sabato 28 novembre 2015

La mia strada e la tua



"Era un uomo dottissimo, parlava molte lingue ed era dedito al sapere, come un altro lo è all’alcool. Citava di continuo i detti di altri a sostegno delle sue proprie espressioni. Si dilettava di scienza e di arte, e quando esprimeva la sua opinione lo faceva con un crollar del capo e un sorriso che sottintendevano sottilmente come non si trattasse semplicemente della sua opinione, ma della verità definitiva. Diceva di avere le sue esperienze, che per lui erano autorevoli e conclusive.

«Anche voi avete le vostre esperienze, ma non potete convincermi - diceva - Voi andate per la vostra strada ed io per la mia. Ci sono molte vie per la verità, e noi tutti ci troveremo in essa un giorno o l’altro.» Era cordiale in un suo modo distante, ma fermo. Per lui, i maestri, anche se non veri, visibili guru, erano una realtà, ed era essenziale diventare loro discepoli. Insieme con altri conferiva lo stato di discepolo a coloro che erano disposti ad accettare questa strada e l’autorità dei maestri.

Ma tanto lui quanto il suo gruppo non appartenevano a coloro che, grazie allo spiritualismo, trovano le loro guide tra i morti. Per trovare i maestri uno doveva servire, operare, sacrificare, obbedire e mettere in pratica certe virtù: e naturalmente la fede era necessaria. Contare sull’esperienza come su un mezzo per giungere alla scoperta di ciò che è, significa cadere nell’illusione. Il desiderio, la brama condizionano l’esperienza; e affidarsi all’esperienza come mezzo per giungere alla comprensione della verità è seguire la via dell’auto-ingrandimento.

L’esperienza non può mai portare la libertà dal dolore; l’esperienza non è una risposta adeguata alla sfida lanciata dalla vita. Alla sfida si deve rispondere di nuovo, di volta in volta, perché la sfida è sempre nuova. Per rispondere adeguatamente alla sfida, il ricordo condizionato dell’esperienza deve essere messo da parte, le risposte del piacere e del dolore vanno comprese profondamente.

L’esperienza è un ostacolo alla verità, perché l’esperienza è del tempo, è il prodotto del passato; e come può una mente, che è il risultato dell’esperienza, del tempo, comprendere ciò che è senza tempo? La verità dell’esperienza non dipende da idiosincrasie e capricci personali; la verità dell’esperienza viene attinta soltanto quando ci sia coscienza senza condanna, giustificazione o forma alcuna d’identificazione.

L’esperienza non è un modo di avvicinarsi alla verità; non c’è «tua» o «mia» esperienza, ma soltanto la comprensione intelligente del problema. Senza conoscenza di sé, l’esperienza genera illusione; con la conoscenza di sé, l’esperienza, che è la risposta alla sfida, non lascia il residuo cumulativo detto memoria. La conoscenza di sé è la scoperta momento per momento dei modi dell’io, delle sue intenzioni e delle sue mire, dei suoi pensieri e appetiti.

Non ci può mai essere la "tua" esperienza e la "mia" esperienza; il termine stesso, "mia esperienza" indica ignoranza e l’accettazione dell’illusione. Ma molti di noi amano vivere nell’illusione, perché c’è in essa grande soddisfazione; è un paradiso privato che ci stimola e ci dà un sentimento di superiorità. Se ho capacità, scaltrezza, o doni di natura, divengo un capo, un intermediario, un esponente di quell’illusione; e poiché la maggioranza ama evitare ciò che e, ecco crearsi un’organizzazione con proprietà e riti, con voti e riunioni segrete.

L’illusione si veste di tradizione, mantenendo questa nel campo della rispettabilità; e come i più di noi cercano il potere sotto una forma o un’altra, si stabilisce il principio gerarchico, nascono il novizio e l’iniziato, il discepolo e il maestro, ed anche tra i maestri ci sono gradi di evoluzione spirituale. In massima parte, noi amiamo sfruttare ed essere sfruttati, e questo sistema ne offre i mezzi, sia celati, sia scoperti.

Sfruttare è essere sfruttati. Il desiderio di utilizzare gli altri per le nostre necessità psicologiche determina una certa dipendenza, e quando si dipende si deve avere, possedere; e ciò che voi possedete, possiede voi. Senza dipendenza, sottile o grossolana, senza possedere cose, persone, idee, siete vuoti, cose di nessuna importanza. Voi volete essere qualche cosa, e per evitare la paura rimordente di non essere nulla appartenete a questa o a quella organizzazione, a questa o quella ideologia, a questa chiesa o a quel tempio; così che siete sfruttato, e voi a vostra volta sfruttate.

La struttura gerarchica offre un’occasione eccellente di espansione del proprio io. Potete volere la fratellanza, ma come può esservi fratellanza se perseguite la distruzione spirituale? Potete sorridere dei titoli mondani; ma quando ammettete il maestro, il salvatore, il guru nel regno dello spirito, non assumete forse un atteggiamento tipicamente mondano? Possono esservi gradi o divisioni gerarchiche nell’evoluzione spirituale, nella comprensione della verità, nella realizzazione di Dio?

L’amore non ammette divisioni. O amate, o non amate; ma non fate della mancanza di amore un processo lungamente protratto il cui fine sia l’amore. Quando sapete di non amare, quando siete consapevoli senza scelta di questo fatto, allora c’è una possibilità di trasformazione. Ma coltivare diligentemente questa distinzione tra il maestro e il discepolo, tra coloro che sono giunti e coloro che non, tra il salvatore e il peccatore, è negare l’amore. Lo sfruttatore, che è a sua volta sfruttato, trova un eccellente terreno di caccia in questa tenebra, in questa illusione.

La separazione tra Dio o la realtà, e voi stessi è determinata da voi, dalla mente che si afferra al cognito, alla certezza, alla sicurezza. Questa separazione non può essere varcata da un ponte; non c’è rito, non c’è disciplina, non c’è sacrificio che possano portarvi al di là; non ci sono salvatore, maestro, guru, che possano guidarvi al reale o annullare questa separazione. La divisione non sta tra il reale e voi stessi; è in voi, è il conflitto di desideri opposti.

Il desiderio crea il suo proprio opposto; e la trasformazione non sta nel concentrarsi in un solo desiderio quanto nel liberarsi dal conflitto portato dal desiderio. Il desiderio, a qualunque livello dell’essere, genera un conflitto ulteriore, e a questo cerchiamo di sfuggire in ogni modo possibile, la qual cosa non fa che accrescere il conflitto tanto all’interno quanto all’esterno. Questo conflitto non può essere superato da un altro, per grande che sia costui, né da nessuna magia o rito. Questi possono farvi dolcemente addormentare, ma al risveglio il problema sarà ancora là.

La stragrande maggioranza di noi, tuttavia, non vuole svegliarsi, e così noi viviamo nell’illusione. Con la soluzione del conflitto, c’è tranquillità e solo allora la realtà può venire in essere. Maestri, salvatori e guru non hanno importanza, ma ciò che è essenziale è comprendere il crescente conflitto del desiderio; e questa comprensione viene soltanto attraverso la conoscenza dell’io e la continua consapevolezza dei moti dell’io.

La consapevolezza dell’io è ardua, e poiché noi in maggioranza preferiamo una via comoda, illusoria, portiamo in essere l’autorità, che forma e modella la nostra vita. Questa autorità può essere il collettivo, lo Stato; o può essere il personale, il maestro, il salvatore, il guru. L’autorità di ogni genere è accecante, genera assenza di pensiero; e poiché in maggioranza troviamo che pensare significa soffrire, ci diamo all’autorità.

L’autorità genera potere, e il potere diviene sempre centralizzato e pertanto fonte di massima corruzione; esso corrompe non soltanto chi detiene il potere, ma anche chi obbedisce. L’autorità nel campo del sapere e dell’esperienza perverte, tanto se investita nel maestro, nel suo rappresentante o nel prete. È la vostra vita, questo conflitto apparentemente senza fine, che conta, e non il modello stabilito o il capo.

L’autorità del maestro e del prete vi distoglie dal problema centrale, che è il conflitto nel vostro intimo. La sofferenza non può mai essere compresa e dissolta mediante la ricerca di un modo di vita. Una siffatta ricerca è un mero evitare la sofferenza, è l’imposizione di un modello, che è evasione; e ciò che viene evitato non fa che andare in suppurazione, portando più calamità e dolore. La comprensione di voi stesso, per penosa o momentaneamente piacevole che sia, è il principio della saggezza.

Non c’è sentiero per la saggezza. Se c’è un sentiero, allora la saggezza è la cosa formulata, la cosa già immaginata, cognita. Può la saggezza essere conosciuta o coltivata? È forse cosa da accumularsi, da impararsi? Se lo è, allora diviene semplice sapere, una cosa dell'esperienza, libresca. Esperienza e sapere sono la catena continua delle creazioni, onde non può mai comprendere in sé il nuovo, il vergine, il non-creato. L’esperienza e il sapere, essendo continui, aprono un sentiero alla loro propria proiezione, per cui sono continuamente costrittivi.

La saggezza è la comprensione di ciò che è di momento in momento, senza l’accumulo di esperienza e sapere. Ciò che si è accumulato non dà libertà di comprendere, e senza libertà non c’è scoperta; ed è questa scoperta interminabile che porta alla saggezza. La saggezza è sempre nuova, sempre vergine, e non ce mezzo di farne raccolta. I mezzi distruggono la verginità, la novità, la spontanea scoperta. I molti sentieri verso una sola realtà sono invenzione di una mente intollerante; sono il prodotto di una mente che coltiva la tolleranza.

«Io seguo la mia strada e tu segui la tua, ma cerchiamo di essere amici, e alla fine ci incontreremo.» Come potremo incontrarci, se voi andate a nord e io a sud? Come possiamo essere amici se voi avete tutto un gruppo di credenze ed io un altro? Se io sono un assassino multiplo e voi pieni di pace? Essere amici implica rapporti di lavoro, di pensiero; ma c’è il minimo rapporto tra l’uomo che odia e l’uomo che ama? C’è rapporto tra l’uomo che vive nell’illusione e colui che è libero?

L’uomo libero può tentare di stabilire un rapporto di qualche genere con quello che è in schiavitù; ma colui che vive nell’illusione non può avere rapporti con l’uomo che è libero. I separati, aggrappati al loro stato di separazione, cercano di stabilire rapporti con altri che sono essi pure chiusi in se stessi; ma tentativi siffatti invariabilmente generano conflitto e dolore. Per evitare questo dolore, gli scaltri inventano la tolleranza, ognuno guardando alla barriera che lo imprigiona e tentando di essere gentile e generoso.

La tolleranza è della mente, non del cuore. Parlate forse di tolleranza quando amate? Ma quando il cuore è vuoto, allora la mente lo colma con le sue paure e i suoi scaltri stratagemmi. Non c’è comunione dove sia tolleranza. Non c’è sentiero verso la verità. La verità deve essere scoperta, ma non c’è formula per questa scoperta. Ciò che viene formulato non è vero.

Dovete accingervi a navigare un mare non segnato sulle carte, e questo mare incognito siete voi stessi. Dovete salpare alla scoperta di voi stessi,ma non secondo piano o programma alcuno, perché allora non c’è scoperta. La scoperta dà gioia, non la gioia ricordata, comparativa, ma la gioia che è sempre nuova. La conoscenza di sé è il principio della saggezza, nel silenzio e nella tranquillità della quale è l’incommensurabile." (Jiddu Krishnamurti)

giovedì 26 novembre 2015

Piccoli passi



“Sii calmo nell’attività e attivo nella calma.”
(Paramhansa Yogananda)

Un giorno chiesero a Paramhansa Yogananda: “Il sentiero spirituale ha una fine?” e lui rispose: “Niente affatto. Si va avanti finché non si raggiunge l’infinito.” Troppo spesso viviamo pensando di poterci riposare oppure crediamo che saremo felici solo dopo aver raggiunto un certo obiettivo, solo dopo aver comprato qualcosa, solo dopo aver trovato un nuovo amore, solo dopo aver risolto un problema… insomma, saremo felici solo dopo qualcosa che bisogna raggiungere.

E così rinforziamo l’idea che c’è qualcosa che ci impedisce di essere in pace e di poter godere quello che già abbiamo. Questo atteggiamento non facilita il percorso spirituale perché non ci permettiamo di riposare perciò anche la nostra ricerca spirituale diventa uno stress. Questo ci accade perché non sappiamo che la regola d'oro della vita pratica e della ricerca spirituale è quella di non essere impaziente.

Per riuscire nella ricerca è necessario prepararsi con calma e avanzare con passo lento ma più sicuro. Nel mondo spirituale non si ammettono errori e anche la più piccola distrazione può causare un disastro. L'impazienza e la distrazione non vengono perdonati. Non dobbiamo permettere che l’impazienza ci renda tesi, perché il vero progresso spirituale non si potrà mai forzare.

Non dobbiamo permettere che il nostro ego imponga il suo ritmo, perché è l’ego ad imporre la sua impazienza, è lui che vuole avere subito e tutti i frutti del suo lavoro. Il problema è che, più cerchiamo il riposo dopo l’azione più diventiamo irrequieti. Il riposo va ricercato e apprezzato durante l’azione, perché il percorso di miglioramento non ha mai fine.

Ma questo è il concetto che viene compreso con più facilità solo dalla mente che è abituata a meditare. Il maggiore ostacolo per il progresso spirituale è che la mente subconscia limita la comprensione della vita. Il subconscio è il terreno che spesso ci dimentichiamo di curare e di seminare, perché la mente occidentale considera l'inconscio, il luogo dell'incoscienza.

In realtà questo terreno è tutto fuorché incosciente, perché è solo un luogo della coscienza di cui non siamo dinamicamente coscienti. In questo luogo si accumulano i pensieri, le azioni, le memorie ed i sedimenti della società perciò tutti questi condizionamenti sono presenti e attivi, sebbene nascosti. Sono non elaborati, ma esercitano un potente influsso, anzi, spesso condizionano le decisioni che prendiamo.

Tutte le abitudini che sviluppiamo ci portano a vivere con molta automaticità, perciò la nostra attenzione e la nostra determinazione non riescono a restare focalizzate sulla semplice azione che stiamo compiendo. L’abitudine è il trucco più amato da una mente che non vuole faticare, perciò l’abitudine è comoda ma non fa pensare.

Questo è il motivo per cui le persone continuano a fare delle azioni che sanno non gli porteranno nessun vantaggio. È la parte subcosciente che spinge ad agire automaticamente perciò diventiamo inconsapevoli anche della nostra limitata libertà. Ma ci sono molti modi per dominare l’azione dei pensieri e delle abitudini dannose che salgono dal subconscio. Un modo è quello di darsi solo ordini buoni facendo solo azioni giuste e coltivando solo dei pensieri elevati.

L’altro modo è quello di privare il subconscio degli impulsi distruttivi o negativi perciò di non alimentare quei pensieri negativi e quelle azioni ingiuste. Quando togliamo l'energia a qualcosa la indeboliamo. E, se togliamo il nutrimento alle cose ingiuste e negative dovremo usare meno energia per creare o rinforzare i pensieri giusti e le azioni positive.

Il modo migliore per purificare il subcosciente è quello di rivolgersi verso l’alto cioè rivolgersi al supercosciente, dice Yogananda. La mente cosciente è l'alleato più affidabile per aiutarci nella battaglia per l’indipendenza dell’anima. Le filosofie orientali indicano alcuni atteggiamenti che ci aiutano a conquistare un cuore tranquillo e ci indicano dei passi concreti e sicuri per raggiungere la pace della mente.

Gli insegnamenti vengono divisi tra le cose che si devono fare e le cose che si devono evitare, e vanno considerati come raccomandazioni piuttosto che come imposizioni. I divieti vengono presentati per primi perché si crede che è preferibile eliminare i difetti piuttosto che costruire su un terreno malsano, perciò le prime attitudini sono dette “yama” ossia controllo.

Può sembrare strano che questi principi vengano definiti come negativi, ma la ragione è che essi diventano delle virtù quando si eliminano le loro qualità opposte cioè quando si eliminano le caratteristiche al negativo. Ogni regola che definisce un controllo ha lo scopo di favorire l’emergere della virtù innata dell’essere perché yama ha lo scopo di eliminare la sporcizia dell'essere.

La prima regola è quella che fu diffusa dal Mahatma Gandhi cioè ahimsa che corrisponde alla non-violenza. C’è una ragione per cui l’invito a sviluppare la benevolenza per il prossimo è diffusa in negativo. Il motivo è che dobbiamo eliminare dal nostro cuore l’impulso a fare il male, l’impulso ad attaccare ed a nuocere al nostro prossimo. Solo se lo facciamo, la benevolenza si manifesterà come una qualità che sorgerà naturale e spontanea dal nostro cuore.

L’impulso a fare il male si ritorce contro l'anima e danneggia l’ambiente in cui si vive: è un prodotto molto inquinante. Essa ci aliena dalla vita dell’anima e alimenta tutte le illusioni dell’ego. L’importante non è quello che diciamo ma è l’atteggiamento interiore, perciò il vero ricercatore spirituale deve coltivare sempre un atteggiamento non-violento. Inoltre, la volontà di fare il male agli altri produce una forte tensione interiore che contrasta la pace interna.

L’altro atteggiamento da coltivare è quello di evitate la menzogna, e anche questo viene indicato in negativo. La ragione è che abbiamo la tendenza naturale a essere sinceri se non cedessimo al desiderio di distorcere la realtà per assecondare i nostri desideri, infatti diventiamo bugiardi. La verità è sempre benefica anche se dire qualcosa può causare delle conseguenze positive o negative.

Se vediamo che rivelare qualcosa produce più male che bene dobbiamo capire se quella è una verità elevata. Ma se diventa impossibile essere sinceri perché l’altro può soffrire dobbiamo preferire il non dire nulla. La perfezione dell’astensione dalla bugia sviluppa un potere mentale che produce la chiarezza, una limpida intuizione e la piena comprensione. Ogni nostra affermazione deve essere positiva e sempre gentile, o almeno a livello di intenzione.

L’altro ammonimento è la non-avarizia dove l’avarizia è intesa come desiderio di guadagno o profitto. Un ricercatore spirituale deve rinunciare al desiderio di avere quello che nono ha conquistato con i suoi meriti. L’aspetto positivo è il rinforzo della convinzione che se non meritiamo qualcosa non potremo attrarla.

L’altro aspetto positivo è quello che dobbiamo agire senza essere stressati perciò possiamo agire senza essere attaccati al risultato del nostro agire. Le cose si ottengono faticando, perciò il rimedio non è quello di volere tutto senza avere fatto nulla ma quello di agire e di sentirsi in pace sapendo di aver fatto al meglio.

Il desiderio di avere porta la mente verso l’esterno e gli impedisce di percepire la pace del Sé interiore. La qualità che sviluppa la non-avarizia quando viene sviluppata al sommo grado è il potere magnetico di attirare tutto senza fare alcuno sforzo. La conseguenza è che la persona non deve preoccuparsi che qualche bisogno non venga soddisfatto, perché sa con certezza che tutto questo avverrà.

La prescrizione che si accompagna alla non-avarizia è la non-accettazione che qualcuno traduce come il fatto di non accettare doni perché questo comporterebbe la contrazione di un debito karmico. Il potere che si conquista quando la prescrizione viene portata alla perfezione è la capacità di ricordare le vite passate.

Yogananda diceva che per ricordare le vite passate è necessario ritirare la nostra coscienza e la nostra energia dal corpo ed entrare in uno stato di supercoscienza. Quando l’anima non è più identificata con il presente può ricordare le sue passate identità. Non-avarizia e non-accettazione sono collegate perché non-avarizia è non essere attaccato a ciò che è nostro, invece non-accettazione è non essere attaccato a quello che riteniamo essere nostro.

L’altra prescrizione al negativo riguarda l’autocontrollo ossia il brahmacharya cioè il fluire con Brahma. E questa è una delle raccomandazioni più fraintese perché è stata sempre stata riferita all’astinenza sessuale anche se il senso non è solo questo perché la sua applicazione è molto più ampia.

La raccomandazione è controllo di ogni appetito inferiore, infatti l’insegnamento è un invito a vivere identificati con lo Spirito Supremo e di realizzare se stessi come anima e non come ego rivolto a soddisfare gli istinti del corpo. La raccomandazione è quella di dirigere lo sforzo gradualmente verso l’alto cioè verso il cervello anche durante il godimento stesso.

Il ricercatore deve essere padrone e non servo dei suoi istinti, perciò il piacere deve scaturire dalla sua stessa sorgente cioè il Sé. Il potere che si ottiene è l’accesso ad un’energia illimitata che alimenterà il nostro entusiasmo e la nostra creatività, perché essi fluiscono senza ostacoli e senza delle condizioni che provengono dall’esterno. L’energia è illimitata perché proviene dalla stessa fonte della vita che scorrono dentro di noi.

I precetti che vengono offerti lungo i sentieri della ricerca spirituale sono cinque come le raccomandazioni e sono: purezza, appagamento, austerità, introspezione cioè studio di sé e devozione al Signore Supremo. Ma ancora una volta esse vanno comprese con profondità e in modo sottile. La purezza è quella del cuore che deve affiancare la purezza del corpo.

L’appagamento è l’atteggiamento che dobbiamo conservare anche davanti alle sventure della vita senza indulgere nel vittimismo. L’austerità è rivolta al distacco dalle vicissitudini esterne, l’introspezione è il tempo che dobbiamo dedicare alla nostra autoconoscenza e all’autoanalisi.

La devozione al Signore Supremo è riferita alla devozione che deve essere rivolta all’interno e non ostentata con vuoti rituali. Ma la cosa più interessante è notare come i precetti siano strettamente correlati alle prescrizioni opposte di cui sono complementari. Infatti, entrambi sono necessari per quelli che percorrono i sentieri spirituali.

Non esiste strada più sicura per arrivare al Divino, anche se il cammino è infinito. Questo percorso fu quello che venne indicato dall’antico saggio Patanjali, e ancora oggi viene considerato come il primo dei due stadi del sentiero spirituale. Dobbiamo perfezionare prima di tutto questo primo percorso se vogliamo avanzare verso livelli più alti.

Buona erranza
Sharatan

lunedì 23 novembre 2015

Aurora e crepuscolo



“All’alba del Giorno di Brahma tutta la creazione,
immanifestata, emerge dal suo immanifesto stato:
al crepuscolo dell’incipiente Notte di Brahma,
tutta la creazione sprofonda nuovamente
nel suo stato immanifesto.”
(Bhagavad Gita, 8,18)

In molte culture arcaiche si tramanda che il tempo cosmico viene scandito dal susseguirsi di grandi età con cui l’universo si rinnova periodicamente. La versione più complessa e articolata dei cicli periodici delle ricreazioni e dissoluzioni perenni dell’universo è narrata nell’Atharva Veda. Ma esiste anche una versione simile nella mitologia germanica dove si racconta della distruzione finale, Ragnarǫk, da cui sorgerà una nuova creazione.

La dottrina indiana divide il tempo cosmico in 4 cicli detti yuga ossia età, e afferma che ogni età è preceduta da un’aurora e seguita da un crepuscolo che fanno parte di quell’età. Un ciclo completo è un mahayuga ed è composto da 4 yuga cioè da 4 età di durata diversa poiché la prima età è sempre la più lunga mentre le età susseguenti sono, progressivamente, sempre più corte.

Yogananda dice che gli yuga sono quattro, perché il numero 4 possiede una profonda risonanza simbolica con la progressione della relatività dell’esistente. In effetti, nelle dottrine indiane vengono citati i 4 stadi della vita e anche i guna che vengono indicati come 3, per Yogananda, in realtà sono 4 perché rajas contiene la sottocategoria sattwa-rajas. Ogni ciclo cosmico inizia con la prima età ossia il Krita-yuga o Satya-yuga che dura per 4.000 anni a cui sommiamo 400 anni di aurora e 400 anni di crepuscolo.

Subito dopo subentra la seconda età, Treta-yuga, che dura 3.000 anni a cui sommiamo 400 anni di aurora e 400 anni di crepuscolo. La terza epoca è Dwapara-yuga che dura 2.000 anni a cui sommiamo 400 anni di aurora e 400 anni di crepuscolo. La quarta e ultima età è Kali-yuga che dura solo 1.000 anni a cui sommiamo 400 anni di aurora e 400 anni di crepuscolo. Queste 4 età formano un ciclo completo detto Mahayuga che comprende nascita, splendore, logoramento e distruzione.

I 12.000 anni di Mahayuga formano un “anno divino” di Brahma che dura 360 anni perciò il tempo che passa tra un Giorno e una Notte di Brahma dura 4.320.000 anni che formano un ciclo cosmico. E mille mahayuga formano un kalpa e 14 kalpa formano un Manvantara perciò un kalpa equivale ad un Giorno di Brahma e un altro kalpa equivale ad una Notte di Brahma. Si insegna che 100 giorni di Brahma formano la lunghezza della sua vita, ma la durata di un tempo incommensurabile non esaurisce la durata della vita del cosmo. Nelle dottrine indiane si insegna che, neppure gli dei vivono per sempre perciò, dopo la fine del nostro Brahmanda Solare, nascerà un nuovo Sole.

La cosa interessante è che nei 4 yuga prevale la mentalità delle 4 caste in cui vengono divisi gli uomini. Nell’età oscura, Kali, prevale la mentalità del tipo Shudra cioè il contadino. Queste persone si identificano solo con il corpo fisico, mentalmente sono orientate solo verso i problemi e non verso le soluzioni. Essi affrontano le situazioni solo con la forza dei loro muscoli, con l’istinto o con le loro emozioni, e se non la spuntano cadono in preda al vittimismo. Per loro non esiste altro punto di vista che ciò che sentono e non sanno mettersi nei panni degli altri perciò hanno un’intelligenza molto limitata.

Dwapara è l’età dell’energia in cui viviamo attualmente in cui è preponderante il Vaishya cioè il mercante. In questa età non vediamo affermarsi ancora la consapevolezza, ma si afferma l’intelligenza che viene usata per avere un guadagno personale. Lo scopo di questo tipo umano è quello di trovare il massimo vantaggio perciò è molto più facile che questa età possa far sviluppare l’astuzia piuttosto che l’intelligenza che conduce alla saggezza. Le epoche Qwapara favoriscono le persone che hanno la mente da commercianti e che cercano di comprare e vendere tutto a tutti.

Invece Treta vede affermarsi il potere della mente perciò predomina la mente del Kshatriya cioè il guerriero. Costui cerca di espandere la sua libertà perché non tollera la limitatezza dell’ego perciò cerca di includere nella sua felicità il maggior numero di persone. La sua mente vuole orizzonti sempre più ampi, perciò più che a dominare pensa a servire gli altri e vuole sacrificarsi per il bene altrui. Vede il bene e l’ingiusto come dei principi astratti che non vengono collegati al suo tornaconto personale perciò ha la capacità di vivere seguendo i suoi principi. L’esempio migliore è il leader che mette la vita al servizio del bene comune, e la cui gioia maggiore è servire il bene degli altri.

L’età Satya o Krita è un’epoca spirituale in cui prevale la coscienza del tipo Brahmin cioè il bramano. Quando l’evoluzione umana ha raggiunto questo livello, l’ego vuol essere guidato solo dalla supercoscienza. E quanto più in alto si sale tanto più intensamente si potranno raggiungere stati di coscienza che diventano livelli sempre più elevati di evoluzione. In questa età cresce il desiderio di mettersi in contatto con la Divinità perciò si espande una consapevolezza sempre maggiore. Nella mente del bramano nasce la percezione e il rispetto per ogni forma di vita, perciò egli vuole aiutare l’umanità e comprende che l’unica cosa che conta è l’unione con Dio, infatti siamo nello stadio del maestro spirituale.

Le creazioni cosmiche si susseguono in modo ciclico, perciò ogni ciclo, mahayuga, è formato sempre dal ripetersi di 4 età cioè da krita, treta, dwapara e kali che finiscono sempre con un Pralaya che è una totale dissoluzione. Durante questa dissoluzione totale, le forme regrediscono ritornando nella massa amorfa delle origini. Questo avviene alla fine di ogni kalpa con il Mahapralaya. Una fase di Pralaya chiude i cicli del cosmo e anche i cicli della storia terrestre, perché le varie età si ripetono sempre in questo medesimo ordine.

E, alla fine del millesimo ciclo, verrà un Mahapralaya che vedrà una completa dissoluzione del nostro Brahmanda solare: e, in seguito, nascerà un nuovo sole. Nella Bhagavad Gita, Krishna insegna ad Arjuna che esistono due tipi di pralaya: quello parziale e quello totale. Quello totale avviene con il totale ritiro di tutta la creazione manifesta alla fine del Giorno di Brahma seguito da un’incalcolabile Notte di Brahma. Invece un pralaya parziale avviene quando la presenza di Dio si ritira dalla vita umana, perciò arriva la rovina che è la mancanza dell’ispirazione di Dio.

Yogananda dice che vediamo un Pralaya totale quando osserviamo l’affievolirsi della manifestazione consapevole di Dio che porta la confusione e la decadenza graduale dell’uomo. Il Pralaya totale è una totale scomparsa di Dio perché l’uomo non fa nulla per realizzarlo in se stesso e all’esterno. Quando vediamo un Pralaya parziale sappiamo che, più di ogni altra cosa gli uomini hanno bisogno di Dio, ma il parziale ritirarsi di Dio dalla creazione manifesta, produce una riduzione del potere magnetico di Dio con cui gli uomini vengono attratti verso l’illuminazione.

Se non esistesse questa forza che ci attira verso l’alto, ci resterebbero ben poche speranze, dice Yogananda. Ma accade che, in alcune età cosmiche predominano alcuni guna rispetto ad altri. Infatti, in alcune età prevale il sattwa guna cioè la qualità elevante, mentre in altre età spicca il rajoguna cioè la qualità attivante. In altre età, invece, predomina tamaguna cioè predomina la qualità oscurante, e quando sattwaguna si ritira oppure viene oscurato, il genere umano cade in rovina.

Secondo i calcoli di Swami Sri Yukteswar, nel 700 a.C. la Terra era entrata in un lungo ciclo discendente cioè nell’epoca oscura del kali-yuga che seguiva un’epoca di relativa illuminazione. Da allora, la maggior parte dell’umanità ha smarrito molto del suo potere spirituale, della sua chiarezza mentale e della precedente capacità di comprensione che aveva in passato. Satya-yuga era l’iniziale epoca d’oro della saggezza, è il tempo dello splendore della comprensione umana che si è trasformata nell’epoca del discernimento, Treta-yuga.

Da essa siamo discesi nell’età dell’energia, Dwapara-yuga in cui siamo attualmente, e che ci vedrà discendere ancora più fino all’età più bassa, Kali-yuga, in cui la comprensione dell’uomo si sarà fissata sul pensiero che solo la materia è reale e sostanziale. Yogananda dice che, dal tempo in cui fu scritta la Bhagavad Gita, il ciclo sta nuovamente risalendo e dal 18° secolo siamo entrati nel Dwapara-yuga ascendente. Infatti, negli ultimi 3 secoli, l’uomo è riuscito a capire che la materia è una vibrazione di energia perciò l’umanità ha iniziato a capire che l’energia è l’elemento essenziale per il funzionamento di ogni cosa.

La dottrina tradizionale insegna che, durante il Satya-yuga il Dharma possiede 4 gambe, durante il Treta-yuga possiede 3 gambe, durante il Dwapara sta 2 gambe, invece durante il Kali-yuga si regge su una sola gamba. Durante il Kali-yuga, il dharma riesce a stare in piedi in modo molto precario perciò l’uomo ha meno energia e riesce a godere in modo relativo dei piaceri. Al prosciugamento d’energia segue il precoce invecchiamento, la graduale perdita di chiarezza mentale, il costante aumento dell’egoismo, della cupidigia e dell’autoindulgenza che sono malattie dell’ego.

Durante il Kali-yuga per l’uomo è difficile capire che ogni stato di coscienza contiene anche il suo opposto, perciò non sa capire che la gioia non dura e che, nel dolore, sono contenuti i semi della gioia e della felicità. Il Mahabharata conferma che l’età del declino vede una diminuzione della durata della vita, un rilassamento morale e il declino dell’intelligenza e della consapevolezza umana. La decadenza è sempre una decrescita biologica, intellettiva, sociale, etica, spirituale e così via, perché tutte le età finiscono sempre con periodi di grande buio.

E allora vediamo i tempi in cui gli uomini hanno solo una relativa illuminazione spirituale, le epoche in cui tutti sono impegnati solo a ricercare i loro interessi perciò prevale il buio e l’odio, la violenza e la guerra. Infatti i Veda furono scritti quando i rishi videro che stavano arrivando i tempi oscuri in cui gli uomini non avrebbero più avuto più una memoria capace di ricordare i loro sacri insegnamenti. Per gli antichi indiani, l’invenzione della scrittura fu il segno dell’involuzione della coscienza dell’uomo che perdeva l’illuminazione e la memoria.

I maestri indiani dicevano che esistevano 4 livelli di comprensione dei Veda perciò chi possiede maggiore elevazione spirituale raggiunge il Chatturveda cioè la comprensione di 4 Veda. Alcuni raggiungono il Triveda cioè la comprensione dei 3 Veda, altri quella del Dubey ossia quella dei 2 Veda. Il livello di comprensione di un solo Veda che è quello che prevale nella mente moderna che legge e non comprende, perché la comprensione spirituale si è completamente ottenebrata.

I Veda non si comprendono perché le parole hanno cambiato il loro significato originario, e anche perché oggi gli uomini sono illuminati in modo relativo. Ma, dal ciclo perenne di creazione, distruzione e ricreazione si può sfuggire solo con un atto di libertà spirituale che equivale a diventare consapevoli di questa enorme illusione cosmica. Il buddismo mette in relazione i grandi cicli cosmici con una ruota di 12 raggi che chiamano kala chakra. Le fonti pali insegnano che 100.000 kalpa cosmici sono collegati con il cammino evolutivo dei Boddhisattva dei cosmi.

La decadenza dell'umanità si vedeva fin dall’età in cui visse il primo Buddha cioè Vipassi, vissuto 91 kalpa or sono, il quale vide che la vita umana durava 80.000 anni. Al tempo del secondo Buddha, Sikhi, che visse 31 kalpa or sono, la vita umana si era già ridotta a 70.000 anni. Al tempo del settimo Buddha Gotama, la vita umana era diventata solo di 100 anni perciò si era ridotta al suo limite estremo. Per questo Gotama insegnò che l’unico modo per fuggire alla ruota delle morti e delle rinascite era entrare nel Nirvana.

Buona erranza
Sharatan

venerdì 20 novembre 2015

L'alimento degli dei



“Sappiamo che l’amore degli uomini
è per così dire l’alimento degli dei.”
(Rudolf Steiner)

All’epoca di Atlantide l’uomo si sentiva ancora parte del mondo spirituale ma, dopo la sua distruzione, tutto è cambiato. Qualcosa è andato perduto perché è avvenuto il rischiaramento della coscienza umana, che ha causato l’oscuramento della coscienza della divinità. Durante il periodo atlantico l’uomo era vissuto insieme a entità divino-spirituali, perciò era consapevole di far parte del mondo divino. Ma quando l’uomo fu in grado di vedere chiaramente nella materia divenne incapace di vedere gli dei. Le entità che si nutrivano dell’amore che l’uomo sviluppa sulla Terra - che è il pianeta in cui s’impara ad amare - non riuscirono più a partecipare alla vita umana perciò non ebbero più quell’amore.

Steiner dice che gli dei s’immergono nell’umanità per sentire il calore dell’amore, perciò agli dei sentono che qualcosa gli manca quando gli uomini non sviluppano più l’amore. Più amore accumuliamo sulla Terra e tanto più nutrimento ricevono gli dei. Se abbiamo meno amore essi sentono più fame perché ci sarà meno cibo da offrire agli dei. L’offerta che gli uomini fanno agli dei non è l’amore che essi sanno dare e diffondere. La comunione tra uomini e dei era raggiunta all’apice nei tempi primordiali, quando sprofondò il continente di Atlantide. Sapendo queste cose, comprendiamo perché alcune divinità di Atlantide iniziarono a soffrire per non riuscire a ritrovare la via del contatto con gli uomini.

Sappiamo che avvenne una migrazione per cercare scampo dal disastro, e sappiamo anche che durante la migrazione la coscienza di quegli uomini iniziò a modificarsi. Essi si mischiavano con altri popoli indigeni, perciò smarrivano l’antica chiaroveggenza che avevano posseduto in passato. Anche se restava ancora qualcuno che conservava il ricordo del legame con il mondo dello spirito, perlopiù, il ricordo si perse. Gli uomini stavano scendendo sempre più nel piano fisico e si calavano nella materia, perciò gli dei non potevano più entrare in contatto con loro. Alcune entità non potevano scendere fino agli uomini, perciò restò un contatto solo con quelli che andavano incontro agli dei, elevandosi fino a loro.

Ai tempi di Atlantide, gli uomini sapevano che, nel sonno, essi uscivano dal corpo fisico e da quello eterico per salire fino al mondo spirituale. E si sapeva che la stessa cosa accadeva dopo la loro morte, perciò il regno degli dei era ancora conosciuto. Si sentiva che, se il mondo divino restava chiuso si era stati puniti, e che quella pena veniva inflitta per essere restati troppo uniti al mondo materiale. Si iniziò a credere che se non si amava la materia più di ciò che è non materiale, dopo la morte, si potesse entrare subito nel mondo degli dei.

Ma, mentre si diventava più adatti alla vita terrestre si diveniva anche più incapaci di percepire lo spirito. Il progresso e l’adattamento permettevano agli uomini di entrare sempre più nel mondo materiale, ma questo comportò l’abbandono progressivo del ricordo dello spirito, dice Steiner. I misteri furono coltivati per la forte volontà di ricostruire il perduto legame con il mondo divino. Ma, le popolazioni d’Europa e quelle d’Asia fecero un percorso diverso, perché in Europa si iniziò a sviluppare sempre più la coscienza del valore divino della persona umana e una forte coscienza della libertà.

Una forte coscienza del valore dell’individualità è la caratteristica più spiccata dei popoli che popolarono l’Italia e la Grecia. In particolare, secondo Steiner, gli etruschi furono gli eredi dei popoli che erano dotati di un maggiore senso di libertà su cui fondarono la loro organizzazione statale. Invece, negli uomini che erano migrati verso l’Asia, si sviluppò una concezione derivata dal residuo del ricordo del rapporto tra l’uomo e gli dei. Quei popoli svilupparono il “senso dell’io sono,” poiché essi sentivano che l’io era il centro eterno dell’essere che è derivato direttamente dal mondo spirituale.

Essi sapevano che tutte le loro più sacre figure del passato ormai erano solo un ricordo, ma che la loro forza si fondeva dentro il sacro centro interiore che era rimasto all’interno dell’uomo. Essi non avevano la certezza intellettuale di questo, ma avevano un’intima e forte convinzione della loro origine divina. La coscienza della loro origine divina era ancora vivente e sgorgava dall’intimo della loro anima. Essi credevano che, sebbene l’anima avesse dimenticato la sua origine divina, questa coscienza si può ritrovare coltivando quello che è rimasto nell’intimo dell’anima.

Credevano che si potesse ritrovare la via che porta al divino guardando al nucleo più profondo che l’anima conserva al suo interno. In realtà si venne a formare l’immagine di un dio che non ha figura, perché dio non si deve cercare all’esterno ma si deve cercare solo nel sacrario del proprio essere. E questa è un’idea molto antica nella storia perciò non stupisce se, nel progredire dell’umanità, la stessa idea si ritrovi anche più tardi trasforma nel comandamento che impone: Tu non farai l’immagine del tuo Dio. Nei tempi antichi si era fatta l’esperienza di un dio che aveva un’immagine, ma poi quella immagine si era smarrita perciò il dio si era nascosto fino a scomparire dallo sguardo. Perciò ci si persuase che si doveva fare un enorme sforzo per trarre fuori il dio che è nascosto all’interno dell’io.

Ma, all’interno dell’io, la divinità non si ancora configurata perciò era necessario portare dio nella sfera del pensiero, e afferrare l’idea divina e la forza del dio. Ma, all’inizio, non potevano farlo, perché dopo la fine di Atlantide, il dolore della perdita era ancora troppo forte. Il ricordo di ciò che si era perduto era ancora recente, e il ricordo del paradiso da cui eravamo stati cacciati dava un dolore intenso. Dalla nostalgia per la gioia perduta si sviluppò la prima civiltà che mostra una dolorosa nostalgia per il mondo spirituale.

La civiltà indiana si appoggiava a un gruppo di 7 sacri iniziati a cui chiedeva la via per ritrovare il mondo divino, e su questo si fondò la civiltà pre-vedica. Erano l’ultima risonanza e la massima reverenza per quel mondo smarrito, perciò lo scrissero nei Veda. A quei tempi, gli uomini andavano ad ascoltare gli insegnamenti dei sacri rishi e gli chiedevano la via per ritrovare ciò che avevano perduto. Volevano fuggire dal mondo sensibile in cui erano stati gettati e abbandonati. Per loro il mondo fisico come illusione e inganno perciò dicevano che il mondo è maya.

L’unica cosa che aveva valore per loro era fuggire verso il mondo che è oltre il livello del piano fisico. Sentendo disprezzo per il mondo e per la vanità del piano fisico, essi avevano necessità di fuggire dal mondo per ritrovare lo spirito. Tutto questo fu pagato con la perdita del senso della loro personalità perché volevano una via per ritornare a fondersi e annullarsi nella Divinità. La nostalgia per la divinità fece preferire l’annullamento della persona piuttosto che correre il rischio di perdere la fusione divina.

Questa civiltà ebbe un grande disagio nel mondo terreno, perciò essi cercarono di eliminare ogni legame con la realtà terrena. Nella civiltà paleo-iranica o pre-zarathustriana troviamo la prima fase della conquista del mondo fisico. I più antichi abitanti della Persia discendevano dai colonizzatori atlantidi, ma non sentivano più il piano fisico come un mondo estraneo perciò si sentivano stimolati a vincere le ostilità della realtà materiale.

Lo spirito si poteva coltivare anche sulla Terra, perciò cercarono di redimere la materia per mezzo di Ormazd. Iniziarono a lavorare la materia fisica perché il mondo non era solo maya, ma era anche una realtà che si poteva apprezzare. La civiltà caldaica e quella egizia guardavano la sfera celeste e studiavano i movimenti e le posizioni degli astri perché credevano che mostrassero la volontà degli dei. I caldei credevano che gli astri fosse la scrittura degli dei, perché anche ciò che appare all’esterno è una manifestazione degli dei.

Questo progresso non è insignificante perché la materia inizia a essere vista come una manifestazione dello spirito. La civiltà egizia misurò la terra per dominarla, perché stimava sia le conquiste materiali che le conquiste spirituali. Gli egizi avevano dei saggi che conservavano ancora il ricordo dell’antico legame con gli dei che venne unita alla conoscenza della scrittura divina nello spazio cosmico dei caldei: tra costoro si educò Mosé che guidò il popolo eletto dell’Antico Testamento.

Nell’Antico Testamento viene narrata la cacciata dell’uomo dal Paradiso, e tutte le conseguenze di quella sventura cosmica. Intanto l’io si andava maturando sebbene restasse la sensazione tragica e il rimpianto della caduta dalla condizione divina. Steiner dice che l’io era necessario affinché l’uomo avesse il luogo dove potesse accogliere la luce del Cristo. E il primo tratto di questo passo è la dichiarazione di Jehova che, alla richiesta di Mosè che chiedeva il suo nome, rispose: “Dì al tuo popolo: io sono l’Io-sono.”

Non è casuale che il Cristo nascesse nel luogo d’incontro tra i popoli che disprezzavano il mondo visto come illusione e quelli che stimavano la materia e avevano un forte senso della persona. Se l’ideale egizio-caldaico era sentire Dio nell’intimo, a esso si unì il gruppo che lo doveva afferrare in modo astratto e privo di ogni contenuto materiale. E non si trattava solo di afferrare Dio con l’anima, ma di farlo penetrare in tutto l’essere e di sentirlo come spontaneo e naturale.

Buona erranza
Sharatan


martedì 17 novembre 2015

Il ritorno delle antiche civiltà



“La storia si ripete incessantemente.”
(Proverbio arabo)

Qualcuno può chiedersi a cosa servono degli insegnamenti spirituali così lontani dalla realtà. A costoro si deve rispondere che servono e che essi non sono affatto astratti o superati. Gli insegnamenti spirituali possono dirci ancora molte cose che non sappiamo e possono indicarci delle realtà che dobbiamo realizzare. Steiner dice che l’indagine spirituale ci indica un’altissima mèta che trascende l’orizzonte dell’esistenza comune, perciò tratta temi che sono strettamente correlati con i nostri tempi odierni.

Questo accade soprattutto se trattiamo dei periodi storici che risalgono a migliaia e migliaia di anni. In apparenza può sembrare che l'indagine ci possa allontanare dalla realtà quotidiana ma, in realtà, ci si dovrebbe meravigliare di quanto la comprensione di epoche così remote ci possa illuminare e far comprendere il tempo attuale. Potremmo chiederci se le anime che vissero nelle epoche remote abbiano qualcosa in comune con noi, e la risposta è che quelle anime sono le stesse che oggi vivono in noi.

Dobbiamo pensare che le anime che vissero in tempi che stiamo indagando, oggi rivivono nei nostri corpi e nell’epoca attuale. Se crediamo alla reincarnazione crediamo che le esperienze vissute nelle vite passate ritornano nelle esistenze future sotto forma di facoltà, capacità, talenti o predisposizioni congenite. Molto di quello che viviamo ha una concatenazione con i fatti della nostra epoca, rivela Steiner.

Per capire cosa siamo diventati dobbiamo risalire al passato primordiale dell’umanità quando la terra era molto diversa da quella di oggi e le nostre anime erano racchiuse in corpi molto diversi da quelli che abbiamo oggi. In tempi molto antichi, tra le Americhe e l’Europa, esisteva il continente di Atlantide che fu sommerso dopo un'enorme cataclisma che fu seguito dall'inondazione che lo fece sprofondare nell’Oceano che ha preso il suo nome.

Le nostre anime vissero negli uomini di Atlantide che fuggirono verso le terre occidentali. La distruzione della loro terra li spinse a migrare da occidente verso oriente, perciò essi attraversarono l’Irlanda, la Scozia, l’Olanda, la Francia e si diffusero in Europa e la colonizzarono, poi viaggiarono verso l’Asia e popolarono anche la parte settentrionale dell’Africa. Ma nei paesi che occupavano trovarono dei popoli precedenti che avevano anche loro una loro civiltà che era preesistente, e che fu vista come straniera.

In Irlanda, ad esempio, ancora prima dell'ondata migratoria degli Atlantidi, viveva una popolazione di elevata civiltà che poteva essere considerata come la più evoluta civiltà della terra. Infatti quelle popolazioni erano guidate da somme entità spirituali che li avevano condotti ad un livello di sviluppo altissimo. La migrazione dei popoli di Atlantide raggiunse l’India dove fondarono delle colonie che civilizzarono i popoli indigeni.

In India viveva una popolazione precedente che possedeva una civiltà su cui i civilizzatori fondarono la prima civiltà postatlantica che non è citata nei documenti storici, perché la storia racconta fatti che avvennero molti millenni dopo. Nelle sacre scritture conosciute come i Veda è contenuto solo un debole riflesso dell’antichissima civiltà indiana che era entrata in fase declinante. Nei Veda è scritto ciò che i 7 sacri rishi trasmettevano solo in forma orale, ma vollero che fosse scritto quando seppero che stavano decadendo.

Al 1° periodo della civiltà postatlantica seguì il 2° periodo della civiltà persiana che culmina con la dottrina di Zarathustra che è il suo apice. In seguito, sotto l’influsso dei colonizzatori provenienti dalla valle del Nilo, fiorì la civiltà che si riassume nei 4 nomi caldaico-egizio-assiro-babilonese che formano il 3° periodo della civiltà postatlantica dell'Asia Minore e dell’Africa settentrionale, che ebbe il culmine nell’incredibile sapienza stellare dei Caldei da una parte, e nella sapienza misterica egizia dall’altra.

Il 4° periodo si sviluppò nell’Europa meridionale dove fiorì la civiltà greco-latina che esprime l’apice nei poemi di Omero, nella scultura classica, nelle tragedie di Eschilo e di Sofocle. La successiva fase romana inizia nel secolo 8° secolo a.C. e dura fino al 14°-15° secolo dopo la nascita di Cristo, precisamente fino al 1413. La civiltà greco-latina esprime il 5° periodo di civiltà in cui viviamo attualmente e, al nostro seguirà il 6° periodo, e anche un 7° periodo prima della spiritualizzazione della terra.

E, nel 7° periodo, risorgerà in un modo diverso e con maggior splendore, la civiltà indiana. Questo accadrà perché c'è una legge secondo la quale alcune forze misteriose agiscono attraverso le civiltà. Steiner rivela che esiste una connessione che lega le varie epoche tra loro. Ad esempio, il 1° periodo della civiltà indiana risorgerà nel 7° ma sarà diverso, perché verrà trasformato da quelle forze che agiscono nella storia.

In seguito a questa misteriosa connessione, vedremo che si ripeterà il 2° periodo della civiltà persiana durante il 6° periodo, e vedremo risorgere nuovamente la religione che venne insegnata da Zarathustra. Perciò vedremo che, nel 5° periodo cioè l'attuale, risorgerà il periodo egizio. In effetti, solo il 4° periodo che è quello centrale dei 7 periodi, non avrà alcuna epoca uguale, perciò sarà il solo che non si ripeterà.

Steiner dice che questa regola della ripetizione delle epoche causa il fatto che l’antica civiltà indiana si ripeterà nel 7° periodo che vivremo in futuro. Quindi risorgerà anche l’usanza indiana di suddividere l’umanità in caste di sacerdoti, guerrieri, commercianti e lavoratori. Ma l’usanza antica sarà diventata troppo lontana dalla mente evoluta che avremo. In passato, nessuno si sarebbe azzardato a contestare quell'usanza perché tutti sapevano che era stabilita da guide illuminate perciò era ritenuta una cosa giusta e naturale.

Le guide degli indiani antichi erano i sette sacri rishi che avevano ricevuto l’addestramento dai maestri divini che erano giunti con i popoli di Atlantide. Ma, nel 7° periodo ossia in futuro, le cose saranno molto diverse perciò avremo un raggruppamento che sarà basato su regole diverse da quelle antiche. Nell'India antica, questo avveniva per opera di una autorità esterna ma, in futuro, sarà esso sarà basato su caratteristiche oggettive degli individui.

In futuro avremo dei raggruppamenti dell'umanità che saranno basati sulle capacità e sulle caratteristiche degli individui, perciò lo Stato sarà organizzato in base alle capacità dei singoli così che il lavoro sarà svolto da chi sa farlo al meglio, fermo restando l’eguaglianza dei diritti per tutti. Steiner dice che le anime rivivono sempre le epoche che hanno vissuto in passato, perciò non ci stupisce di vedere il ritorno della civiltà egizia nell’epoca attuale.

E lo vediamo esaminando l’immagine della Madonna che porta in braccio il Bambino Gesù dove possiamo riconoscere l’immagine della dea Iside avvolta dal velo che nasconde il suo profondo mistero che regge in braccio suo figlio Horo. Vediamo che la dea ricompare nell’immagine della Madonna con il Bambino Gesù, perciò vediamo che la Madonna è “una reminiscenza” della dea Iside, e l'immagine rivela la relazione che esiste tra l’epoca presente e quella egizia.

Se studiamo il culto dei morti tra gli egizi vediamo che essi praticavano la mummificazione del corpo, e che mettevano nelle tombe gli oggetti che il defunto aveva amato e che gli erano appartenuti. L’usanza è diventata la caratteristica di quella civiltà, ma pochi sanno che venne usata per uno scopo ben preciso.

Fare una mummificazione del corpo non è la stessa cosa che bruciarlo o inumarlo, perché l’anima fa esperienze diverse e qualcosa cambia durante il periodo che ella vive tra la sua morte e la sua nuova nascita. L’anima riceve una forte impressione da questa pratica funeraria, perché continua ad avere un forte attaccamento con il suo corpo mummificato e con la vita terrena. E quel profondo legame si conserva anche nelle vite successive perciò l’anima resta molto legata alla terra.

La pratica non fu eseguita per caso, infatti gli egizi la usavano con lo scopo di creare l’attaccamento dell’anima per la vita terrena. E se non l’avessero usata, l’anima avrebbe smarrito ogni interesse per la vita terrena, perciò fu introdotta e usata perché le circostanze imponevano che si creasse un legame tra l’anima e la vita terrena. La mummificazione, dice Steiner, venne usata affinché si affermasse la tendenza a cercare l’esperienza spirituale vivendo nel mondo fisico.

Buona erranza
Sharatan

giovedì 12 novembre 2015

Il mito di Osiride



“L’uomo è argilla e paglia
e Dio è il suo modellatore.”
(Massima di Amenemore)

La prima versione del mito di Osiride è contenuta nel “Testo delle Piramidi” che è l’opera più completa che ci sia pervenuta sul culto della morte presso gli antichi egizi. Ma, la versione più completa del mito è quella che ci viene tramandata da Plutarco. Osiride è figlio di Geb, dio della Terra, e di Nut, dea del cielo, e viene presentato come un sovrano giusto e magnanimo che regna con la sorella-sposa Iside, che diffonde la civiltà tra gli uomini insegnando l’agricoltura, le scienze e le arti. Ma questa coppia di sovrani virtuosi e felici desta l’invidia di Set (o Tifone), il fratello geloso di Osiride e Iside, che trama di uccidere il fratello.

Si racconta che Set trama un inganno durante una festa e induce Osiride a entrare in una cassa che sigilla con il piombo fuso e che viene gettata nel Nilo. In un’altra versione, si dice che Set convincere la moglie Neftis che è sorella di Iside, a giacere con Osiride che viene tratto in inganno dalla grande somiglianza delle sorelle. E mentre Osiride giace nel sonno dell’appagamento dei sensi, Set ne approfitta e lo uccide. Iside è disperata e parte alla ricerca del corpo di Osiride, trova il cadavere e lo nasconde lontano da Set.

Set è furioso e parte alla ricerca del corpo di Osiride, lo ritrova e lo smembra in 14 parti che disperde ovunque affinché non vengano ritrovate da Iside. Iside si mette nuovamente alla ricerca, si imbarca su una nave di papiro, e recupera tutte le membra dello suo sposo mettendole in un'urna preziosa. E, in ogni luogo in cui ha ritrovato una parte dell'amato, fa costruire un tempio che dedica alla sua memoria, ma non riesce a ritrovare il suo pene che è stato divorato dai pesci.

Ma quando ritrova la testa dell'amato dentro una selva di fiori di loto, Iside non regge al dolore e scoppia in un pianto disperato. E pianse così a lungo e disperatamente che gli occhi del morto si aprono e la fissarono con tanto amore che Iside restò incinta del figlio Horo. Horo cresce ad Abido e quando fu grande abbastanza entrò in guerra contro lo zio Set che aveva usurpato il trono del padre. Set viene sconfitto ma Iside è misericordiosa e non vuole che venga ucciso, perciò taglia le corde che lo tengono prigioniero e lo fa scappare.

Iside trionfa insieme al figlio Horo, riconquista il regno e convoca il consiglio degli dei a Tebe. Fa portare davanti al consiglio divino il sarcofago in cui è racchiuso Osiride. Gli dei lo fanno resuscitare e Osiride diventa immortale insieme a Iside: questa è la versione di Plutarco. Boris de Rachewiltz dice che, il mito di Osiride mostra l’avventura dell’uomo così come viene testimoniata dai misteri iniziatici degli antichi egizi.

Il rituale funerario corrisponde all’iniziazione dei misteri che assimila il dio che viene ucciso all’iniziando, perciò Osiride diventa il prototipo dell’individuo che ha vinto la morte e che è riuscito a conquistare l’immortalità. I candidati all’immortalità erano gli iniziati ai misteri di Osiride. La finalità dei misteri di Osiride era quella di liberare l’anima dalla schiavitù della trasmigrazione, poiché consentivano di acquisire un’individualità che non fosse più soggetta alle modificazioni. Questa è la condizione divina che si può conquistare, se è questa la via che si sceglie di percorrere.

Diodoro Siculo racconta che gli egiziani, prima di seppellire la mummia, la sottoponevano a un giudizio che imitava quello che l’anima avrebbe affrontato davanti al tribunale di Osiride. L’esito, naturalmente, era sempre favorevole al defunto perché il rituale era ispirato alla magia imitativa con l'intento di aiutarlo ad avere il verdetto favorevole di Osiride. Anche la scelta di imbalsamare i corpi voleva evitare la corruttibilità corporea che gli avrebbe impedito di essere immortale.

L’antico egizio aveva il terrore di non poter evitare la putrefazione del suo corpo, dice de Rachewiltz. E, senza dubbio, lo smembramento di Osiride rievoca un precedente e passato uso di smembrare i cadaveri dei defunti. La ricomposizione del corpo e lo sviluppo del culto di Osiride che si conclude con la resurrezione finale del dio, certamente influenzarono le successive pratiche funerarie degli antichi egizi.

Apuleio nell’Asino d’oro cioè il Libro delle Metamorfosi, fa subire allo sventurato protagonista, Lucio, un’iniziazione ai misteri della dea Iside sposa del divino Osiride. Come spesso accade, è Steiner che offre una completa e dettagliata interpretazione misterico-esoterica del mito. Steiner afferma che Osiride unisce in sé una simbologia che, precedentemente, era riferita a varie altre divinità. Molte di queste prerogative che gli vengono attribuite erano riferite al dio Ra.

Ma la devozione a Osiride era molto più diffusa perché il dio mostrava che era possibile riscattarsi, perciò mostrava un ideale più “democratico” che riduceva il potere della casta sacerdotale. Il “Libro dei Morti” primariamente, rivela le concezioni egizie sui morti e sul tema della morte. E, in effetti, non è casuale che il mito fosse inserito nel “Libro dei Morti” che è la massima espressione delle idee degli egizi su questo tema.

Qualunque fossero queste idee, è innegabile che il testo rivela una sapienza sacerdotale che vede in Osiride qualcosa che appartiene a ogni uomo. Essi credono che, dopo la morte, la parte immortale dell’uomo ritorna verso “l’eterno primordiale” e compare davanti al dio Osiride che è affiancato da 42 giudici davanti ai quali affronta un giudizio divino. Dopo che ha riconosciuto le sue colpe, si riconcilia con il tribunale divino, e l’anima purificata è accolta “in seno all’ordinamento cosmico” e assume il nome Osiride che viene aggiunto al nome che aveva sulla terra.

L’uomo diventa un Essere Osiride, perché il livello di Osiride - all’interno dell’ordinamento cosmico - è il grado più perfetto dello sviluppo umano. Tra l’uomo e il dio esiste solo una differenza di grado, perciò Osiride è l’entità cosmica che corrisponde all’Uno che si trova suddiviso tra tutti gli esseri umani. Ogni uomo è un Osiride, però è anche un’entità particolare. Da questo emerge con evidenza, dice Steiner, che l’uomo è un essere in via di evoluzione perciò il dio nascosto si rivelerà solo al termine dell’evoluzione umana.

Per l’uomo, l’obiettivo più elevato è quello di aspirare a essere Osiride. Per questo motivo, fin dalla vita terrena, egli deve comportarsi come Osiride. Osiride è il modello perfetto per chi voleva diventare un essere perfetto e immortale. Visto così questo mito appare assai profondo, perché insegna che l’anima umana è - in un primo tempo - mortale, ma la parte mortale è destinata a partorire l’eterno. Nella morte di Osiride per mano di Set vediamo, simbolicamente, come la parte inferiore (Set) può uccidere quella superiore (Osiride).

Iside è l'amore che parte alla ricerca dell'amato ucciso e smembrato, è l’amore che cura e risana l’anima che diverrà eterna. L’uomo che aspira a vivere la forma più elevata di esistenza deve ripetere in se stesso cioè nel suo microcosmo “il processo universale macrocosmico che si riassume nel nome di Osiride.” Questo è il significato più profondo del mito perciò nei templi egizi avveniva questa trasformazione che ripete il perenne divenire del cosmo con cui il dio nascosto diventava il dio che si manifesta.

Dio non si manifesta perché la natura elevata è sottomessa alla natura inferiore dell’uomo. La parte superiore e immortale deve combattere e vincere la natura inferiore ed effimera dell'uomo: così va intesa l’iniziazione degli egizi. L’iniziato veniva essere preparato per poter superare il processo di purificazione che è necessario a farlo elevare al livello di Osiride. La resurrezione corrispondeva al processo che gli permetteva di diventare immortale e di sedere alla destra di Osiride.

Buona erranza
Sharatan

domenica 8 novembre 2015

I custodi del destino



“La sorte è l’alveo nel quale fluisce il tempo d’un uomo:
difficile vederne chiaramente il profilo.”
(Elémire Zolla)

Secondo Elémire Zolla ci sono molte metafore per indicare il destino e la vita. Le più comuni sono quelle che rapportano la vita al corso di un fiume, alla colata di lava di un vulcano, ad un vortice marino oppure ad una macchina da costruire e da far funzionare. La vita, per chi ha avuto una buona sorte, dimostra che vale la pena di vivere, perché è tale la vita dalla sorte chiara e sicura. Soprattutto la vita dei grandi uomini e dei santi ci appare come tale cioè come una vita che è stata impiegata per assolvere ad un destino di cui ogni tappa e ogni minimo episodio ci appare come significativo.

Una vita piena di significato è quella in cui gli avvenimenti si dispongono in un ordine che mostra il significato del destino che si deve assolvere. Le metafore che indicano il destino sono tratte dalla filatura e dalla tessitura dei tappeti, in cui la trama appare e si mostra solo quando il lavoro del tessitore si è concluso. La tradizione ci mostra molti esempi di questo tipo, infatti Plutarco elenca una serie di eventi che prepararono l’assassinio di Cesare. Egli disse che non fu un caso se Cesare venne ucciso nello stesso giorno in cui fu eretta la statua di Pompeo, e se fu ucciso nell’edificio che era stato costruito proprio per ordine di Pompeo.

Anche Giuseppe Flavio, riguardo l’omicidio di Antigono, racconta che Giuda l’Esseno si disperò quando vide che Antigono entrava nel Tempio. Giuda gridò che per lui era meglio morire, perché la verità era morta da quando la sua profezia non si era avverata. Antigono era vivo malgrado lui aveva visto che avrebbe dovuto essere ucciso mentre era a Torre di Stratone che distava ben settanta miglia dal tempio. Subito dopo, si seppe che Antigono era stato assassinato nella rocca sotterranea che veniva chiamata Torre di Strabone cioè come l’omonima città. In questi racconti si vede come, nell’antichità, si credeva che il destino sia legato all’uomo come i fiori sono legati la loro radice, dice Zolla.

Gli Ewe del Togo credono che l’uomo possiede, oltre l’anima anche uno spirito che determina il carattere e il destino. Era stata la Madre Celeste che ha inviato quello spirito mentre l’uomo sta in attesa di incarnarsi, al fine di fargli realizzare un certo destino e con una certa benedizione. Si dice che l’uomo abbia il compito di ripetere ciò che aveva già compiuto in cielo, cioè dovesse avere lo stesso lavoro e la stessa famiglia. Essi credono che l’uomo avrebbe sofferto se non avesse ritrovato, fra tutte le sue moglie, la donna che era chiamata la “donna dell’aldilà.”

Nel Ghana si dice che la madre Celeste emana un “messaggio del destino” per l’anima che sta per incarnarsi, e le fa cadere in bocca una goccia dell’acqua della vita, in cui la Madre si rispecchia. La Madre Celeste avverte l’anima che è pronta a nascere, che durante la vita dovrà perfezionare il suo spirito vitale, altrimenti dovrà tornare a reincarnarsi. Molti miti dell’Africa, dell’Australia e dell’Asia mostrano le stesse idee espresse da Platone nel “Menone” in cui si dice che, se l’anima deve rinascere tanto vale mantenerla pura. Ma, se l’uomo che non crede più a queste mitologie, si chiede Zolla, come può abbandonarsi con fiducia alla vita?

Anche gli antichi sapevano che, all’uomo serve un sostegno ideologico a cui potersi appoggiare per tollerare l’angoscia del vivere. Per questo motivo, anche nei misteri egizi e mitraici gli adepti dovevano gridare che l’adepto non era morto e che il cadavere era risorto. Vedere il disegno del destino, dice Zolla, conforta perché la vita insopportabile è quella che ha una forma che ci appare insensata. Invece la “buona vita è quella in cui gli incidenti sono del tutto pertinenti al carattere di chi li vive.” Le vicissitudini della vita sono espresse anche nel mito di Iside che deve affrontare il naufragio, la prigionia per mano dei ladroni e molte altre vicissitudini per ritrovare Osiride.

Nel mito di Iside, secondo Sinesio, si insegnava che la vita terrena non è altro che quel mito divino che si ripete continuamente nel mondo materiale. Il mito di Iside rivelava all’adepto che la vita è un percorso di ricerca, dice Zolla, perciò essa apparirà colma di una nuova luce. Vediamo che anche gli errori più rovinosi assumono un senso diverso e comprendiamo che, solo facendo quella strada piena di errori siamo giunti alla pace in cui siamo. I misteri di Iside insegnavano che esiste una guida invisibile che ci conduce lungo il cammino, e la guida poteva essere una madre ovvero la stessa dea Iside.

Secondo altri, la guida poteva essere un animale soccorritore ovvero un custode angelico oppure, come per i greci, un daimon che era insieme un genio e il destino. Per noi moderni non è facile credere che, l’uomo, oltre l’anima e lo spirito possiede anche un genio personale. La coscienza di questo fatto era molto diffusa in passato anche se le tribù d’Australiane e nelle isole andamanesi lo credono ancora. In seguito, questa idee, è restata solo nella mente degli sciamani che hanno la capacità di creare un’alleanza con gli animali. Il termine sciamano deriva dal manciù “shaman” che significa “coloro che sono invasati” e dal sanscrito “sramana” che significa “asceti.”

Nell’etimologia già si mostra che esiste un legame non solo tra l’ascesi e la fratellanza con gli animali, secondo Zolla, ma che esiste un legame anche tra la natura dell’anima dell’animale e la genialità umana. Aver raggiunto la genialità mostra che si sono superati i limiti dell’uomo comune perciò che si è raggiunto lo stato che consente di avere delle rivelazioni impenetrabili e misteriose. E si dimostra pure che il genio personale è inconfondibile e che, per gli sciamani, si esprime nel timbro e nella qualità dell’animale con cui l’uomo si sente più in sintonia e nutre più simpatia. E ci indica persino la forma di comunione più propizia alla manifestazione del proprio genio.

Si dice che gli animali dal fascino più robusto abbiano - a loro volta- un genio custode che alcuni collegano ad un’entità esterna che viene collegata al genio del luogo. Invece altri lo pensano collegano al genio della specie animale a cui l’animale appartiene, perciò si dice che solo la renna cui piace il cacciatore possa venire uccisa. Anche gli antichi popoli germanici dicevano che gli eroi avevano fede in un animale, infatti essi credevano che il soffio e il principio di estasi di Odino si mostrasse nel lupo. L’anima e la memoria più intima erano percepite sotto forma di corvo, e anche la mente più segreta era vista in forma animale.

Anche l’animale custode ovvero il genio che ci accompagna per tutta la vita che viene percepito dalla seconda vista era visto sotto forma di animale. Dell’uomo pronto e intuitivo si diceva che aveva un genio molto forte. E poi si distingueva tra il proprio genio personale e quello familiare che veniva tramandato dal padre e dal nonno insieme al nome, e la forma in cui esso appariva era quella della vergine valchiria. Spesso le figure del genio personale e dell’antenato totemico s’intrecciano nelle varie mitologie.

Invece, nell’America centrale, il genio era chiamato “nagual” cioè “spirito familiare,” ma gli europei che li cristianizzarono lo assimilarono nella figura dell’angelo custode. Gli spagnoli non compresero che il nagual era la figura di un essere tutore che era strettamente correlato con l’uomo che proteggeva al punto che, ciò che accadeva all’uno si ripercuoteva sull’altro. Il suo vero nome era “tonal” che significa calore, estate, sole perché la costellazione sotto cui si nasce è la propria costellazione cioè rappresenta il proprio destino.

La conoscenza del nagual, secondo Zolla, era trasmessa e garantita da una confraternita i cui adepti usavano le danze per propiziare le apparizioni dello spirito e che usavano una lingua segreta molto complicata e piena di metafore. In alcune immagini arcaiche dell’America centrale vediamo dei guerrieri che sono sovrastati dal loro animale custode che viene raffigurato sotto forma di giaguaro, di coccodrillo, di serpente o di uccello. Gli Inca avevano il loro custode, “fratello” o oracolo che raramente era un animale, e veniva infuso nell’amuleto che veniva messo accanto al cadavere.

Ma il genio personale non era sempre in forma animale, infatti gli sciamani d’America lo rappresentano come una fonte di potere che è perlopiù un uccello oppure un animale molto forte oppure il vento, l’acqua o una montagna dotata di un grande magnetismo cioè un luogo di potere. Poiché ogni cosa ha una forza vibratoria, allora essa può diventare una entità protettrice e può assumere la funzione di genio o di custode personale. Presso i Fox, tutte le forze divine possono avere la funzione di genio protettore, infatti lo possono essere sia il Signore del Cielo, le stelle, i morti che fanno scaturire le sorgenti, il grano che infonde l’energia del cibo, le tortore che sono la voce di Manitù, oppure i serpenti, i gufi, le volpi, i lupi e così via.

E non è neppure raro che il genio che si mostra come animale possa diventare un simulacro o un amuleto di legno, oppure un totem. Gli Australiani fanno degli oggetti sacri fatti di legno o di pietra chiamati ciuringa, in cui vengono incisi dei segni. Ognuno tiene nascosto il ciuringa che è stato inciso dal nonno per il nipote, che è consegnato al compimento della maggiore età e che viene presentato come l’animale da cui si proviene. Questo amuleto è il tramite che lega gli aborigeni al loro passato ancestrale, ai loro primi antenati e alla condizione beata in cui vivevano.

Buona erranza
Sharatan