veda, narrando l’apologo di Janaka e l’interpretazione del suo sogno di essere un mendicante. Narra l’aforisma che, quando Janaka si svegliò disse al suo maestro, Vasishtha: "Sono io un re che sogna di essere mendicante o un mendicante che sogna di essere re?". E il maestro: "Né l'uno né l'altro, sia l'uno che l'altro. Voi siete e insieme non siete ciò che pensate di essere! Lo siete perché agite in conformità. Non lo siete perché non dura. Potete essere un re o un mendicante per sempre? Tutto muta. Ma voi siete ciò che non muta. Che cosa siete?". Disse allora Janaka: "Sì, non sono un re né un mendicante, sono il testimone spassionato".

Solo quando la nostra personalità si riunisce alla nostra individualità abbiamo la reintegrazione che permette la vera via spirituale, perché nessuna vera spiritualità si manifesta nella dualità e nella scissione delle esigenze dell’uomo, perchè nessun cammino spirituale vero ammette la mortificazione dell’uomo. Quelli che riteniamo Sè interni o Sé esterni sono solo parti del nostro essere di cui siamo inconsapevoli, sono solo il frutto della percezione che noi siamo il nostro corpo.

Ma il fatto stesso di avere il corpo, ci offre l’opportunità di esperire tale atto di coscienza. Siamo intrappolati in una ragnatela di convinzioni e di definizioni verbali che minimamente riflettono solo una parte della consapevolezza di noi, del mondo e delle persone.

Bisogna prestare attenzione a tutto ciò che in noi vi è di grezzo e di primitivo, ancora irragionevole ed immaturo, afferma Nisargadatta Maharaj, e allora avverrà la maturazione: "L’essenziale è la maturità del cuore e della mente. Verrà senza sforzo, quando sarà rimosso il principale ostacolo: la mancanza di attenzione e di consapevolezza. E’ nella consapevolezza che cresci."

Ma cosa ci impedisce di comprendere? Se il nostro cuore e la nostra mente sono agitati, se siamo impauriti, se siamo bisognosi di consolazione, allora non siamo in gradi di comprendere, perché quando noi siamo in preda a delle forti emozioni, siamo completamente ciechi e sordi ad ogni altra questione, e nulla giunge alla nostra comprensione. Ogni aiuto, ogni argomento ed ogni ragione sono completamente estranei ad ogni nostra capacità percettiva o critica: per questo il mentale deve sparire, per questo dobbiamo svincolarci da tutto ciò che ci impedisce di comprendere la realtà.

Il mentale urla continuamente il suo io e lo fa prevalere su ogni altra percezione e comprensione, per questo dobbiamo metterci in grado di capire oltre l’urlo dell’io che sente solo i suoi successi, le sue sconfitte, le sue ingiustizie e le sue paure. Come possiamo creare il silenzio, come far tacere il mentale, come attenuare l’accumulo di paure, di desideri, di tutte le sensazioni che affiorano dinamicamente dal nostro inconscio trasformate in ossessivi pensieri ed in violente emozioni, e che ci mettono in balia di agitazioni e di vortici emotivi?

Sappiamo di vite intere che si sono scandite nelle mortificazioni corporali e nella meditazione, vite mortificate e dedicate alla fuga dalle schiavitù dell’io, ma tutto ciò ha solo impedito di capire e di sentire la grande Verità. Il termine desiderio, in sanscrito si esprime con vasana, che è un termine femminile e ben si traduce con il termine “richiesta” e con il significare delle esigenze che sentiamo in noi stessi, delle sollecitazioni e delle istanze interiori.

Nessuno può negare di essere sollecitato da domande e da esigenze interiori, che sono le esigenze “del cuore affamato che non ha orecchi” e “del mentale affamato che non ha mente” come dice giustamente Arnaud Desjardins. E sono le voci di quel cuore affamato che dobbiamo far tacere, e quanto esse tacciono allora scompaiono le identificazioni, i nervosismi, i rifiuti ed i conflitti e ci si ritrova nei panni del Testimone che è completo in sè stesso, libero ed inattaccabile.

Se aspettiamo che la vita ci ponga nella condizione di uno stato di calma e di azione consapevole, tale da permetterci di essere tranquilli e realizzati,allora non avremo mai alcun risveglio. Si dice che ci si ricorda di Dio solo nei momenti di disperazione, ma la dimensione interiore della coscienza è sempre presente, noi siamo sempre presenti alla nostra dimensione interiore che per noi è sempre aperta. Il cammino spirituale non è un tranquillante per sopire l’anima,ma è il risveglio a sè stessi, alla risposta assoluta sull’Atman che siamo e al nostro modo di partecipare all’Infinito eterno.

Ascoltiamo la voce del cuore e del mentale affamati, non cerchiamo di zittirla, ma facciamo parlare anche il discepolo di conoscenza che esiste in noi, perché ha un alleato onnipotente, la nostra Atman, cioè la nostra Verità Relativa che fa parte della più grande Verità Assoluta. Allora capiremo che non esiste verità relativa o assoluta, così come non possiamo distinguere ogni onda dell’oceano dall’oceano stesso: così percepiamo un barlume della Verità Suprema. Alla domanda:”Come sfuggire alle fiamme dell’inferno” Un maestro taoista rispose: “Saltandoci dentro, proprio dove sono più alte!”

Tutte le ascesi hanno lo scopo di rendere meno affamati il cuore e il mentale, ma facendolo non concorrono che a rafforzarli, invece noi possiamo rovesciare la prospettiva, affermando che esiste già in noi, una Perfezione e una Pienezza che aspetta solo di essere riconosciuta. Dobbiamo credere che in noi vi siano le onde che l’oceano, poiché siamo tanti Atman che concorrono all’oceano di Brahman. Assumendo come criterio la perfezione della Coscienza, cade ogni nostra ragione d'indegnità e d’infelicità.

Il guru di Nisargadatta Maharaj, Sri Siddharameshwar Maharaj del Navnath sampradaya, ormai morente gli disse:"Se vuoi vivere una vita felice, cerca ciò che sei." e aggiunse: "Tu sei il Supremo agisci in conformità. Credilo con fermezza, non dubitarne mai, ricordalo senza intermissione." A Nisargadatta Maharaj non restò che obbedire, e narra: "Continuai la mia solita vita, ma ogni momento libero lo passavo a ricordare il maestro e le sue parole. Poiché non le ho dimenticate, mi sono realizzato."

Buona erranza
Sharatan

martedì 3 marzo 2009

E sarà lui stesso la propria compagnia



Nondimeno può accadere che vi siano ragioni sufficienti per le quali un uomo senta di dovere confidare solo nelle sue forze, per intraprendere il cammino nel mondo. Può darsi che in tutte le vesti, le forme, i recinti, e i modi di vita e le atmosfere che gli offrono egli non trovi ciò di cui ha particolarmente bisogno, e in tal caso andrà solo, e sarà lui stesso la propria compagnia. Varrà come se fosse egli il suo gruppo, consistente in una varietà di opinioni e di tendenze: che non devono necessariamente essere rivolte nella stessa direzione. In realtà, sarà in disaccordo con lui stesso, e si troverà in grande difficoltà nell’unire la sua molteplicità per scopi di fine comune […]

Come l’iniziato di una società segreta che si è liberato dalla collettività indifferenziata, così l’individuo che sia solo sulla sua strada, ha bisogno di un segreto che per varie ragioni non possa o non gli sia consentito rivelare. Un tale segreto lo costringe all’isolamento, nel suo individuale progetto: molti individui non sanno sopportare tale isolamento. Sono i nevrotici, che necessariamente giocano a nascondino con gli altri come con se stessi, senza essere capaci di prendere nulla veramente sul serio. Di solito finiscono col sacrificare il loro scopo individuale alla loro brama di adeguamento collettivo, processo che tutte le opinioni, le credenze e gli ideali del loro ambiente incoraggiano […]

Pertanto l’uomo che, spinto dal suo demone, osa porre il piede oltre il limite dello stadio intermedio, entra veramente in “regioni inesplorate, e da non esplorare”, dove non vi sono strade segnate, e nessun ricovero offre la protezione di un tetto. Non vi sono precetti che possano guidarlo quando si imbatte in una situazione imprevista, per esempio in un conflitto di poteri che non si possa risolvere in quattro e quattr’otto. Per lo più queste sortite nella “terra di nessuno” durano solo finchè non si presentino conflitti del genere, e finiscono non appena da lontano si presagisca una tempesta. Non posso biasimare uno che se la batta a gambe levate; ma nemmeno posso approvarlo se cerca di farsi un merito della sua debolezza e della sua codardia. Dal momento che il mio disprezzo non può fargli altro danno, posso anche esprimerlo tranquillamente.

Ma se un uomo si trova di fronte a un conflitto di doveri e si accinge a risolverlo fondando sulla sua personale responsabilità, e dinanzi ad un giudice che siede in giudizio giorno e notte, egli si ritrova nella posizione dell’”uomo solo.” Possiede un segreto autentico che non può essere messo in discussione, non fosse altro perché egli è coinvolto in un dibattito interno senza fine, nel quale egli è avvocato e spietato accusatore, e nessun giudice secolare o spirituale può ridargli un sonno tranquillo. […]

E’ proprio questa virtù che impedisce al suo possessore di accettare le decisioni di una collettività. Nel suo caso la corte si è trasferita dal mondo esterno in quello interiore, dove il verdetto viene pronunciato a porte chiuse. Una volta che ciò accada, però, la coscienza dell’individuo acquista un significato che prima non aveva. Egli non è più soltanto il suo io ben noto e socialmente definito, ma è anche la corte che discute che valore esso abbia in sè e per sé. Nulla favorisce la presa di coscienza tanto quanto questo intimo confronto dei principi opposti. […]

Come ogni energia procede da una opposizione, così anche l’anima umana possiede la sua intima polarità, essendo questa l’indispensabile premessa della sua vitalità, come già riconobbe Eraclito. Sia da un punto di vista teorico che pratico la polarità è inerente a tutto ciò che vive. Contro questa forza vi è la fragile unità dell’io, raggiunta a poco a poco nel corso dei millenni solo con l’aiuto di innumerevoli misure protettive. Che un io fosse possibile sembra derivare dal fatto che tutti gli opposti tendono a raggiungere uno stato di equilibrio. Ciò avviene nello scambio di energia che risulta dall’incontro del caldo e del freddo, dell’alto e del basso, e così via.

L’energia che sta alla base della vita psichica è preesistente ad essa, e perciò è dapprima inconscia. A mano a mano che si avvicna alla coscienza essa dapprima appare proiettata in figure come il mana, gli dei, i demoni, e così via, il cui numen sembra essere la sorgente della forza vitale, e praticamente lo è, fino a che essa è vista in tale forma. Ma non appena questa impallidisce e perde la sua efficacia, l’io – e cioè l’uomo empirico – sembra prendere possesso di questa sorgente di energia e di possederla, e persino immagina di possederla realmente; dall’altro ne è posseduto.


[C. G. Jung – Ricordi, sogni, riflessioni, p. 404-407 ]

domenica 1 marzo 2009

Esplorare i prodigi dell’Africa


Lo spirito fu l’elemento che portò alla crisi e al distacco di Jung da Sigmund Freud e, attualmente, è l’ambito in cui freudiani e junghiani sono maggiormente distanti. Jung riteneva che la maggior parte dei malesseri fosse causata da crisi spirituali non risolte, mentre Freud supponeva che essi fossero sintomi di vere e proprie malattie, di cui la psicoanalisi doveva farsi carico, mentre si attendeva che le scienze neurologiche trovassero i migliori rimedi per la cura. Tra i due non poteva esserci distanza maggiore.

Come studioso materialista, Freud negava ogni esistenza dello spirito nell’essere umano mentre Jung, che era un mistico intuitivo e che proveniva da una famiglia in cui la veggenza non era affatto insolita – sua cugina era una valente medium - proclamava la centralità dello spirito alla base di ogni istanza umana più elevata. Freud affermava un approccio più farmacologico verso i disagi umani, mentre Jung supponeva che bisognava costruire un’interpretazione più olistica dell’uomo e delle sfide della vita. Jung riteneva che per essere spiritualmente vivi si dovesse concepire sè stessi come parte di un più grande disegno cosmico.

Quando Jung incontrò un capo Pueblo del New Mexico, nell’inverno tra il 1924 e il 1925, rimase profondamente colpito perché il capo indiano gli disse che era allarmato dai bianchi: “Vedi, come appaiono crudeli i bianchi. Le loro labbra sono sottili, i loro nasi affilati, le loro facce solcate e alterate da rughe. I loro occhi hanno uno sguardo fisso, come se stessero cercando sempre qualcosa. Che cosa cercano? I bianchi vogliono sempre qualcosa, sono sempre scontenti e irrequieti. Noi non sappiamo che cosa vogliono. Non li capiamo. Pensiamo che siano pazzi.”
Quando Jung gli chiese perché pensasse che i bianchi fossero pazzi, Ochwìa Biano, il capo Pueblo gli rispose: “Essi dicono di pensare con la testa.”
Jung replicò sorpreso: “Ma certo. E tu come pensi?” Allora il vecchio Pueblo gli indicò il suo petto e il suo cuore e rispose: ”Noi pensiamo qui.”

Jung capì che il pensare con la testa avrebbe fatto fare passi tecnologici enormi, ma avrebbe causato la perdita della capacità di pensare con il cuore e di vivere attraverso l’anima e capì che, se non ci assumiamo la responsabilità della nostra parte di universo, ogni cosa veramente importante sarebbe andata perduta.

Nel 1944 Jung ebbe un arresto cardiaco e rischiò di morire e quando fu guarito, raccontò che in quella occasione aveva sperimentato un’esperienza di pre-morte. Raccontò che era uscito dal corpo e dal mondo,entrando in una dimensione meravigliosa in cui tutto era perfetta luce, felicità ed armonia. Niente vi era di più meraviglioso, ma prima aveva dovuto sopportare una totale lacerazione da tutto il suo passato personale. Era stato come se tutto gli fosse stato tolto con la violenza, come se gli avessero strappato tutto ciò che desiderava, tutto ciò in cui credeva e tutto ciò che aveva pensato; gli restava solo ciò che aveva vissuto e ciò che aveva fatto, e lui era tutto ciò.

Questa spoliazione era stata fonte di estrema miseria ma anche di appagamento e, alla primaria sensazione di essere stato defraudato, saccheggiato e violato, era poi sopraggiunta la sensazione di essere restato tutto integro in sé stesso e di essere integro in tutto ciò che era veramente: non vi era più nessun rimpianto per ciò che gli era stato tolto: era vero ed integro nella sua essenza.

Sospeso nello spazio cosmico era giunto ai piedi di un tempio in cui doveva entrare, perché sapeva che era atteso da coloro che facevano parte di lui, e che lui stesso era una parte di un grande libro della vita, di cui costituiva una pagina: perciò doveva entrare nel tempio. Ma non gli fu possibile, perché giunse l’immagine del medico che lo stava rianimando e gli disse che non poteva andarsene dalla terra e che doveva ritornare alla vita. Fu così che fu riportato nel corpo e gli fu impedito di morire, e allora deluso pensò:”Ora devo tornare ancora una volta al “sistema delle cassettine!”

Nacque così in lui una sensazione che lo accompagnò per tutta la vita che, dietro al cosmo, avessero costruito artificiosamente un mondo tridimensionale, in cui ognuno stesse per conto suo, chiuso dentro una piccola cassetta. La vita e il mondo intero gli apparvero come una prigione, in cui tutto era perfettamente normale e, dopo avere sperimentato la straordinaria sensazione di librarsi nello spazio senza peso, ora venisse catturato da un filo e richiuso ancora nella sua cassettina. Amareggiato pensava:”Ora devo tornare in quel mondo grigio!”

Più tardi scrisse che, sebbene in seguito avesse recuperato la fede in questo nostro mondo, eppure non riuscì mai più a liberarsi dal pensiero che questa vita fosse solo un frammento dell’esistenza che si svolge in un universo tridimensionale, disposto beffardamente a tale scopo, dichiarando di avere sperimentato il sentimento giocoso ed ironico, che gli induisti definiscono Lila o Leela, il gioco cosmico e creativo di Brahman.

Di questa nuova sensibilità risentì la sua concezione di legame affettivo, infatti scrisse: “in genere gli uomini attribuiscono molta importanza ai legami affettivi, ma questi contengono proiezioni che è necessario respingere per realizzare sé stessi e l’oggettività. I rapporti emotivi sono rapporti di desiderio, viziati da costrizioni e mancanza di libertà; si vuole dall’altro qualcosa che priva sia lui che noi della libertà. La conoscenza obiettiva sta al di là della relazione affettiva; sembra essere il segreto essenziale. Solo grazie ad essa è possibile la vera coniunctio.”

Dopo la malattia Jung scrisse la maggior parte delle sue opere principali e la conoscenza di queste realtà lo spinse a lasciarsi andare alla sua intuizione interna, senza volere fare delle affermazioni ma trovando il coraggio per nuove ed insolite formulazioni. Ma dalla malattia derivò anche la capacità di saper dire “si” all’esistenza, imparò “un si incondizionato a tutto quello che è, senza proteste soggettive, la totale accettazione delle condizioni dell’esistenza così come le vedo e le intendo; l’accettazione della mia stessa essenza, proprio come essa è. Al principio della malattia avevo la sensazione che vi fosse un errore nel mio atteggiamento, e che perciò in un certo modo fossi responsabile io stesso dell’infelicità.

Ma quando uno vive la via dell’individuazione, quando si vive la propria vita, si devono mettere anche gli errori nel conto: la vita non sarebbe completa senza di essi. Non c’è garanzia, neanche per un solo momento, che non cadremo nell’errore e non ci imbatteremo in un pericolo mortale. Possiamo credere che vi sia una strada sicura, ma questa potrebbe essere la via dei morti. Allora non avviene più nulla o, in ogni caso, non avviene ciò che è giusto. Chiunque prende la strada sicura è come se fosse morto.

Fu solo dopo la mia malattia che capii quanto sia importante dir di sì al proprio destino. In tal modo forgiamo un io che non si spezza quando accadono cose incomprensibili; un io che regge, che sopporta la verità, e che è capace di far fronte al mondo e al destino. Allora, fare l’esperienza della disfatta è anche fare esperienza della vittoria. Nulla è turbato – sia dentro che fuori – perché la propria continuità ha resistito alla corrente della vita e del tempo. Ma ciò può avvenire solo quando si rinuncia a intromettersi con aria inquisitiva nell’opera del destino. “

L’orientamento junghiano, più che religioso può definirsi sacrale, perchè afferma la sacralità dell’essere umano in campo psicologico ed opera nella psicologia, una rivoluzione paragonabile a quella fatta da Copernico nell’astronomia. Perciò Jung fu molto più di un brillante teorico di pratiche psicoterapeutiche, poichè praticò la sua arte con il rispetto sacrale con cui si attua una pratica religiosa, vedendo in ogni crisi personale non una patologia, ma una opportunità evolutiva, rifiutandosi di definire un concetto di normalità a cui fare sottostare e dovere forzosamente ricondurre le persone, volendo vedere ognuno di noi come una realtà unica, e perciò irriducibile a dei rigidi schemi ideologici o socio-culturali.

Di lui fu scritto che avviò una gigantesca esplorazione dei “prodigi dell’Africa” che giacciono nascosti dentro di noi. Come un esploratore geografico, tracciò una mappa precisa del suo viaggio, poi lo raccontò per aiutare i futuri viaggiatori che ne avessero voluto seguire le orme; perciò può essere definito il primo cartografo dell’anima.

Alla fine della sua vita, modestamente, riteneva di avere compiuto ben misera cosa e, a chi gli faceva i complimenti per la sua notorietà e per la genialità delle sue teorie, disse che lui era solo un uomo che aveva immerso il suo cappello in un fiume e che l’aveva ritirato ricolmo di acqua. Disse di non avere scoperto nulla e noi sappiamo che non è vero, ma così rese sicuramente omaggio all'infinito splendore di Brahman!

Buona erranza
Sharatan