martedì 29 novembre 2016

Verrà il tempo



Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato alla porta,
nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro,

e dirà: «Siedi qui. Mangia.»
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato

per tutta la vita, che hai ignorato
per un altro e che ti conosce a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,

le fotografie, le note disperate,
raschia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. È festa: la tua vita è in tavola.

(Derek Walcott, Amore dopo amore)

“Noi arriviamo ogni momento «alla porta di noi stessi». Possiamo aprire ogni momento quella porta, ogni momento possiamo tornare ad amare quello straniero che eravamo per noi stessi e che ci conosce a memoria, come dice la poesia. Noi ci conosciamo a memoria, in ogni senso della parola, ma forse l’abbiamo dimenticato.

Arrivare alla soglia di noi stessi consiste nel ricordare, nel ri-membrare, alla lettera, nel rivendicare di essere quelli che già siamo e che troppo a lungo abbiamo ignorato, a quanto pare trascinati sempre più lontano da casa eppure, allo stesso tempo, mai più lontani di questo respiro qui, di questo momento qui. Ci possiamo svegliare?

Possiamo «riprendere i sensi»? Possiamo essere conoscenza e, allo stesso tempo, mantenere una mente da principiante e onorare la non-conoscenza? Sono due cose diverse, poi? «Verrà il tempo» afferma il poeta. Sì, verrà il tempo, ma vogliamo davvero che il momento di risvegliarci a chi e che cosa siamo in realtà arrivi, per noi, sul letto di morte, come accade tanto spesso e come aveva previsto Thoreau?

O quel momento può essere questo qui, proprio ora, dove siamo, così come siamo? Verrà il tempo, sì, ma solo se ci dedichiamo a risvegliarci, a riprendere i sensi, ad andare al di là della nostra mente sottosviluppata. Il tempo verrà solo se riusciamo a percepire le catene dei nostri condizionamenti da robot, specie quelli emozionali, e delle nostre idee su chi pensiamo di essere.

Se riusciamo a scollare la nostra immagine dallo specchio - se nella percezione, nel vedere quel che c’è da vedere e nell’udire quel che c’è da udire, vediamo dissolversi quelle catene nel puro vedere, udire, mentre ruotiamo tornando alla nostra bellezza originaria più vasta, mentre salutiamo noi stessi arrivati alla soglia di noi stessi, quando torniamo ad amare l’estraneo che era noi stesso.

Possiamo. Possiamo. Lo faremo. Lo faremo. Perché, alla fin fine, che altro fare? In che altro modo, alla fin fine, possiamo essere dove già siamo? E quando, oh quando, quando verrà il momento in cui succederà? «Verrà il tempo…» dice il poeta. Forse è già venuto. Solo che… non lo sappiamo.” (Jon Kabat-Zinn, Riprendere i sensi, TEA ed.)

domenica 27 novembre 2016

Il pellegrinaggio a Benares



“Più ti avvicini a Dio,
più ti avvicini a te stesso.”
(Proverbio arabo)

Un uomo andò da Ramakrishna. Stava andando in pellegrinaggio a Benares, per fare un bagno rituale nel Gange e, prima di partire, aveva deciso di andar a toccare i piedi del suo Maestro. Ramakrishna gli chiese: «Che bisogno c’è di andare a Benares? Il Gange scorre anche qui.» Infatti, il tempio in cui viveva si trovava proprio sulla riva del fiume. Ma l’uomo replicò: «Nei testi sacri è detto che Benares è il luogo sacro per eccellenza. Se fai un bagno là, ogni tua colpa è purificata.»

Ramakrishna era un uomo semplice, disse a quel uomo: «Puoi andare se vuoi, ma sta’ attento: lungo le rive del Gange sorgono alberi maestosi, li hai notati?» Quel uomo gli confermò che, da bambino, era stato a Benares con il padre e aveva effettivamente visto quegli alberi. «Ebbene -proseguì Ramakrishna- è vero che i tuoi peccati vengono lavati via dal Gange, ma essi si involano e siedono sui rami di quegli alberi, in attesa che tu esca!

Sanno che non puoi stare nel Gange per sempre, prima o poi dovrai uscire. E quando ti stai rivestendo, quei peccati ritornano dentro di te e, a volte accade che, anche i peccati di altri sedimentino nel tuo cuore… quegli alberi sono stracolmi di peccati: sta’ attento a non fartene carico!» L’uomo chiese come poteva salvarsi, e Ramakrishna gli disse: «Dipende da te, per questo ti consigliavo di non andare a Benares!» L’uomo concluse: «Hai creato in me un forte dubbio… andrò a casa a pensarci su. Se le cose stanno così è uno spreco di tempo e basta!»

No, non basta fare un bagno nel Gange, non basta un pellegrinaggio, non basta una preghiera domenicale. I preti hanno creato queste scorciatoie, perché gli uomini sono degli scansafatiche: di fatto non vogliono fare nulla per la propria ricerca interiore. Ricorda: il paradiso non è da qualche parte, nell’alto dei cieli; si trova dentro di te e, per raggiungerlo, non occorre andare al Gange, né a Benares!

Ciò che si deve fare è entrare dentro di sé. Ma non è una cosa che i preti o le comuni religioni vogliono che tu faccia perché, se lo fai, ti liberi da ogni schiavitù esteriore, anche da quella religiosa: allora tutti quei rituali ti sembreranno stupidaggini senza senso. Entrando dentro di te trovi la verità, incontri il Reale.

Viaggiare verso l’esterno è un’abitudine a cui ti sei assuefatto, ma che non ti ha dato alcuna soddisfazione, alcun appagamento. Il mondo interiore è un mondo nuovo, in cui non hai mai neppure dato uno sguardo, in cui non hai mai fatto un solo passo. Il Maestro ti insegna come puoi, pian piano, camminare nel regno del tuo essere.

Ma il Maestro ti dice di sedere in silenzio, e tu chiedi un mantra; è una situazione pietosa, tristissima: il Maestro ti invita a sedere in silenzio, e tu chiedi un qualsiasi suono per colmare quel silenzio! Nessuno vuole essere in silenzio… nessuno vuole sedersi senza fare nulla, ma questo è esattamente ciò che è la meditazione. La meditazione è tornare a casa, è rientrare in se stessi, senza essere più niente e nessuno.

Sei tu, libero da qualsiasi aggettivo, libero da qualsiasi attributo, libero da qualsiasi forma, privo di ogni maschera, senza personalità alcuna. Ma ricorda, un solo lampo in te stesso ha di gran lunga più valore di qualsiasi scrittura. Un solo bagliore della tua consapevolezza ti farà entrare nel vero tempio del divino: un tempio che non è costruito con pietre e marmi, ma che esiste da sempre dentro di te, ed è formato dalla tua stessa consapevolezza.

È una fiamma, una fiamma perenne che arde dall’eternità e che non richiede combustibile alcuno. È in attesa che tu la veda, perché in quella visione, per la prima volta, i tuoi occhi rifletteranno qualcosa di sublime: la gioia, la luce, il canto, la bellezza, l’estasi dell’esistenza. e non è detto che, entrando dentro di te, dimenticherai l’esterno.

Allorché entrerai dentro di te, nella sfera esteriore si irradierà il tuo mondo interiore: nei tuoi gesti, nel modo in cui guardi e parli, nell’autorità che accompagnerà le tue parole. Perfino il tuo tocco, la tua presenza, il tuo silenzio, saranno un messaggio. La sfera interiore e quella esteriore sono parti di un’unica realtà: riconoscerlo, viverle in quanto tali significa fiorire, adempiere al proprio destino di esseri umani. (Osho)

venerdì 25 novembre 2016

Vibrazioni



“Per i puri tutto è puro.”
(Amadeus Voldben)

“Dai corpuscoli, dagli elettroni, dagli atomi e dalle molecole fino ai mondi e agli universi, tutto è movimento vibratorio, nulla è statico. La materia apparentemente inerte è soggetta alla legge della vibrazione; le forme più grossolane sembrano in riposo. I piani di energia e di forza sono gradi varianti di vibrazione, così i piani mentali come quelli spirituali.

Più alta la vibrazione, più elevata la posizione del piano: nel punto massimo è tanto sublime da sembrare in quiete. Così, i due poli estremi si toccano. Il principio di polarità opera sul piano fisico dove è il grande e il piccolo, freddo e caldo, luce e oscurità, ecc.; sul piano mentale col positivo e negativo, tesi e antitesi, di natura identica, ma diversi di grado e di vibrazioni.

Nel mondo del relativo tutto è duale, così che ogni verità è mezza verità, poiché nello stesso tempo ha un aspetto di falsità. Amore e odio, simile e dissimile, sono i due poli della manifestazione, opposti ma eguali, di natura identici e solo differenti di grado. Per questo è possibile conciliarli, mutando la vibrazione di odio in quella di amore.

Il principio del genere, maschile e femminile, i due aspetti che nel mondo fisico si manifestano come sesso, operando nella direzione della generazione, sul piano mentale opera nella direzione della creazione e della rigenerazione. Per i puri tutto è puro.

Vi sono momenti, nell’esistenza umana, particolarmente duri: importante è conoscere come uscirne, qualunque sia la pesantezza delle condizioni. I Maestri hanno insegnato che ciò può avvenire mediante la trasmutazione mentale. Per farlo, si opera sulla mente perché essa determina i nostri stati d’animo.

La mente, come i metalli, può essere trasmutata da uno stato d’animo all’altro, da grado a grado, da polo a polo, da vibrazione a vibrazione. La mente può elevarsi al di sopra del piano ordinario di causa ed effetto, sollevandosi ad un piano superiore. Allora, si diviene causanti, dominando gli stati d’animo e il carattere, diventando motori, anziché pedine.

Obbedendo al principio di causalità dei piani superiori, dominando il proprio piano (emotivo e mentale), si realizza la liberazione delle cause esterne e inferiori. Quando sei portato a vibrare incompostamente, tu polarizzi la mente al grado che desideri. Per il principio di vibrazione, applicato ai fenomeni mentale ed emozionali, si ottiene un controllo delle proprie disposizioni d’animo e sugli stati mentali.

Puoi fugare, come ombre, timori e depressioni, distogliendo l’animo e la mente dallo stato vibratorio scomposto e violento, agganciandolo a uno stato più elevato e sereno. Puoi agire sulle menti e sui sentimenti altrui allo stesso modo, producendo positivi stati mentali e vibrazioni a volontà sul piano mentale come la scienza fa sul piano fisico.

A tutti è data la possibilità di passaggio dal piano più basso a quello più alto per sottrarsi alle condizioni dei piani inferiori. I piani e i mondi si corrispondono. Come in alto così in basso; ciò che è vero in alto, lo è pure in basso. Il piano fisico è riflesso dei più alti. Al di sopra di esso, nel piano dell’assoluto che è il piano dello Spirito, tutto è luce senza ombra.

Chi sa avvalersi delle capacità di usare una legge superiore per dominarne un’altra inferiore, potrà compiere questa Grande Opera. Anziché subire gli effetti nocivi di una condizione negativa, impara l’arte di neutralizzarla. Comincia a polarizzare la mente nel punto desiderato fermando l’oscillazione ritmica del pendolo che tenderebbe a portarla all’altro polo. Questa contro-azione va fatta dopo la scelta effettuata del punto da raggiungere, e va realizzata con volontà decisa.

Conoscendo il principio di vibrazione, puoi dominare gli stati inferiori cambiando le vibrazioni delle cose materiali e delle forme di energie. A questo fine, eleva la tua vibrazione sul piano dello Spirito, principio animatore di tutta la vita, polo estremo e sublime: in tal modo trascenderai la vibrazione grossolana della materia. Là, dopo esserti sottratto alle condizioni e ai dolori dei piani inferiori, nella purezza delle cose elevate, potrai gioire nelle sfere dove la vita è eterna.” (Amadeus Voldben, La Coppa d’Oro, Ed. Mediterranee)

lunedì 21 novembre 2016

Come funamboli…



“La mia casa mi dice: «Non lasciarmi,
perché è qui che dimora il tuo passato.»
E la strada mi dice: «Alzati e seguimi,
giacché io sono il tuo futuro.»
E io dico alla casa e alla strada:
«Non ho passato e non ho neppure futuro.
Se resto qui, vi è un andar nel mio restare fermo;
se vado, resto fermo anche andando.
Solo amore e morte trasmutano ogni cosa.»
(Kahlil Gibran)

Più sei attaccato al passato, o più hai investito nei risultati futuri, più ti sarà difficile accettare “ciò che è” e lavorare con questo. Quello che è accaduto in passato ti può influenzare nei confronti del presente. Può impedirti di aprirti pienamente al presente. Per esempio, se in passato sei stato ferito da qualcuno, potresti aver paura di entrare di nuovo in una relazione.

Alcune cose appartengono al futuro, non al presente. Per esempio, potresti avere in mente di sposarti in futuro. Ma se vedi la tua relazione attuale solo come un potenziale matrimonio, potresti non lasciarle l’opportunità di svilupparsi in modo naturale. La verità è che non sai bene cosa accadrà in futuro. Potresti avere una sensazione generale riguardo al futuro basata su quello che sta avvenendo nel presente.

Potresti sapere quale sarà il passo successivo, ma ora come ora non puoi saperne di più. Per essere nel presente hai bisogno di rimanere centrato in quello che sai, accantonando passato e futuro. Se continui a ritornare al passato, o cerchi di pianificare il futuro, ti troverai indietro o avanti rispetto a te stesso. Seminerai semi di conflitto dentro e fuori.

Quindi questa è un’azione equilibratrice. Devi camminare sulla fune tesa tra passato e futuro. Non puoi aspettarti di camminare senza inclinarti da un lato o dall’altro. Ma quando lo fai, devi controbilanciarti, in modo da poter ritornare al centro. Centrarsi significa essere presente, significa stare con ciò che si sa e lasciar perdere quello che non si sa.

Non sai che il passato ripeterà se stesso. Non sai che l’esperienza presente si estenderà nel futuro. Le cose potrebbero cambiare o rimanere uguali. Vecchie strutture potrebbero di dissolversi o riapparire; non sai nulla di queste cose. Sai solo come ti senti riguardo a ciò che sta avvenendo ora.

Se riesci a rimanere qui e ora, allora puoi essere onesto con te stesso e con gli altri riguardo la tua esperienza. Puoi dire su cosa puoi prenderti un impegno e su cosa no. In futuro le cose potrebbero cambiare, ma non puoi vivere adesso nella speranza che cambieranno. Devi essere dove sei, non dove vorresti essere. È un lavoro difficile.

Il passato ti dice: «Non aprirti. Fa troppa paura. Non ti ricordi cosa è successo quando…?» e il futuro dice: «Ci stai mettendo troppo. Perché non fai un bel salto e lo fai?». Il passato cerca di trattenerti e il futuro di spingerti, un dilemma interessante, non credi? La verità è che devi ascoltare le due voci e rassicurarle del fatto che le hai sentite. Poi puoi ritrovare l’equilibrio e ritornare al centro.

E solo dopo puoi trovare il ritmo giusto per te, qui e ora. È esattamente questo che deve fare un funambolo. Non può preoccuparsi di aver perso l’equilibrio in passato. Non può sognare di fare una prestazione perfetta in futuro. Deve concentrarsi su quello che succede adesso. Deve mettere un piede davanti all’altro, e ogni passo è un atto di equilibrio, ogni passo è un atto spirituale. (Paul Ferrini, Io sono la porta, Macro ed.)

sabato 19 novembre 2016

L’analisi obiettiva



“Una luna dà più luce di cinquemila stelle.”
(Paramhansa Yogananda)

“Sono molti i modi in cui aumentiamo la nostra inquietudine e la nostra sofferenza mentale. Benché, in genere, le afflizioni mentali ed emozionali si presentino in maniera naturale, spesso siamo noi stessi ad aggravarle molto. Quando, per esempio, nutriamo rabbia oppure odio per una persona, questo sentimento ha meno probabilità di diventare assai forte se non lo coltiviamo.

Se invece rimuginiamo sulle ingiustizie che riteniamo ci siano state fatte, se ci arrovelliamo sul trattamento in iniquo subìto e continuiamo a pensarci sempre di più, alimentiamo l’odio. E l’odio allora diventa molto intenso e potente. Certo, lo stesso discorso può valere nel caso dell’attaccamento ad una data persona: alimentiamo questo sentimento pensando a quanto quella persona sia bella e continuando a concentrarci su tale qualità, frutto della nostra proiezione mentale, e ci attacchiamo sempre di più.

Ma ciò dimostra come, attraverso i pensieri e la familiarizzazione costanti, noi stessi possiamo intensificare parecchio le nostre emozioni. Spesso, poi, accresciamo la pena e la sofferenza con l’ipersensibilità, reagendo troppo a fatti di lieve entità o prendendo tutto troppo in maniera personale. Tendiamo a esagerare l’importanza di piccole cose e a gonfiarle in misura eccessiva, mentre magari trascuriamo gli eventi davvero importanti, che hanno ripercussioni profonde sulla nostra vita e conseguenze ed effetti a lungo termine.

A mio avviso, dunque, il nostro grado di sofferenza dipende da come reagiamo a una determinata situazione. Poniamo di scoprire che qualcuno sparla di noi alle nostre spalle. Se reagiamo a questa spiacevole notizia, a questo fatto negativo con un senso di rabbia e risentimento, noi stessi distruggiamo la pace dello spirito e il dolore diventa una nostra creazione personale.

Se invece evitiamo di reagire in maniera negativa, se lasciamo che la calunnia ci passi accanto come un vento silenzioso che soffia dietro le orecchie, ci difendiamo dal risentimento e dall’angoscia. Dunque, anche se forse non riusciremo sempre a eludere le situazioni difficili, possiamo modificare il grado di sofferenza scegliendo una reazione piuttosto che un’altra…

Vi sono diversi modi di combattere questa sensazione. Ho già spiegato come sia importante riconoscere che la sofferenza è un fatto naturale della vita umana. E credo che sotto certi aspetti i tibetani siano più disposti ad accettare la realtà delle situazioni difficili, in quanto dicono: “Forse è per via del mio karma, di qualcosa che ho fatto in passato.”

Attribuiscono l’origine del problema ad azioni negative compiute in questa vita o nella vita precedente, sicché hanno un maggior grado di accettazione. A tal proposito è importante capire e sottolineare che a volte, fraintendendo la dottrina, si tende ad attribuire la responsabilità di tutto al karma e a esonerarsi dalla responsabilità o dalla necessità di prendere iniziative personali. È troppo facile dire:”Ciò è dovuto al mio karma passato negativo, per cui cosa posso farci? Sono inerme”.

È un modo del tutto errato di interpretare il karma; benché infatti le nostre esperienze siano la conseguenza delle azioni passate, ciò non significa che l’individuo non abbia scelta o non abbia la possibilità di modificare le cose, di produrre un cambiamento positivo. Questo vale in tutti i settori della vita. non si deve cedere alla passività ed evitare di prendere iniziative personali con la scusa che tutto è causato dal karma.

Se si capisce bene il concetto di karma, si capirà anche che karma significa “azione”. Il karma è un processo molto attivo e quando parliamo di karma o azione, parliamo dell’azione compiuta da un agente, in questo caso noi stessi, in passato. Perciò il tipo di futuro che ci attende dipenderà, in larga misura, da quanto noi stessi faremo nel presente. Il futuro sarà determinato dalle iniziative che prendiamo adesso.

Dobbiamo, dunque, considerare il karma non già una forza passiva e statica, bensì una forza attiva. Bisogna capire che il singolo agente svolge un ruolo importante nel determinare il corso del processo karmico. Chi crede all’idea di un Creatore, di Dio, può accettare più facilmente le prove della vita se la considera parte della creazione o del disegno divino.

I credenti possono pensare che, siccome Dio è onnipotente e molto misericordioso, anche in una situazione negativa vi sia un qualche significato, un elemento rilevante di cui loro magari non si rendono conto. A mio avviso, questa fede può sorreggerli e aiutarli nei periodi di sofferenza. Forse al non credente può giovare un approccio pratico, scientifico.

Penso che quasi tutti gli scienziati ritengano assai importante analizzare i problemi obiettivamente, studiarli senza troppo coinvolgimento emotivo. È l’approccio di chi, davanti alle situazioni difficili, dice: “Se c’è un modo di risolvere la questione la risolveremo, anche se dovessimo adire alle vie legali!”. Se invece si scopre che non c’è soluzione al problema, si può semplicemente lasciarlo perdere.

L’analisi obiettiva delle circostanze difficili o problematiche è assai importante, perché consente di verificare subito se, alla base, vi siano altri fattori in gioco. Quando per esempio riteniamo di essere stati trattati ingiustamente dal nostro capo sul luogo di lavoro, è utile appurare se nel quadro entrino altri elementi.

Forse egli è irritato per qualcos’altro, come un recente litigio con la moglie o cose del genere, e nel trattarci male non ha inteso punirci personalmente, indirizzare le sgarberie proprio verso di noi. Certo, bisogna lo stesso affrontare il problema, qualunque sia; ma se non altro con tale approccio si può evitare di aggiungere indebita ansia alla situazione.

In genere, se esaminiamo qualsiasi situazione con cura, sincerità e mancanza di pregiudizi, arriviamo a capire che anche noi siamo, in larga misura, responsabili del dispiegarsi degli eventi. Insomma, sovente abbiamo l’innata tendenza a dare la colpa di tutti i nostri mali agli altri, a fattori esterni. Inoltre siamo inclini a cercare un’unica causa e ad esentarci poi dalla responsabilità. Ogniqualvolta entrano in gioco emozioni intense, si riscontra uno squilibrio tra apparenza e realtà.”
(Dalai Lama, L’arte della felicità, Mondadori ed.)

giovedì 17 novembre 2016

La misura della pratica



“Non avere paura delle tue debolezze
e dei tuoi cattivi pensieri.
Ci sono per temprare la tua volontà
e il tuo desiderio di vincere.”
(Dugpa Rimpoche)

“Il primo giorno di un ritiro di meditazione di quattro giorni, uno studente andò dal maestro zen con il quale aveva studiato per molti anni. Sedendosi ai piedi del maestro chiese:«Puoi dirmi come vado nella pratica?» Il maestro ci pensò un momento e poi disse:«Apri la bocca.» Lo studente aprì la bocca, il maestro ne scrutò attentamente l’interno e disse:«Va bene, ora china la testa.» Lo studente abbassò la testa e il maestro esaminò i capelli e poi disse:«Vai bene.» Quindi suonò la campana.

Poiché il maestro aveva suonato la campana, lo studente dovette andar via. Il giorno dopo tornò, piuttosto perplesso per quanto era accaduto il giorno prima. «Ieri vi ho chiesto come procede la mia pratica e mi hai fatto aprire la bocca, chinare la testa e spalancare gli occhi. Cosa ha a che fare tutto ciò con la pratica?» Il maestro zen piegò la testa per riflettere, quindi disse:«Sai, ora che ci penso non vai molto bene, anzi per la verità non sono sicuro che ci riuscirai mai.» E di nuovo suonò la campana.

Lo studente uscì. Potete immaginare quanto fosse confuso e irritato. Il giorno seguente, ancora indignato, tornò dal maestro e disse:«Cosa intendi dicendo che non ce la farò mai? Lo sai che siedo in meditazione per un’ora ogni giorno? A volte pratico due volte nella stessa giornata. Partecipo a tutti i ritiri. Ho esperienze davvero profonde. Perché dici che non ce la farò?» Ancora una volta il maestro se ne restò seduto a pensare, quindi disse:«Be’, forse mi sono sbagliato. Forse, dopo tutto, stai andando piuttosto bene.» E di nuovo suonò la campana.

C’era ancora un altro giorno di ritiro. Lo studente tornò dal maestro completamente distrutto. Si sentiva sconvolto e confuso, ma non si opponeva più a quello che provava. Disse al maestro:«Volevo solo sapere come andava la mia pratica.» Questa volta il maestro lo guardò e, senza esitazione, con voce gentile disse:«Se davvero vuoi sapere come va a tua pratica, osserva tutte le reazioni che hai avuto in questi pochi giorni. Osserva la tua vita.»

Se vogliamo sapere come va la pratica dobbiamo osservare la nostra vita. Se non cominciamo a collegarla con il resto della nostra vita, la pratica, per quanto salda, calma o piacevole possa essere, in definitiva non sarà soddisfacente…Comprendere la connessione tra la pratica e il resto della vita significa affrontare molte cose diverse. Ad esempio, come praticate con le persone che vi sono vicine, con il coniuge, i figli, i genitori, i colleghi di lavoro?

Quanti rancori serbate ancora? Ci sono persone che scatenano ancora nella vostra vita, la rabbia, il disprezzo o giudizi di cui siete fermamente convinti? In che misura potete dire “Mi dispiace” e pensarlo davvero? Come praticate sul lavoro? Fino a che punto ritenete di dover soddisfare le esigenze della vostra professione? Quando si presenta un problema, potete accettare di praticare con esso anche se odiate quello che accade?

E quando venite criticati, siete disposti a lavorare con le vostre reazioni, via via che si manifestano, invece di giustificarle? State prendendo coscienza delle convinzioni in cui credete più fermamente, e di come esse assumano il controllo di ogni cosa attraverso le vostre strategie comportamentali? Quel senso di dramma o di emergenza che circonda i vostri conflitti emotivi, si è alleggerito un po’? Siete un po’ più disposti ad aprirvi al vostro dolore di fondo, ad alleggerire corazza e protezioni? Provate un senso di apprezzamento, soddisfazione, divertimento o di quieta gioia, almeno di tanto in tanto?

Le risposte a simili domande ci danno la misura della nostra pratica. Tale misura non ha nulla di magico, né di misterioso. È semplicemente la crescente capacità di sapere cos’è la nostra vita, e la crescente comprensione del fatto che praticare con la vita significa praticare con tutto quello che incontriamo… Invece di chiedere:«Come vado?» le vere domande sono:«Dove continuo a chiudermi, per paura o per proteggermi?» e «Dove arrivo al mio limite, quel punto oltre il quale non sono disposto ad andare?»

La pratica è notare e fare esperienza di questi luoghi, non con avvilimento o senso di colpa, ma semplicemente come qualcosa su cui lavorare, e poi vedere come fare qualche piccolo passo oltre… Per praticare con le decisioni difficili, dobbiamo lasciare il mondo della mente per entrare nel cuore dell’esperienza. Ciò significa stare nell’esperienza fisica dell’ansia e della confusione, invece che vagabondare nei pensieri.

Quali sensazioni dà l’essere confusi? Come si percepisce questa esperienza? Rimanere con la realtà corporea del momento presente ci dà la possibilità di vedere la nostra vita con una chiarezza che non potremmo mai realizzare con il solo pensiero. Quanto ci vorrà? Nessuno può dirlo. Ma praticare in questo modo è un buon esempio di cosa significhi arrivare al limite e lavorare direttamente sui luoghi in cui siamo bloccati. La pratica implica sempre vedere il nostro limite e fare un piccolo passo oltre, entrare nell’ignoto.

Lavorare sul nostro limite ci aiuta anche a sviluppare una maggiore compassione verso noi stessi perché, nell’addestramento a superarlo, non siamo più così rapidi a giudicarci senza speranza, quando falliamo. Eppure dobbiamo andare verso il nostro limite da soli. Invece di considerarlo un nemico, un luogo che preferiremmo evitare, possiamo renderci conto che, in effetti, il limite è il nostro sentiero. Da lì possiamo avvicinarci a ciò che è. Ma possiamo farlo solo un passo alla volta, perseverando in tutti gli alti e i bassi della vita.”    (Ezra Bayda, Star bene in acque torbide, Ubaldini ed.)

martedì 15 novembre 2016

L'approccio complessivo



“Non ferire chi come te cerca la felicità,
se vuoi essere felice.”
(Dhammapada)

“Un giorno vidi dei giovani che raccoglievano fiori. Non volevano offrirli a nessun dio; stavano soltanto camminando e senza pensarci strappavano i fiori e li gettavano via. Vi siete mai osservati quando fate così? Mi domando perché lo facciate. Mentre camminate spezzate un ramoscello, ne strappate le foglie e poi lo buttate via. Avete mai osservato questa azione involontaria da parte vostra?

Anche gli adulti lo fanno, hanno questo modo di esprimere la loro brutalità interiore, quella tremenda mancanza di rispetto per le cose viventi. Parlano di nonviolenza, ma ogni cosa che fanno è distruttiva. È comprensibile che cogliate un fiore o due per metterveli tra i capelli, o per darli a qualcuno che amate; ma perché strappate i fiori a viva forza? Gli adulti sono imbruttiti dalla loro ambizione, si massacrano gli uni con gli altri nelle loro guerre e si corrompono con il denaro.

Essi compiono azioni ripugnanti e apparentemente i giovani, qui come ovunque, seguono le loro tracce. L’altro giorno ero fuori a passeggio con uno dei ragazzi e siamo giunti vicino a una pietra sulla strada. Quando l’ho rimossa lui mi ha chiesto perché lo facessi. Questo che cosa indica? Non è forse una mancanza di considerazione e rispetto? Voi mostrate rispetto perché costretti dalla paura, non è così?

Scattate prontamente in piedi quando uno più anziano di voi entra nella stanza, ma questo non è rispetto, è paura; perché se davvero provaste rispetto non distruggereste i fiori, rimuovereste una pietra sulla strada, badereste agli alberi e aiutereste a curare il giardino. Ma, che siamo vecchi o giovani, noi non abbiamo un autentico sentimento di sollecitudine. Perché? Perché non sappiamo cos’è l’amore.

Capite che cos’è il semplice amore? Non la complessità dell’amore sessuale, e neppure l’amore di Dio, ma soltanto l’amore, essere teneri, gentili nell’approccio complessivo a ogni cosa. A casa non avete sempre questo semplice amore, i vostri genitori sono troppo occupati; a casa può non esserci un affetto autentico, nessuna tenerezza perciò voi arrivate qui con quel patrimonio di insensibilità e vi comportate come chiunque altro.

Ma come può venire alla luce questa sensibilità che vi rende attenti a non fare nessun male alle persone, agli animali, ai fiori? Siete interessati a tutto questo? Dovreste esserlo. Se non vi interessa essere sensibili, allora tanto varrebbe morire - e la maggior parte delle persone è come se fosse già morta. Anche se mangiano tre pasti al giorno, hanno un lavoro, procreano, guidano l’automobile, vestono abiti fini, tali persone sono come morte.

Sapete che significa essere sensibili? Significa, sicuramente, avere un sentimento di tenerezza per tutto: vedere un animale che soffre e fare qualcosa per lui, rimuovere una pietra dal sentiero perché molta gente ci cammina a piedi nudi, raccogliere un chiodo dalla strada perché qualcuno potrebbe forare una gomma. Essere sensibili significa provare sentimenti per le persone, per gli uccelli, per i fiori, per gli alberi, non perché sono vostri ma soltanto perché siete desti di fronte alla straordinaria bellezza delle cose.

Ma come si ottiene questa sensibilità? Quando siete profondamente sensibili, è naturale che non strappiate i fiori; c’è un desiderio spontaneo di non distruggere le cose, di non far male alle persone, il che significa avere autentico rispetto e amore. Amare è la cosa più importante nella vita. Ma che cosa intendiamo per amore?

Quando amate qualcuno perché quella persona in cambio vi ama, sicuramente questo non è amore. Amare è avere quello straordinario sentimento di un affetto che non chiede nulla in cambio. Potete essere molto intelligenti, superare tutti gli esami, prendere un dottorato e raggiungere una posizione elevata, ma se non avete questa sensibilità, questo sentimento di semplice amore, il vostro cuore sarà vuoto e voi sarete infelici per il resto della vostra vita.

Perciò è importantissimo che il cuore si riempia di quel sentimento affettuoso, perché allora non distruggerete nulla, non sarete crudeli, e non ci saranno più guerre. Allora sarete degli esseri umani felici, e poiché sarete felici non pregherete, non cercherete Dio, perché quella felicità stessa è Dio. Ma perché viene alla luce questo amore? Sicuramente l’amore deve iniziare dall’educazione, inizia dal maestro.

Se oltre a darvi informazioni sulla matematica, sulla geografia o sulla storia, l’insegnante ha in cuor suo quel sentimento di amore e ne parla. Se rimuove spontaneamente la pietra dalla strada e non permette al servitore di fare tutti i lavori più umili, se nella conversazione, nel lavoro, nel gioco, quando mangia, quando sta con voi o da solo, prova quel sentimento strano e ve lo fa notare spesso, allora anche voi sapete cos’è l’amore.

Potete avere una pelle luminosa, un bel viso, potete indossare un bel vestito o essere grandi atleti, ma senza l’amore nel vostro cuore siete esseri umani brutti oltre ogni limite. Quando amate il vostro viso, sia esso anonimo o bello, è radioso. Amare è la cosa più grande della vita, ed è molto importante parlare d’amore, provarlo, nutrirlo, custodirlo; diversamente si dissipa rapidamente, perché il mondo è troppo brutale.

Se da giovani non provate amore, se non guardate con amore le persone, gli animali, i fiori, quando sarete cresciuti scoprirete che la vostra vita è vuota. Sarete del tutto soli e le ombre cupe della paura vi seguiranno sempre. Ma, nel momento in cui avete in cuor vostro quella cosa straordinaria chiamata amore e ne sentite la profondità, la delizia e l’estasi, scoprirete che per voi il mondo si è trasformato.“

(Jiddu Krishnamurti, La ricerca della felicità, Mondadori ed.)

domenica 13 novembre 2016

Risolvere un koan



“Incontrando il maestro per strada,
non dovete parlare,
non dovete rimanere in silenzio.
In che modo lo salutate?”
(da: Zen flesh, Zen bones)

"Molti trasformano tutto ciò che accade, soprattutto nei rapporti, in un problema da risolvere. Presto ogni giorno diventa una corsa a ostacoli che dobbiamo saltare per superarli. Alcuni preferiscono rimandare l’azione finché non hanno sviluppato una strategia e pianificato i risultati. Vogliono sapere esattamente con che cosa hanno a che fare prima di compiere il minimo gesto. E c’è anche chi non osa avventurarsi fuori dell’ambiente familiare, degli amici o della routine per paura di andare incontro a sorprese.

Farsi trovare impreparati è il loro incubo peggiore. Li spaventa non conoscere la risposta ‘giusta’ da dare. ‘Sbagliare’ diventa un disastro. Tutto ciò che fanno è inquinato dalla paura delle conseguenze. Le loro paure e i loro timori diventano particolarmente paralizzanti nell’area dell’amore, dove i rapporti vengono immediatamente trasformati nel problema supremo della vita. i rapporti rappresentano la maggiore possibilità di fallimento, ma anche il premio più grande : l’amore.

Vedere l’esistenza come qualcosa da conquistare o da controllare non porta a una vita d’amore, ma solo alla continua ricerca di sicurezza. Ma la vita non è una sicurezza, così come non sono sicuri i risultati programmati dalla mente razionale… Dobbiamo scoprire un modo nuovo di stare con i problemi. Se lo facciamo, scopriamo che in realtà non esistono problemi, che sono semplicemente dei koan che la vita ci presenta.

Un elemento fondamentale della pratica zen sono infatti i koan: essere pronti a riceverli e imparare a risolverli… Quando uno studente zen raggiunge una buona esperienza di pratica, riceve un koan dal maestro. Il koan è un problema o un indovinello apparentemente insolubile, come ad esempio: ‘Ascoltare il suono di una mano sola’ oppure ‘Mostrami il tuo volto originario prima della nascita dei tuoi genitori.’

I koan sfidano la logica, non possono essere risolti dalla mente razionale, e la risposta non è mai una frase fatta o un’affermazione scontata. Più li analizziamo razionalmente e più manchiamo il bersaglio. Ciò nonostante dobbiamo portare una risposta al maestro. Noi diciamo che se non risolviamo il koan, o non cogliamo l’essenza della nostra vita, abbiamo perso una grande occasione e potremmo non arrivare mai a scoprire chi siamo.

Una volta ricevuto il koan, lo studente fallisce un’infinità di volte. Esattamente come nei rapporti c’è un senso di stupidità, frustrazione e vergogna. Peggio ancora, sente che il guaio in cui si è venuto a trovare non ha una soluzione. Una parte del processo di soluzione del koan sta nell’imparare a lavorarci sopra, imparare a lasciare che sia la soluzione a trovare noi. Tutti devono confrontarsi con un senso di stupidità e di vergogna prima di imparare ad abbandonare il modo abituale di affrontare le cose.

Per superare il koan (per imparare ad affrontare i problemi insolubili nella vita e nei rapporti) dobbiamo fare un passo davvero radicale: cambiare completamente la nostra visione del mondo e vedere i condizionamenti su cui si fonda. La nostra valutazione di ciò che è giusto si basa sulla mente razionale e su ciò che ci dicono i sensi. Osserviamo, misuriamo e definiamo per avere la padronanza e il controllo delle cose.

Pensiamo che dando una certa forma al mondo ricaveremo forza, potere e controllo. Ma quello che in realtà facciamo è impegnare la maggior parte della vita in cose che già conosciamo. Ci affidiamo a discipline come la psicologia, la sociologia o la teologia nella speranza che qualcun altro ci fornisca risposte e pareri autorevoli. Ricorriamo a sacerdoti, rabbini e psicoanalisti per capire meglio la vita. se non lo facciamo, abbiamo paura di rimanere ciechi.

E, in un certo senso, è vero. La conoscenza scientifica e oggettiva ha la sua funzione e la sua utilità, ma non è in grado di guarire un rapporto lacerato, né restituirci la fiducia nell’amore. Dove la scienza finisce, inizia l’amore. L’amore non è oggetto di osservazione scientifica, perché non ha forma… Per raggiungere la comprensione in questo campo, per risolvere i koan che la vita ci presenta, dobbiamo smettere di cercare le risposte nel mondo della logica.

Dobbiamo rivolgerci invece alla nostra esperienza profonda, che non ci farà capire di più, ma essere di più. Non usiamo solo il cervello, ma tutto il nostro essere. Non usiamo solo il cervello, ma tutto il nostro essere. È così che possiamo imparare a vivere i rapporti portandovi forza, semplicità e bellezza. La saggezza interiore ci dice che, nonostante i problemi in apparenza insolubili, tutto è per il meglio. Per entrare in contatto con la saggezza interiore dobbiamo porre un nuovo tipo di domande, vedere la vita e gli eventi con occhi diversi.

Non cerchiamo più di modellare o controllare la nostra esperienza, né di darle una spiegazione logica. Stiamo semplicemente con l’esperienza, vi facciamo amicizia, e lasciamo che sia l’esperienza a insegnarci e a guidarci. In un certo senso, ciò di cui stiamo parlando è la via dell’umiltà, che esige la forza di lasciar andare il bisogno di controllare noi stessi e il mondo, e di ammettere che non siamo noi i più forti. C’è qualcosa di più grande di noi, e dobbiamo soltanto imparare ad entrare in contatto con questo qualcosa per trovare le vere risposte.

Platone diceva che nasciamo sapendo tutto, e che la vita è un continuo processo di dimenticanza. Dimentichiamo da dove veniamo e dove andiamo. Dimentichiamo il motivo per cui siamo qui, su questa Terra meravigliosa. Ma, lavorando al koan, ricordiamo a poco a poco la conoscenza che è sempre stata nostra. Nei momenti di crisi, di dolore e tristezza, è fondamentale imparare a ricollegarci con la nostra sorgente interiore di forza e di saggezza. I koan ci mettono in grado di farlo, perché sono lo specchio in cui vedere noi stessi."

(Brenda Shoshanna, Lo zen e l’arte di innamorarsi, Ed. Il Punto d'Incontro)

venerdì 11 novembre 2016

Lega il cammello!



"Un Maestro sufi era in viaggio con uno dei suoi discepoli, e il discepolo aveva il compito di occuparsi del loro cammello. Una notte, arrivarono stanchi in un caravanserraglio; era compito del discepolo legare il cammello, ma non lo fece: lo lasciò libero. Anziché assolvere il suo compito, si limitò a pregare. Disse a Dio: «Prenditi cura del cammello» e si addormentò. L’indomani mattina il cammello era scomparso, rubato o portato via: non ce n’era traccia. Al che, il Maestro chiese: «Cos’è successo al cammello? Dov’è?».

Il discepolo rispose: «Non lo so. Chiedi ad Allah, perché avevo chiesto a Lui di prendersene cura, io ero troppo stanco, per cui non so proprio cosa dire. Inoltre, io non ne sono responsabile, perché avevo affidato il cammello ad Allah, e sono stato molto chiaro! Non era possibile fraintendermi. Infatti gliel’ho ripetuto tre volte, e tu stesso mi hai insegnato ad avere fiducia in Allah, ragion per cui mi sono fidato. Adesso non guardarmi con tanta collera, non essere furioso con me!»

Il maestro replicò: «Abbi fiducia in Allah, ma prima lega il tuo cammello, perché Lui ha soltanto le tue mani.» Se Allah vuole legare un cammello, dovrà usare le mani di qualcuno: non ne ha altre. E il cammello è tuo! Il modo migliore, il più facile e il più semplice è quello di usare le tue mani; e, in più, abbi fiducia in Lui, non aver fiducia solo nelle tue mani, altrimenti sarai sempre in tensione. Lega il cammello, e poi fidati di Allah. Ti chiederai come mai occorre aver fiducia in Allah, se tu stai legando il cammello: perché?

La ragione è questa: anche un cammello legato può essere rubato. Tu fai tutto ciò che puoi, ma questo non garantisce alcun risultato, non esiste nessuna garanzia! Quindi, fa’ tutto ciò che puoi e poi, qualunque cosa accada, accettala. Questo è il significato di “legare il cammello”: fa tutto ciò che ti è possibile, non evitare le tue responsabilità; e poi, se non accade nulla, o qualcosa non va per il verso giusto, abbi fiducia in Allah. In questo caso Dio vede più lontano di te.

Forse è bene che tu non possegga più quel cammello. Forse è giusto che tu prosegua il tuo viaggio senza il cammello. Il cammello non è un’entità fissa, si presenta in forme e dimensioni diverse: è un simbolo. È una semplice indicazione: non essere passivo. Dio ha solo le tue mani: abbi fiducia in Allah, abbi fiducia in Dio, ma non farne un pretesto per addormentarti, per impigrirti.

Al mondo esistono tre diversi tipi di persone. Alla prima tipologia appartengono coloro che pensano si debba fare qualcosa: è ciascuno, in prima persona, ad agire. Questa gente non ha fiducia nel Tutto, nella totalità che abbraccia ogni cosa. Vive appoggiandosi unicamente nella propria minuscola energia e, naturalmente, va incontro a ripetute sconfitte, rivelandosi un fallito. Se vivi appoggiandoti sulla tua energia, così limitata rispetto all’energia sconfinata che ti circonda, non potrai che fallire, ben presto sarai un uomo finito.

Alla seconda tipologia appartengono le persone che pensano: «Visto che Dio fa tutto, io non devo fare niente. Non sono tenuto a fare nulla.» Costoro si siedono e aspettano: la loro vita diventa sempre più pigra, finché arrivano a un punto in cui non vivono più, si limitano semplicemente a vegetare. Queste due tipologie rappresentano l’Oriente e l’Occidente: L’Occidente è rappresentato da colui che agisce, il tipo attivo; l’Oriente è rappresentato da colui che non agisce, il tipo passivo.

L’Occidente sta impazzendo. Il Occidente il problema delle persone è questo: la troppa azione, la sfiducia, l’eccessivo dipendere solo dalle proprie forze…Naturalmente tutto questo crea ansia, e questa ansia è eccessiva, insostenibile, pesantissima. Produce ogni sorta di nevrosi, di psicosi; tiene le persone sempre sull’orlo dell’esaurimento nervoso. Uccide, fa impazzire.

L’Occidente ha avuto successo nel “fare”, è riuscito a liberarsi dall’idea di Dio e ha perso qualsiasi forma di fiducia e di abbandono, di arrendevolezza; ha abbandonato ogni tipo di rilassamento, non sa più cosa vuol dire lasciarsi andare, l’ha completamente dimenticato… nella mente delle persone è penetrata in profondità un’idea: la convinzione che sono loro a fare tutto. L’Occidente è sull’orlo del suicidio: si avvicina sempre più il tempo del suicidio collettivo.

Viceversa, all’Oriente è accaduto di rilassarsi troppo, di lasciarsi andare troppo: le persone sono diventate molto pigre; continuano a morire, a soffrire di fame, e ne sono felici. La cosa non li preoccupa: hanno fiducia in Dio. Si adeguano a ogni sorta di situazione, per quanto brutta sia. E non cambiano mai nulla: sono molto brave a dormire, possiedono una calma e una tranquillità ammirevoli, ma la loro vita non è altro che un vegetare. Ogni anno in Oriente la carestia uccide milioni di persone, e nessuno fa nulla: né i diretti interessati, né i vicini: «Sarà la volontà di Allah!»

La storia sufi crea i presupposti per il terzo tipo di uomo; l’uomo vero, reale, un individuo che sa agire e sa anche non agire. Un individuo che è in grado di agire, e quando è necessario sa dire sì; ma può anche essere passivo e, quando occorre, riesce a dire no. Un individuo che è completamente sveglio di giorno e profondamente addormentato di notte. Che sa come inspirare e come espirare: un uomo che conosce l’equilibrio della vita. È molto facile avere fiducia in Allah e diventare pigri; è molto facile non avere fiducia in Allah e fare da soli.

Il terzo tipo di uomo è difficile da realizzare: avere fiducia in Allah e continuare ad agire. Ebbene, in questo caso sei solo uno strumento: in realtà è Dio che agisce, tu sei solo uno strumento nelle sue mani. Le cose sono molto complesse, perché noi siamo piccoli, piccolissimi atomi infinitesimali in questo universo. Nulla dipende solo dalla mia azione: esistono migliaia di energie che si incrociano; la somma di queste energie deciderà l’esito. Come posso decidere io il risultato? D’altra parte, se io non faccio nulla, le cose potrebbero andare diversamente. 

Devo agire, ma devo imparare a non avere aspettative: in questo caso l’azione diventa preghiera, del tutto svincolata dal desiderio di un risultato specifico e definitivo. Allora non c’è frustrazione: la fiducia ti aiuterà a non restare frustrato, e legare il cammello ti aiuterà a rimanere vivo, intensamente vivo. Il cammello non è un elemento fisso, non è il nome di un’entità definita: dipende dal contesto. Il cammello non è un elemento fisso. Devi guardare il quadro d’insieme: continuerà a cambiare. Ma la storia ha un valore immenso: è la via Sufi per creare il terzo tipo di uomo." (Osho)

martedì 8 novembre 2016

La duplicità



“Il logos è comune, eppure la moltitudine vive
come se ciascuno avesse la propria intelligenza.”
(Eraclito, frammento 2.4)

“Una nuova definizione dell’ego potrebbe essere: la menzogna o la duplicità. Una sorta di meccanismo riflesso comincia a creare impercettibilmente una seconda realtà, quella delle apparenze, quella di ciò che dovrebbe essere, quella di ciò che non sono io. Da far credere e lasciar credere a credere, da credere a fare, da fare a far fare…

Tutte maniere di fuggire dalla realtà e di non sapere più ciò che si sente. Il grande mentitore attira attorno a sé nel suo universo doppio, cedevole, manipolato, ingannatore. Per il grande bugiardo la realtà è una materia da lavorare piuttosto che un dato da osservare.

L’ego è per l’essere autentico ciò che il sistema dei media è per la società reale. Vuole far credere che rappresenta il tutto mentre non è altro che un parassita della presenza autentica. Come i media, agita la gloria e la vergogna, la speranza e la paura, e ci vuole far vivere in un magnifico palazzo di immagini dove l’esistenza è miserabile.

Non siamo sulla terra per conformarci a un’immagine - quella che abbiamo di noi stessi o quella che gli altri hanno di noi - ma per dare o ricevere amore. Non utilizziamo dunque il mondo - gli “sguardi esterni”- come uno specchio che ci dimostri la nostra esistenza. Sei come una persona che vorrebbe costantemente imitare l’immagine che gli rimanda il suo specchio. L’ego ti incatena a “un’identità”.

Ma cosa è l’identità? Un’immagine che avvelena la tua vita sdoppiandola. Che distanza tra il disordine e la qualità mutevole del tuo flusso d’esperienza e l’immagine ideale che ti fai di te! L’ego è un segno che non si nutre che di segni, un parassita che obbliga la vita a lavorare solo per produrre segni di piacere, di felicità, di dominio, di potere, di riconoscenza, di guadagno, etc.

Volevo dimostrare (a chi?) di essere coraggioso. Mi sono messo in situazioni molto difficili in cui ero solo contro tutti, al fine di dimostrare che ero coraggioso. Perché? Chi se ne importa? Ho avuto una vita difficile e piena di conflitti. Ho fabbricato questa vita nella quale potevo mostrare di essere coraggioso. Volevo dimostrare (a chi?) di essere buono.

Ho creato situazioni nelle quali “salvavo” gli altri e nelle quali era evidente che ero buono, gentile. In realtà ho lasciato che approfittassero gravemente di me. Tutti gli eventi della mia vita provengono da questo stupido dibattito che ho con me stesso. Perché ho dato tanta importanza all’idea che mi facevo di me?

Non interessa a nessuno e avrei potuto condurre la mia vita in tutt’altro modo. Invece di esistere, semplicemente, naturalmente, gioiosamente, ho recitato sul palcoscenico del mondo il dramma del mio ego e ho sprecato la mia vita. Tutta la sofferenza inutile viene dalle situazioni che le persone fabbricano perché sono prese dall’attività assurda che lo scenario del loro ego detta loro.

Per liberarti dalla schiavitù dell’ego, vivi dunque sul piano del flusso d’esperienza reale, istante dopo istante, e smetti di perderti nelle tue immagini di te. L’attenzione per l’istante, la vigilanza che impedisce alla mente di smarrirsi nei pensieri, la piena coscienza del corpo vivente, una visione di ampio respiro sulle situazioni, la considerazione sincera e aperta dell’esistenza reale degli altri: tanti modi di ridurre l’impero dell’ego

Lascia che le sensazioni si schiudano da sé invece di raddoppiarle, di offuscarle e di ricoprirle di raffiche di pensieri. la duplicità inizia lì. Vivi per raccontarlo, per raccontartelo o piuttosto vivi, molto semplicemente, qui e ora?” (Pierre Lèvy, Il fuoco liberatore, Luca Sossella ed.)

domenica 6 novembre 2016

Una mente senza radici



“La maggior parte delle persone è felice
quando permette alla propria mente di esserlo.”
(Abraham Lincoln)

“Dobbiamo eliminare le radici della mente. Se permettiamo di svilupparle, ci intrappoliamo sempre negli stessi pensieri. Tendiamo a dirci che possiamo essere felici soltanto a certe condizioni: il tempo deve essere bello, né troppo freddo, né troppo caldo; dobbiamo aver mangiato bene; dobbiamo divertirci e così via. Quando poi le condizioni mutano, la mente diventa infelice o irata. Il nostro stato d’animo cambia in un istante.

Se, per esempio, ci viene fame, ecco che siamo di malumore. Fino a poco tempo prima eravamo felici e ora, all’improvviso, tutto è cambiato. Non è saggio lasciare che le condizioni esterne controllino la nostra mente. È facile destabilizzare il nostro ego. Inoltre, se non stiamo attenti, la mente si attaccherà ad atteggiamenti e a principi rigidi.

Comunque, se addestreremo la mente in modo da essere più rilassata, svilupperemo anche una maggiore resistenza alle circostanze esterne e all’impermanenza. Questo non significa che non dovremo avere una direzione definita, ma che potremo seguire il flusso della vita. Capiremo che creiamo una versione soggettiva della realtà attraverso le nostre percezioni e interpretazioni; che le cose non sono fisse e che è facile che gli altri abbiano una versione diversa dalla nostra.

Per esempio, se giudicate qualcosa particolarmente bello e molto attraente, questo non è necessariamente vero per le altre persone. Potrebbe trattarsi di un essere umano, di un quadro o di una casa. Qualunque cosa sia, è una creazione della vostra mente. Perché dovrebbe essere uguale per tutti? Ognuno di noi si crea la sua realtà personale, e accettare questa idea è liberatorio. Ecco cos’è la compassione.

Può sembrare una contraddizione ma, se riuscite ad apprezzare una mente priva di radici e capace di fluire con le cose, allora potrete cominciare a domarla. Forse sentir parlare di una mente senza radici è sconcertante, perché spesso noi cerchiamo nella vita qualcosa che ci radichi, soprattutto nel campo delle idee. Anche la mente ha una propria personalità - il modo in cui tendiamo a giudicare il mondo e la gente, le nostre concezioni, i nostri filtri, i nostri occhiali.

Ma, da un punto di vista positivo, se la mente è senza radici allora crescono le possibilità, troviamo definitivamente la libertà. Questa è la chiave per aprire la porta della realizzazione, della compassione, di ogni cosa. Grazie alla meditazione domiamo questa mente priva di radici, senza però incatenarla. Favoriamo la chiarezza e ci focalizziamo, mentre permettiamo alla mente di fluire e di essere libera, libera di indicarci la via.

Possiamo vedere con nitidezza la meta che ci ispira; e saremo anche in grado di impegnarci a raggiungerla e di capire che cosa dobbiamo fare quotidianamente. È come trovarsi di fronte ad uno scrigno di gioielli: con un po’ di comprensione e di accettazione di ciò che siamo, possiamo aprirlo e vedere che cosa contiene. Non vi raccomando, mentre meditate, di cercare di fermare i pensieri o di evitarli.

Sì, essi sono prodotti della mente e voi volete scoprire gradualmente la vostra natura interiore, ma è molto difficile liberarsi dei pensieri. se vi sforzate di farlo, invece di ottenere una mente chiara, in realtà ve la ritroverete piena. Raccomando quindi di permettere ai pensieri di sorgere e poi di andarsene gentilmente. Non concentratevi su di essi, prendete nota e lasciate che scivolino via.

La vostra mente è come un bambino che provoca troppo rumore; se fate in modo che se ne renda conto, si accorgerà del problema e alla fine si calmerà da solo. Dunque dovete essere pazienti, anche con la mente; a poco a poco le proteste e le domande si acquieteranno. I pensieri verranno ma, poco a poco, se ne andranno - positivi, negativi, questo non ha importanza. Non vi fissate, lasciateli andare. Lentamente la mente si calmerà in uno stato naturale e voi troverete la pace.”

(Gyalwang Drukpa, Vedere il cielo in un fiore selvatico, Mondadori)

giovedì 3 novembre 2016

Nessuno nasce, nessuno muore



“Sarai libero quando riconoscerai che la Pura Coscienza
che proprio ora ascolta, è la tua Vera Natura.
Rimani solo così nel normale stato dell’Essere.
La tua essenza è già perfetta.”
(Nisargadatta Maharaj)

Avere informazioni sulla vita di un maestro spirituale può aiutarci a comprenderlo meglio, ma nel caso di Nisargadatta Maharaj è diverso, perché la sua vita non è affatto eccezionale. Inoltre, egli era contrario a parlare del suo passato. Riferendosi agli eventi della sua vita, Maharaj afferma: «Questa è una materia morta - morta come le ceneri di un fuoco estinto. Non mi interessa. Perché dovrebbe interessare voi?» E aggiunse: «C’è forse qualche passato? Invece di sciupare il vostro tempo in una inutile impresa, perché non andate alla radice della questione e indagate sulla natura del Tempo stesso? Se lo farete, scoprirete che il Tempo non ha sostanza in quanto tale, ma è soltanto un concetto.»

A causa di questa reticenza a parlare di se stesso abbiamo poche notizie sulla sua infanzia. Dagli amici intimi e dai parenti stretti sappiamo che Nisargadatta Maharaj nasce a Bombay nel marzo del 1897 durante il plenilunio che coincise con la festa di Hanumat Jayanti. Fu chiamato Maruti perché - per gli induisti - questo periodo è dedicato al culto del dio-scimmia citato nel Ramayana chiamato Hanumat o Maruti. Sappiamo che il padre si chiamava Shivrampant Kampli e che era di famiglia povera e che aveva lavorato come domestico a Bombay prima di improvvisarsi piccolo proprietario terriero e di trasferirsi con la famiglia in un piccolo villaggio tra i boschi del distretto di Ratnagiri, in Maharastra.

Qui Maruti crebbe con poca istruzione perché conduceva le bestie al pascolo, lavorava nei campi e faceva piccoli lavori in casa. Ma il ragazzo aveva il dono di una mente acuta, vivace e curiosa. Suo padre aveva un amico bramino, un uomo devoto e molto più istruito della media chiamato Visnu Haribhau Gore, con cui si intrattiene a parlare di argomenti religiosi, mentre il giovane li ascoltava con grande interesse. Sappiamo che per il giovane Maruti, il saggio Visnu Haribhau Gore diventò il simbolo dell’uomo ideale, cioè l’uomo gentile, saggio e onesto.

Quando ebbe diciotto anni, il padre muore lasciando una vedova, due figlie e quattro figli in gravi difficoltà economiche, perché la loro fattoria non produceva abbastanza cibo per tutti. Allora il fratello maggiore andò a Bombay per cercarsi un lavoro e, subito dopo, anche Maruti lo seguì e si impiegò per qualche mese come impiegato, ma restò disgustato dall’essere sfruttato e si dimise. A quel punto, Maruti decise di avviare un commercio e aprì un piccolo emporio dove vendeva abiti da bambini, tabacco e sigarette fatte a mano.

Nel tempo la sua attività migliorò garantendogli una certa tranquillità economica, perciò Maruti si sposò e gli nacquero un figlio e tre figlie. La sua vita giunse alla mezza età senza eventi particolari tranne l’essere stato un padre di famiglia, infatti sappiamo che non c'erano indizi che mostrassero la sua eccezionalità. In questo periodo, tra i suoi amici più cari c’era un certo Yashwantrao Baagkar seguace di un maestro della corrente induista del Navata Sampradaya: Sri Siddharameshwar Maharaj. Una sera l’amico lo condusse dal suo guru, e l’incontro segnò il punto di svolta nella sua vita.

Sri Siddharameshwar Maharaj gli assegnò un mantra e le istruzioni per praticare la meditazione. E, da subito, Maruti ebbe delle visioni durante la meditazione e talora andò in trance. Durante la pratica qualcosa gli esplose dentro e la sua identità si dissolve nella consapevolezza universale mentre entrava nella dimensione della vita eterna, come disse lui stesso. Da quel momento finì di esssere Maruti e divenne Nisargadatta Maharaj.

A proposito di questo fatto, disse che all’origine della sua realizzazione c’era stata la sua fede totale nel suo guru. Disse che: «Il maestro, il discepolo, l’amore e la fiducia tra loro sono un tutt’uno, non una serie di fattori separati - e poi aggiunse che - se mancasse anche uno di questi componenti, non ci sarebbe la luce» e poi affermò che se siamo capaci «di avere fede e di obbedire si troverà un vero guru. O meglio, egli ti troverà.» Dopo la sua Realizzazione egli iniziò a vivere una doppia vita, infatti continuò a gestire il suo negozio, ma ormai era divenuto troppo diverso dall’uomo che era stato in passato.

Non aveva più la mentalità del commerciante orientato al profitto materiale, per cui decise di lasciare tutto e indossò gli abiti del pellegrino e andò nei luoghi sacri dell’India. A pieni nudi prese la via della montagna e arrivò fino all’Himalaya dove aveva deciso di trascorrere il resto della sua vita in meditazione. Ma, quando fu arrivato in quei luoghi, comprese che la sua scelta era assurda, perciò decise di ritornare in famiglia. Comprese che, una volta che si è giunti nella dimensione della vita eterna, il luogo in cui si vive è indifferente, perché la vera realtà è sempre presente.

Maharaj insegnava che la coscienza è il solo “capitale” con cui nasce l’essere senziente: questa è la situazione apparente. La vera situazione è che “ciò che nasce è la coscienza che ha bisogno di un organismo per manifestarsi, e quell’organismo è il corpo fisico.” L’essere senziente possiede solo il senso di esistere, egli sa di essere presente, sa di essere la coscienza cioè è consapevole di essere lo spirito che anima la struttura fisica del corpo. La coscienza individuale si mostra solo in forme mutevoli per cui sorge il concetto di “ un io separato.”

In ogni individuo si riflette l’Assoluto sotto forma di consapevolezza, perché è così che la pura Consapevolezza diventa consapevolezza o coscienza di sé. L’universo è un continuo fluire in cui si proiettano innumerevoli forme materiali. Ogni volta che una forma viene infusa di prana ossia di energia vitale, la coscienza appare come un riflesso della Consapevolezza Assoluta che si riflette nella materia. La coscienza è un riflesso dell’Assoluto sulla superficie della materia, poiché la pura Consapevolezza può diventare coscienza soltanto se usa un oggetto materiale in cui può riflettersi.

Tra la Consapevolezza e la coscienza, dice Maharaj, esiste una frattura che la mente non può attraversare. La coscienza è vincolata al Tempo, per cui scompare quando il veicolo fisico finisce, ma resta il “capitale” con cui nasce l’essere senziente. La coscienza è la sola connessione con l’Assoluto, perciò è l’unico strumento per mezzo del quale l’essere senziente può sperare di trovare una illusoria liberazione dall’individuo che crede di essere un io.

Per mezzo dell’unione con la sua coscienza e considerandola l’Atma ossia il suo Dio, l’essere senziente può conseguire ciò che si ritiene impossibile. Se sappiamo realizzare questa unione entriamo “nello stato originario in cui siamo puro essere-consapevolezza-beatitudine” ma “quando veniamo in contatto con la coscienza, siamo soltanto la testimonianza (totalmente separati) dei vari movimenti della coscienza.” Maharaj superò questo concetto di essere un corpo differenziato, e la sua mente fu perennemente ricolma di gioia, di pace e di magnificenza.

Nisargadatta era un semi-analfabeta e tale restò per tutta la sua vita, ma i suoi insegnamenti sono più illuminanti delle dottrine degli studiosi più famosi. I suoi discorsi ci sono restati per merito della registrazione dei dialoghi che ebbe con i numerosi visitatori che venivano da tutta l’India e da tutto il mondo per conoscerlo. Maharaj parlava solo marathi, e un suo seguace lo accompagnava per tradurre le sue parole. Ma, le traduzioni non riescono a rendere lo spirito acuto e spiritoso e la ricchezza del suo linguaggio e, tanto meno, possono rendere l’idea dell’espressività del suo sguardo oppure il suo gesticolare.

Il suo discepolo e traduttore, Ramesh Balsekar, scrive che la principale caratteristica dei suoi discorsi era la loro totale spontaneità, infatti nessun argomento veniva selezionato in anticipo ma tutto veniva improvvisato al momento. Le parole e le frasi usate dal Maharaj avevano “un’elasticità che ogni volta dona loro una freschezza esilarante.” Nisargadatta non aspettava che la stanza si riempisse di persone, ma iniziava a parlare a voce alta quando ne aveva voglia anche solo per poche persone.

Se voleva parlare di qualcosa, iniziava a parlare anche per un solo visitatore a cui esponeva il suo insegnamento. Quando avveniva in questo modo, non si capiva se parlava a se stesso o se aspettava una risposta dal suo interlocutore. Se doveva incontrare un nuovo visitatore gli chiedeva di lui e del suo retroterra familiare, gli chiedeva da quanto tempo era interessato alla ricerca spirituale, e le ragioni specifiche della sua visita. Questo approccio così intimo gli era necessario per capire come potesse aiutare al meglio ogni singolo visitatore, ma Maharaj era preoccupato che la sua risposta fosse di aiuto anche per tutti i presenti.

In altri casi, cioè quando qualcuno gli chiedeva di parlare in modo confidenziale, si sedeva vicino a lui per parlare con più agio. Ramesh Balsekar racconta che egli ascoltava attentamente, sempre sereno e silenzioso. A volte lo scintillio dei suoi occhi dimostrava - e gli intimi lo sapevano bene - che sarebbe iniziata una sortita verbale che avrebbe sgonfiato la presunzione degli ignoranti che venivano a “testare” il livello di realizzazione che aveva conseguito. Se qualcuno cercava di sviare il discorso dal tema principale, Maharaj riportava il filo del discorso nel solco giusto.

Ramesh rivela anche che era anche un superbo attore, perché i suoi lineamenti erano molto mobili e i suoi grandi occhi erano molto espressivi. La sua voce vibrante era supportata dall’espressività, perché usava anche dagli effetti gestuali e sonori per aiutare la comprensione di ciò che diceva. Una volta parlò delle età della vita umana davanti a un attore professionista straniero che restò incantato dalla sua brillante esibizione di mimica e retorica.

Maharaj lo fissò con il suo ironico sguardo scintillante e disse: «Sono un bravo attore, vero? - e aggiunse - So che hai apprezzato questa mia piccola esecuzione. Ma ciò che hai visto ora non è nemmeno una parte infinitesimale di ciò che sono capace di fare. L’intero universo è il mio palcoscenico. Non soltanto recito, ma costruisco il palcoscenico e tutto l’equipaggiamento; scrivo la sceneggiatura e dirigo gli attori. Sì, io sono l’unico attore che assume i ruoli di milioni di persone e, ancor più importante, questo spettacolo non finisce mai!”

Buona erranza
Sharatan