martedì 29 luglio 2008

Fare gossip per non soffrire


Angosciati dal mondo reale, oppressi dalla calura implacabile, d’estate ci rifuggiamo nel gossip. E se qualcuno obietta che non è vero, che non compra alcuna testata di cronaca rosa, sono qui per dissentire, perché in realtà tutti guardiano i telegiornali che sono al 50% inficiati dal gossip, dal pettegolezzo, dal taglia-cuci delle vecchie portinerìe che si è spostato in televisione trasformato in pseudo-informazione. Se poi Mammuccari afferma che la Cultura moderna consiste proprio in questo, santo Dio, perché proprio noi dovremmo essere degli ignoranti? E così abbiamo sdoganato anche la malacreanza, l’opposto di quello che mia nonna chiamava la buona creanza cioè la buona educazione, consistente nel fingere di non sapere le disgrazie altrui, in modo che il malcapitato potesse almeno salvare la faccia.
Potenza dei media! Se prima era sufficiente starsene fuori dai pettegolezzi delle piazzette e dalle ciarle delle parrucchiere, oggi è sufficiente possedere un televisore per essere, come per miracolo, informate prontamente sui nuovi intrallazzi degli emeriti sconosciuti che vogliono farci passare per nuovi divi. Ma le idee sono poche e, come avverte Zygmunt Bauman, “La fama, per molti, serve a lenire il dolore del mondo, pare una sorta di polizza di garanzia contro gli imprevisti che i comuni mortali devono affrontare. Come ogni altra forma di coabitazione umana, la nostra società liquido-moderna è un congegno che cerca di rendere possibile convivere con la paura. Vivere costantemente sotto l’occhio dei media viene considerato una strategia che può funzionare.” La soluzione pensata sarebbe allora una sorta di Truman Show volontario, un suicidio della mente, l’importante è non vedere il vero reality: il mondo reale.
E la realtà è ben angosciante, perchè ci racconta di un nuovo incidente alla centrale nucleare di Tricastin, a 40 chilometri da Avignone, nel sud della Francia, non lontano dalla Costa Azzurra e dal confine con l'Italia. Allucinati, leggiamo che siamo all’incidente n. 3, dopo quello del 7 luglio scorso, in cui per errore, sono stati riversati 74 chili di uranio in due fiumi e dopo quello del 23 luglio, in cui cento dipendenti sono stati “leggermente contaminati” con radioelementi fuorusciti da un condotto. “Siamo al di sotto della soglia”, ha rassicurato Jean Girardi, un ingegnere della centrale, per cui possiamo tornare tranquillamente ai nostri pettegolezzi. E’ il gossip il gusto della vita, ovvero è la via per le nostre nuove vite esemplari, altro che Plutarco!
Se il telegiornale è stato l’architrave della mia infanzia insieme alle previsioni del tempo e all’almanacco del giorno dopo, anche qui, da un bel pezzo, è arrivata la cultura moderna di Mammuccari. Sfido a non trovare una qualsiasi delle reti che non spenda tempo per il nuovo calendario o nel campionario del gossip. Il solo fatto di apparire in televisione è la cosa che rende importanti: se appari esisti, altrimenti sei un nulla. E se un quarto d’ora di celebrità non si nega a nessuno, come voleva Andy Warhol, sarà per questo che dei deficienti dodicenni si sono ripresi sul telefonino mentre sfasciano la loro scuola?
L’immagine di donna che esce fuori dalla tv è una macchietta con labbra a gommone e due cocomeri nella maglietta, scema come una gallina impazzita e deficiente al punto giusto, al punto cioè di mancare di ogni dignità, aprendo la stura alla pletora di scemenze che gli hanno inzeppato a forza nella scatola cranica, prima di spingerla in scena e che lei ripete di fronte alle telecamere, sorridente e con lo sguardo beota. Nell’impero del trash si ammirano corpi fatti con il bisturi, perfetti e finti, ma per i cervelli non c’è intervento, meglio anoressici di contenuti. Le donne dovrebbero essere indignate, ma abbozzano, perlopiù cercano di trovare il gonzo che possa aiutarle ad emergere: una volta si definiva il principe azzurro, ora è l’unico buon partito che non avrà mai flessioni elettorali, pubblicizzato anche dal solerte Cavaliere. E se qualcuna se lo trova anche panzuto e brizzolato, non propriamente aitante ed azzurro? E che vuoi farci? Se è omo de panza è omo de sostanza, si diceva una volta, ed in effetti, per farsi una posizione qualche annetto passa, allora va bene anche con panzaruto e brizzolo-crinuto, sempre che il resto aiuti a renderlo appetibile.
Forse qualcuno avrà pensato che fornire lo stereotipo suddetto solo in versione femminile fosse limitante, allora la cultura moderna si è attrezzata per fornire lo stesso demente stereotipo, anche in versione maschile, fornendoci platee di tronisti nerboruti che occhieggiano e sculettano come le galline sceme; sono i galletti di Lele Mora, i boys che vengono immortalati nel 2006 in una foto storica, mentre massaggiano i piedi dell’ex parrucchiere di Verona, adagiato tra morbidi cuscini ed indolente come un sultano orientale. Sono solerti fanciulli che aspettano di potere avere la loro grande occasione, sorridenti e molto disponibili.
E noi ci nutriamo di queste belle attualità, che devono farci dimenticare la reality, non quella dell’isola o del grande fratello, ma quella della vita reale, quella in cui dovremmo essere molto più vigili e molto meno ottusi. Ma per quale via scorgere una salvezza, come uscirne, come trovare un rimedio?
Anna Guaita, giornalista del Messaggero, indagando sulle tendenze della “Nuova America,” scopre che: “Le vendite di rossetto, gelato e birra, e gli abbonamenti ai siti porno sono dunque in controtendenza rispetto alla maggior parte dei prodotti e dei servizi. Gli economisti hanno un'etichetta tecnica per questi beni : li chiamano “affordable luxury”, lussi che pur in fase di recessione la maggioranza della popolazione può continuare a permettersi e che diventano un rifugio psicologico.” Se la tendenza è questa allora mi conviene mangiarmi un bel gelato, berci sopra una birra e, dopo essermi messa un bel rossetto, farmi una bella scorpacciata di filmini porno. Sarà anche un rifugio psicologico, ma io già sento che sono ancor più aumentate tutte le mie paure.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

domenica 27 luglio 2008

La notte e l’anima




In grembo alla notte nevosa, d’argento,
immensa si stende dormendo, ogni cosa.


Solo una eterna sofferenza è desta
dentro l’anima mia.


E mi domandi perché mai si tace
l’anima mia, senza versarsi in grembo
alla notte che sogna?


Colma di me, traboccherebbe tutta
a spegnere le stelle.


(Rainer M. Rilke)

Sii paziente



Sii paziente verso tutto ciò

che è irrisolto nel tuo cuore e…

cerca di amare le domande,

che sono simili a

stanze chiuse a chiave e a libri scritti

in una lingua straniera.

Non cercare ora le risposte

che possono esserti date

poiché non saresti capace

di convivere con esse.

E il punto è vivere ogni cosa.

Vivere le domande ora.

Forse ti sarà dato,

senza che tu te ne accorga,

di vivere fino al lontano

giorno in cui avrai la risposta.


(Rainer M. Rilke)

venerdì 25 luglio 2008

Quella volta che litigai con Dio


Tutti miei problemi con il cattolicesimo iniziarono ai tempi della prima comunione. Sottoposta alle consuetudini della mia famiglia, sono stata mandata a fare la mia preparazione al sacramento, cioè il catechismo verso i 10 anni. Il mio insegnante era un anziano sacerdote, che ci consegnò a tutti una bella copia del Messale Romano e una del Vangelo e ci iniziò a parlare dei primi elementi della dottrina cristiana. La lezione di catechismo era costituita da una serie di domande e di risposte già preconfezionate a cui non si poteva argomentare: essenzialmente la base era il Catechismo di Pio X, a cui si argomentava rispondendo con una formuletta mandata a memoria, come un pappagallo.
Generalmente non ero molto soddisfatta delle risposte, così iniziai a leggere il Vangelo, ed i problemi iniziarono con la parabola del fico sterile. La parabola si conosce in tre versioni leggermente diverse perché in Matteo e Marco si racconta che, Gesù ebbe fame e cercò dei fichi su di un albero che non ne aveva, per questo lo maledisse e l’albero si seccò. Ai discepoli meravigliati Gesù rispose: “Abbiate fede in Dio. In verità vi assicuro che se uno dirà a questa montagna: “Sollevati e gettati in mare”, e non esiterà in cuor suo, ma crederà che quanto dice avvenga, gli avverrà. Per questo io vi dico: Tutto quello che voi chiederete pregando, credete di averlo già ottenuto e vi avverrà. E quando vi mettete a pregare, perdonate, se avete qualcosa contro qualcuno, affinché il Padre vostro che è nei cieli, vi perdoni le vostre colpe".
La frase mi apparve estremamente sibillina, non capivo proprio che c’entrasse con il povero fico maledetto e rinsecchito. Nella versione di Luca le cose sono diverse, e Gesù racconta una parabola : “Un uomo aveva un fico piantato nella sua vigna. Andò a cercare il frutto, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco sono già tre anni che vengo a cercar frutto da questo fico e non ne trovo; taglialo! Perché deve occupare il terreno inutilmente?”. Il vignaiolo gli rispose: “Signore, lascialo ancora quest'anno, per darmi il tempo di scavar tutt'attorno e mettergli del concime; se farò dei frutti, bene; se no, lo taglierai.”
Nel tempo ho capito tante altre cose e di maggiore spessore, leggendo i testi sacri in modo diverso, ma in quel momento, con la mia testa da bambina, rimasi profondamente indignata per l’ingiustizia fatta al povero fico, già sterile e inutile su cui Gesù s’infieriva, facendolo seccare. Era una palese ingiustizia infierire su un essere debole come il fico. Mia nonna, che era profondamente cristiana, da sempre una grande devota della Madonna e di Gesù, mi aveva sempre insegnato che Gesù amava tutti, ma per i fico mi sembrava che tutto questo amore non lo avesse mica dimostrato!
In seguito ho imparato a leggere tra le righe delle Sacre Scritture, oggi sono appassionata di esegesi e di cristologia, ma allora una grande ingiustizia con un misero fico fu sufficiente e rendermi antipatico una divinità che, per fame si fa prendere dal nervosismo, e arriva a seccare un povero albero perché non può dare frutti fuori stagione. Mi ha lusingato scoprire che, anche il filosofo matematico e scrittore britannico, premio Nobel per la letteratura nel 1950, Sir Bertrand Arthur William Russell, si scandalizzò per il povero fico, fino a dichiararlo tra i motivi per cui non poteva essere cristiano.
Nel tempo, ho imparato a leggere i testi sacri come dei meraviglioso koan, delle pillole di saggezza, delle forme elevate di insegnamento, ho capito che il fico sterile è colui che non produce frutti coltivando sé stesso, colui che vive come un morto, che vegeta nella vita, che risponde un “ni”, che non sa fare scelte. Colui che non ha coraggio in sé stesso, colui che non crede in nulla. Fico sterile è colui che non ha la speranza di migliorare e di potere avere un sogno, come può essere vivo colui che non ha sogni e non ha ideali? Ma come poteva parlarci modernamente un uomo di 2.000 anni fa, come poteva comunicare in modo migliore, se non con le sue stesse parole: “tu quando vuoi pregare, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa.” Ed il secretum di cui dice Gesù è la parte più sacra del tempio, ed il tempio interno è il cuore, quel dio è già nel tuo cuore. Così si leggono i testi sacri, soprattutto quando il dito non deve distrarre dalla luna! Vista così la cosa è pienamente condivisibile. Messa così, la parabola mi è sembrata anche molto più plausibile e coerente con l’immagine che mi ero creata del giovane maestro, che indicò un dio molto più misericordioso, di quello terribile e vendicativo del Vecchio Testamento, che indicò dio come un padre. Ancor più nella parabola si nasconde un grande insegnamento di grandezza dell’essere umano quando si dice che “se uno dirà a questa montagna: “Sollevati e gettati in mare”, e non esiterà in cuor suo, ma crederà che quanto dice avvenga, gli avverrà.” Veramente colui che crede e lotta per conquistare i suoi sogni, che ha una fede incrollabile nei suoi ideali, alla fine vince. La storia è piena di esempi di tale genere, di grandi visionari che hanno saputo cambiarla. Ma questo è stata una conquista più matura, che non toglie nulla alla mia indignazione da bambina, per cui ancora oggi, non posso essere cattolico-romana, e se potessi scegliere, vorrei essere cristiana alla musulmana, una che si chiude nella sua stanza per parlare con il suo Dio, senza alcuna intermediazione. Questo concetto ricorda il Dhammapada, in cui è scritto “Tu sei il tuo solo maestro. Chi altro può guidarti? Diventa padrone di te stesso e scopri il tuo maestro interiore.”
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

martedì 22 luglio 2008

La beffa dei Signori del Karma


Ad un gruppo di amici, con cui facevano cenette invernali a giro di case, un noiosa sera proposi un giochetto di società che riscosse molto successo e che chiamai “Chi vorresti essere stato?”
Era un giochino che si faceva designando una persona come protagonista e gli altri come oppositori. Il protagonista deve dichiarare un’epoca in cui vorrebbe avere vissuto e deve presentare il suo personaggio, spiegandone i tratti e le caratteristiche. Gli oppositori devono fare domande, opposizioni, obiezioni e cercare di convincere il protagonista a rivedere o rinnegare il personaggio prescelto. Il gioco è solo nella difesa o nell’attacco all’identità storica prescelta, nessuno vince nulla ma ci si divertiva molto. Del gruppo faceva parte anche il mio amico Mario, una persona di grande onestà intellettuale e di buona cultura, lettore vorace e fine spirito scorpionico su cui riusciva difficile avere ragione: insomma un degno oppositore. Il gruppo era molto affiatato per la nostra buona amicizia e ci divertivamo molto arrivando ad infuocarci molto nelle arringhe e nelle difese. In queste figure storiche prescelte ognuno metteva fantasie, simpatie e identificazioni per luoghi o periodi storici che in qualche modo facevano capire tanto della persona, perché profondamente rivelatrici dell’anima e della sensibilità. Nei personaggi che presentavo e che difendevo, anche io mettevo le mie fantasie; indizi di tutte quelle anime che dormono dentro il mio inconscio universale interno, come direbbe Jung.
Tra i miei personaggi preferiti, vinsi alla disputa con Mario, grazie ad una vita ai tempi della mitica Baghdad, nell’età d’oro del califfo abasside Harun ar-Rashid “Aronne il ben guidato” il mitico califfo delle “Mille e una notte”. Alla fine me la invidiarono tutti!
La cultura araba mi ha sempre affascinato: l’arte, l’architettura, il sufismo, la loro poesia, le regole della cavalleria araba, poi la filosofia, tutte le arti e la loro splendida calligrafia. Per inciso la calligrafia araba è l’arte mistica per eccellenza, poiché il calligrafo è direttamente ispirato da Dio e segue una profonda disciplina interiore, guidato da un maestro Sufi. Io ho una vera passione per gli attrezzi di scrittura, spesso le mie prime bozze sono scritte a mano con penna stilografica. Mi si consenta una modernizzazione più comoda dei pennelli, degli stilo in vetro e delle piume d’oca!
Quelle delle “Mille e una notte”sono state le fiabe che ho amato di più nella mia infanzia, insieme ai "I racconti di mamma Oca" dell’accademico e uomo di lettere francese Charles Perrault, il capostipite della tradizione del Cabinet des Fées nelle corti settecentesche. Le “Mille e una notte” che leggevo erano la versione “castigata” per bambini, con bellissime illustrazioni bianco e nero di inizio Novecento, che raffiguravano moschee panciute e puntute, mercati affollati, cammelli, palme, cortili ombrosi e verdeggianti, califfi in incognito, mendicanti, bellissime odalische e muscolosi geni. Non è facile descrivere le atmosfere in cui mi trovavo a vivere soprattutto nei lunghi e caldissimi pomeriggi estivi quando, con la mia famiglia, ci rifugiavamo in campagna per sfuggire all’afa della città. Non avevo molte distrazioni in quel paese di campagna, per cui il pomeriggio mi sdraiavo su letto, appoggiavo i piedi sul muro, e in posizione di loto rovesciato o con i piedi lunghi sul muro, leggevo le mie storie. Erano pomeriggi con tappeti volanti, principesse ricoperte di veli impalpabili, geni chiusi nelle lampade e soprattutto streghe misteriose. Erano pomeriggi in cui mi strappavo a fatica da quel mondo per andare a giocare, quando il caldo si era affievolito nel tardo pomeriggio ed il coprifuoco di mia madre era terminato e potevo uscire.
Ma nel mio inconscio collettivo personale, sono stata anche un personaggio di Emilio Salgari: un pirata della filibusta, con tanto di mantello, giustacuore di cuoio, camicia con jabot e nastri e stivaloni alla coscia. Un corsaro di quelli suoi, cioè gentiluomi rifugiati nella pirateria per le sventure della sorte, ma meno assurdi e con un senso diverso d’onore, perché io non avrei mandato a morire tra le onde la figlia innocente di Van Gould, Honorata, per avere vendetta su suo padre. E’ invece quello che fa quello scemo di Enrico di Ventimiglia, il mitico Corsaro nero. Quando trovo un film di pirati, soprattutto nelle repliche televisive pomeridiane non me lo perdo mai. Bei film pacchiani, con le attrici cotonate e sovrappeso come si usava negli anni ’60, nell’Italia che cercava di recuperare la fame della guerra mostrando l’abbondanza con donne vistose e volgari, dagli occhi sottolineati con l’eyeliner. Film che vedo non per la loro bellezza ma per nostalgia dei miei pomeriggi con i fratelli della Filibusta. Poi ho una vera passione per gli stiletti, come quelli che ogni pirata porta con sé insieme alla spada. Buffa cosa, ma tra le armi nelle arti marziali ho sempre preferito la spada alla sciabola, sebbene quest’ultima sia molto più efficace della prima perché permette sia colpi di punta che di taglio.
Sulla mia passione per la cultura classica, testimoniano molti dei miei post, in tanti l’amore è apertamente dichiarato. Per molto tempo mi hanno portato al cinema la domenica pomeriggio e mi portavano a vedere il genere mitologico, quei film trash che mostravano i vari Mister Universo, i vari Ursus, Maciste ed Ercole che si scontravano con le creature più anomale, mortali ed immortali, fino al trionfo finale del buono sul cattivo. Le colonne erano di cartone e le scenografie irreali dal punto di vista storico, ma la mia sbobba cinematografica domenicale era giocata tra i cartoni di Disney e il cinema mitologico. Forse per questo mi sono letta tutto il genere dagli “Ultimi giorni di Pompei” a “Fabiola” fino all’immancabile “Quo Vadis?” Con un trittico di tale genere il destino era segnato!
E quando dico che mia madre mi doveva impedire certe letture avevo le mie buone ragioni, ma lei che ne sapeva, povera donna, sicuramente non ha visto la beffa dei Signori del Karma. Gli avevano inviato in dono una strana forma di errante, trascurando di accludere il libretto d’istruzioni, altrimenti avrebbe saputo quanto in noi sia affascinante e letale il potere dell’immaginazione.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

domenica 20 luglio 2008

L'essere diversi è il destino degli erranti!


Sulla mia normalità pochi di quelli che mi conoscono potrebbero metterci la firma, anzi la metterebbero all’opposto, per testimoniare la mia anomalìa. Mio padre, diretto responsabile della mia esistenza e della eredità anomala, di me diceva: “Il tuo cervello funziona con 30 rotelle di cui 29 rugginose e 1 che gira al contrario.” Lo diceva, per inciso, ridendo.
Ho sempre apprezzato il suo contributo, mi lusingava che cercasse di aiutarmi come poteva – poverino - ricorrendo alla psicopatologia meccanica dell’ingranaggio, fosse stato elettrauto, non oso immaginare cosa avrebbe fatto, forse mi avrebbe attaccato alla trifasica e resettato la centralina. Essendo meccanico metteva in campo le sue competenze.
Comunque anche lui poteva starsene buonino, visto che la parte anomala viene da lui, lui che mi aveva proposto di fare società nella sua officina, una donna meccanico la vedeva molto bene, mi vedeva portata secondo lui per la materia. Era un’idea interessante e confesso che ho molte volte rimpianto di non avere accettato. Era molto bravo anche nel restauro di moto d’epoca, di cui prendeva carcasse rugginose e restituiva moto luccicanti. Penso di essere stata una delle poche bambine portata a fare un giro tra l’officina di un cromatore e per i piazzali degli spasciacarrozze, alla ricerca da carcasse da cannibalizzare. I pezzi di ricambio d’epoca oggi puoi trovarli in Internet, ieri si cercavano scarufando negli sfasci, nei cimiteri delle auto. Era un uomo strano, più di quanto potessi dirne, ma l’idea della donna meccanico non era mica male!
Avrei dovuto dirgli che colui che è causa del suo mal pianga sé stesso, era lui che mi aveva programmato, fosse stato per me stavo liberamente dov’ero. Era la mia risposta in ogni nostro litigio e lui diceva che ero una testacalda disgraziata. Verissimo, sono una testacalda disgraziata, ora lo ammetto. Ero di casa al pronto soccorso, ero sempre a cacciarmi nei guai: la curiosità uccise il gatto, si dice, a me mi ha risparmiato ma qualche buona cicatrice mi è rimasta. Fatto sta che i sintomi dell’anomalo erano nel mio Dna, quello malsano delle rotelle difettate, per interderci.
Credo che mia madre avrebbe fatto meglio ad impedirmi di leggere tutto il Salgari, Verne, London, Molnar & Co. che mi sono letta, ma anche qui sarebbe stata una fatica persa, non gli avrei dato retta. Nella prima infanzia sono stata bulimica di libri, ora ne sono tossicodipendente. Mi sommergono ma non posso fare a meno di leggere, penso sia una droga, ad oggi ho anche un disco esterno pieno di e-book, la manìa è oramai inarrestabile. I formati elettronici occupano poco spazio, sono solo più faticosi da leggere, ma io sono adattabile.
“Un rifugio interiore – afferma Paul Auster - è un luogo dove un uomo si reca quando la vita nel mondo non è più possibile.” Il mio rifugio interiore sono stati i libri mentre quello esterno sono stati gli amici, perché ne ho avuti di meravigliosi. Ho avuto anche l’opportunità di trovare molti maestri sulla mia strada, per cui non mi sento affatto sfortunata da questo punto di vista.
Quando ho letto il mio primo libro sulla dimensione spirituale “Reincarnazione” di Manuela Pompas sono rimasta affascinata dal nuovo universo, infinito e multicolorato che vedevo comparire al mio sguardo. Tutto mi ha risuonato come vero e penso di avere sempre saputo che torniamo più volte per completare il nostro percorso evolutivo. In seguito nella filosofia presocratica ho ritrovato dei distillati di conoscenza eccezionali. Tante delle teorie della fisica moderna sono state predette da loro e altrettante delle loro teorie le ho ritrovate nella filosofia orientale, allora mi sono fatta l’idea che in fondo alle concezioni universali, le grandi verità hanno un’assonanza comune a tutti i tempi e a tutti i luoghi. Una verità sottintesa che aspetta solo di essere svelata, ma non creata, solo riconosciuta. Questo sentimento viene vissuto quando ci accorgiamo che una cosa è per noi familiare, l’abbiamo sempre saputa ed è profondamente nostra, quando ritorna la accogliamo come il figliol prodigo che torna a casa.
Essendo le religioni inflazionate dalla loro necessità d’impresa, l’incremento di anime, ne ho profondamente diffidato fin dall’età di 8 anni. L’idea del triangolo con un’occhio onnivedente mi ha sempre inquietato. Uno che ti segue sempre, che ti spia e ti controlla, che ti conosce prima che tu fossi nel grembo di tua madre, uno che può rinfacciarti tutto quello che avviene in pensiero, parola, opera o omissione. Scusate ma è un grande rompi, se fosse umano potresti anche sfuggirgli e denunciarlo, ma con un entità, che pesci prendi? Dal dio impiccione e guardone sono scappata presto, ma a tante forme del sacro sono arrivata subito dopo. Sacro e non religioso, le cose sono molto diverse: una prospettiva spirituale non impone alcun credo religioso, necessita solo la credenza nelle forze della natura, nei magnetismi, nelle leggi della fisica pura. La reincarnazione non offre un’ottima manifestazione del principio di conservazione dell’energia totale? La teoria delle superstringhe non è forse un interessante partenza per la concezione del Multiverso? E forse il paradosso del gatto di Erwin Schrödinger, non dimostra in pieno come sia fallace l’applicazione della teoria dei quanti, in determinate situazioni? Schrödinger, fisico teorico austriaco, fu tra i fondatori della meccanica quantistica, di cui nel 1926 definì un'equazione che porta il suo nome e che nel 1933 ricevette il Premio Nobel per la fisica. Un’altra mosca bianca che ha avuto l’intelligenza di darsi torto quando la correttezza lo ha richiesto: un carattere curioso ed anticonvenzionale che si occupò di molte discipline, tra cui la filosofia antica, la poesia, la biologia, la fisica, la termodinamica. In genere a me piacciono molto le persone che si interessano di varie cose, sono meno noiose di coloro che vivono in un universo ad una sola dimensione che, guarda caso, di solito è la loro.
Buona erranza
Shararan ain al Rami

venerdì 18 luglio 2008

La perfezione del Vuoto


La bellezza, per la filosofia presocratica, è ciò che risplende, che colpisce gli occhi, ciò che è luminoso, ciò che abbaglia.
La bellezza per avere un effetto tanto travolgente deve avere qualcosa di divino, di sovrumano. Platone disse: "Quando io vedo un volto bello, un volto di aspetto divino, allora mi ricordo di una vita precedente, in cui avevo visto le idee," celebrando così l’associazione del Bello con il Bene.
Nel Medioevo si arrivò ad identificare la bellezza come simbolo del maligno e si mortificò il corpo umano come mezzo della dannazione e fu solo nel Rinascimento che si rivalutò la bellezza del corpo, celebrandone la perfezione e l’armonia delle forme. Il recupero del classicismo, in epoca rinascimentale, intende il corpo dell’uomo non solo un corpo estetico ma anche un corpo etico; l’uomo misura di tutte le cose. Di tale misura si offrono i requisiti costituiti dalle caratteristiche esteriori di misura, ordine, proporzione, simmetria, convenienza, decoro, etc. sulla scia di Aristotele che, nella sua Poetica affermava “la bellezza consista nella grandezza e nell’ordine.”
Per Hegel, il Cristianesimo è stata la religione che ha riabilitato il brutto, poiché è una religione dello spirito e non del corpo: per questo Hegel fece derivare l’estetica dal mondo greco classico. Parliamo così tanto del Bello che trascuriamo invece la sensibilità, dimenticandoci che c'è sempre un qualcosa di più, nella nostra percezione di un oggetto, rispetto al puro e semplice oggetto percepito. Fino a che punto la percezione viene condizionata dalle nostre personali convinzioni?
E’ assurdo parlare di estetica come noi la intendiamo, per il pensiero cinese e poi per quello giapponese; infatti tali civiltà non hanno sviluppato alcuna differenza tra teoria e pratica, quindi non concepiscono affatto una estetica intesa come “teoria” o “scienza del bello.” In tali civiltà, la bellezza viene fatta valere di volta in volta, in diversi contesti e in diverse occasioni, senza dovere creare una categoria estetica, poiché essi credono che i tentativi di elaborare delle teorie, finiscano per limitare le esperienze, abbassandone la qualità e diminuendone l’intensità. Lo Zhuangzi afferma che “quando regna la virtù perfetta […] gli uomini si amano l’un l’altro senza conoscere l’ideale dell’amore umanitario.” Il pensiero orientale manifesta una marcata predilezione per un rapporto diretto con la realtà e soprattutto il pensiero giapponese - come osserva G.C. Calza, tra i maggiori esperti di quella cultura - vi “è un ricettacolo di mezzi toni e sfumature, di spazi vuoti che non vanno subito colmati ma goduti come sono.”
Tali civiltà sono colme di un’infinità di arti che hanno come scopo, non il prodotto estetico ma l’atto che arricchisce tale rapporto, che è un rapporto con le persone, con la natura e con le cose. Alla base di tutte le manifestazioni artistiche e alla fruizione personale di tali arti sta il concetto di “wu” cioè vuoto, ma non la teoria bensì “l’esperienza del vuoto” ottenuta tramite la pratica meditativa. L’ideogramma “wu” nasce dalla stilizzazione di una fascina di fieno sopra un fuoco che la consuma, ed indica ciò che resta dopo l’azione del fuoco: nulla. Il carattere cinese significa “non-esserci”, “non”, “senza” e rimanda ad una assenza determinata, in un vuoto ben determinato. Usando una definizione impropria di “estetica del vuoto” si indica sia una teoria che pone il vuoto come principio ed oggetto di analisi, ma anche l’esperienza meditativa dello stesso. La tradizione del vuoto viene pensata e praticata dal taoismo e poi dal buddismo chan e zen, che hanno alimentato e sviluppato forme d’arte ed esperienze estetiche originali come: le arti marziali, la cerimonia del thè, la calligrafia, la pittura ad inchiostro, la forma poetica haiku, l’arte di disporre i fiori, la ceramica raku, i giardini a paesaggio secco e il teatro No, tutte processi ed insieme oggetti estetici del vuoto. Afferma il Daodejing che “l’Essere è generato dal Non-essere” e “L’Essere e il Non-essere si generano l’un l’altro.” Questa dialettica di Pieno e Vuoto veniva già dichiarata in Aristotele nella sua “Metafisica” in cui si testimonia che “Leucippo e il suo seguace Democrito dicono che gli elementi di ogni cosa sono il pieno e il vuoto, chiamando uno di questi l’Ente e l’altro il Non-ente. Perciò affermano che il Non-ente è quanto l’Ente, perché il vuoto esiste al pari del corpo.” Se incredibili appaiono tali similitudini nell’antico pensiero greco e quello taoista, è ancora più eccezionale come la fisica abbia dato ragione a queste teorie già dal 1919. In quell’anno il fisico britannico Ernest Rutherford, scoprì che l'atomo è costituito principalmente da uno spazio vuoto, al centro del quale si trova un nucleo di dimensioni pari a circa un decimillesimo del diametro dell'intero atomo. Rutherford concluse che la massa dell'atomo è concentrata in massima parte nel nucleo, attorno al quale gli elettroni ruotano percorrendo orbite predefinite. La carica positiva del nucleo viene bilanciata dalla carica negativa portata dagli elettroni, di modo che l'atomo, in condizioni normali, risulti elettricamente neutro: “l’atomo è quasi vuoto […] nell’intervallo non c’è niente.”
Grazie a lui sappiamo che la materia è costituita in gran parte di vuoto, anche se già lo sapevamo dagli scritti taoisti, in cui si affermava che il movimento, nel tempo, trasforma il vuoto in pieno ed il pieno in vuoto. Le vera virtù è quella di colui che sa far tesoro dei tempi del vuoto e del pieno, in modo che ogni cosa manifesti la propria natura nel momento opportuno. L’eccellere in una tecnica dipende dunque dall’esercizio, ma esso non è costituito solo da una semplice ripetizione di gesti finalizzati al dominio della disciplina: esso implica la coltivazione e quindi la capacità di individuare e di seguire i vuoti della cosa; così si ottiene una trasformazione che non è dovuta all’esecutore, ma che si opera per mezzo dell’esecuzione stessa, poiché fluisce spontaneamente manifestandosi. Quando le piccole abilità, allucinate dalla volontà di riuscire, irretite dai mezzi tecnici e dalla volontà di dominio, lasciano il passo alla grande abilità, essa non volendo dominare la materia sulla quale si esercita, non ne viene nemmeno dominata. Da qui nasce la via del Tao, secondo il quale solo colui che fa uso delle cose senza esserne dominato, può ottenerne il dominio; perciò nella vita si ottiene qualcosa solo quando si è finito di desiderarla. La bellezza del vuoto è costituita da cose semplici, l’essenziale è apprezzarne la forma nell’alternarsi di pieno e di vuoto e farlo con una coscienza annullata, facendo il vuoto dentro di sé.
Questa è la perfezione della Via e della Virtù, questa la contemplazione della Regola Celeste; la somma di Bello e Bene.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

martedì 15 luglio 2008

L’oracolo del Dio


Sulla porta dell’oracolo di Delfi, il più antico e famoso oracolo dell’antichità, “l’ombelico del mondo” dedicato al dio Apollo, vi era un’iscrizione che recitava “Conosci te stesso” che diventò poi l’esortazione di Socrate, colui che aiutò a partorire la verità dal nostro interno, il primo propugnatore del Dio nascosto.
Si narra che Apollo, dopo la sua nascita, si armò e andò cercando un luogo in cui ereggere un tempio per il suo oracolo. Apollo era il dio della luce solare e della poesia, protettore della giovinezza, dei ginnasi e delle palestre, era il dio che mandava i mali e che guariva i mali, era l’arciere dalla saetta implacabile ed era anche il dio della profezia. Cercò a lungo, finchè scelse un luogo ai piedi del Parnaso, sito protetto dal drago Tifaone. Imbracciato il suo arco, il dio colpì Tifaone, lasciandolo ad agonizzare nel suo sangue nero tra soffi pestiferi. Il luogo fu detto Pytho “putrefazione” o nell’etimologia più arcaica “investigare, cercare”.
Ricordiamo che il drago è un essere ctonio, cioè di origine sotterranea e di natura spesso temibile: esso è collegato all’idea delle forze della germinazione e della morte. E’ il simbolo del lato minaccioso nella lotta tra vita e la morte, sempre strettamente unite. L’uccisione del drago manifesta l’uccisione dell’aspetto ctonio dell’inconscio che è tutto ciò che è temibile per il suo carattere minaccioso e violento, imprevisto, improvviso ed irresistibile. La profezia aiuta quindi a sconfiggere l’aspetto repentino e temibile del destino. Il dio si trasformò poi in delfino, inseguì una nave per catturarla ed ebbe così i suoi primi sacerdoti, a cui disse di invocarlo con il nome di Delphinios, per cui il luogo fu detto Delfi e fu il domicilio preferito da Apollo.
Quando si chiedeva una previsione oracolare, i fedeli si recavano nel profondo della grotta in cui era morto Tifeone e da cui esalavano vapori sulfurei. Una sacerdotessa, la Pizia, veniva posta su un tripode di legno dorato, veniva inebriata dalle esalazioni di gas allucinogeni e così ottenebrata pronunciava gli oracoli, che venivano reinterpretati da un sacerdote, il Profeta, che li riferiva ai fedeli che avevano richiesto il responso del dio.
Nel mito traspare la concezione della putrefazione, dell’opera alchemica al nero, come origine di ogni conoscenza superiore. Con il monito “Conosci te stesso” l’oracolo avvisava che nessuna conoscenza poteva giungere se non conoscevi il tuo essere, poiché nulla potevi comprendere del cammino che gli dei avevano tracciato per te. Accade per questo che la persona debba acquisire la consapevolezza del suo essere, e se non lo vuole fare, se la mente diviene ostinata “sotto il peso del giogo” come dice l’apostolo Paolo, se non vuol sentire ragione, allora il messaggio arriva in modo molto più intenso. Se il colpo è duro stai contento, perchè i Signori del Karma hanno ritenuto che tu fossi abbastanza robusto per sopportarlo. Semplice vero? Ma non facile!
Quando non hai il coraggio o la voglia di crescere, il destino interviene mandandoti una persona, uno scritto, una frase o un’avvenimento destinati a causare questo cambiamento. Jung ha indicato con il nome di sincronicità l’irrompere nella nostra vita, di avvenimenti che assumono una connessione acasuale fra stati psichici ed eventi esterni. Questa nozione nega tutti i legami causa-effetto che reggono le immagini scientifiche del mondo ed irrompono, sconvolgendola, in ogni relazione temporale. La sincronicità, lungi dal presupporre mancanza di senso ne assume uno ben preciso, poiché ci rende un quadro d’insieme, ci offre uno fondo, in cui si assume un posto nel mondo ed il mondo assume un senso compiuto. Gli avvenimenti sincronici offrono le tessera di un puzzle che può essere ricomposto solo dall’individuo, perché solo per colui a cui giunge è riservato il significato ultimo dell’esperienza. Per questo è inutile cercarvi un senso generale perché il solo significato è quello compreso dall’individuo a cui è rivolto il messaggio. Assolutamente fondata su studi scientifici, la teoria della sincronicità deve molto agli studi del premio Nobel per la fisica, Wolfgang Pauli, padre della meccanica quantistica. Pauli con il principio di esclusione formulò l’esistenza di un ordine che trascende la nostra comprensione e che permette di risalire ad un substrato che genera materia ed azione. Così la scienza ipotizza una mente che orchestra un’organizzazione nascosta e complessa, di cui non capiamo l’agire ma di cui percepiamo l’esistenza. Fermiamoci allora ad ascoltare la voce suadente del dio che ci indica la trama della nostra vita, impariamo a scoprire di quale progetto facciamo parte e rendiamo grazie di avere avuto la prova dell’esistenza dell’invisibile.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

sabato 12 luglio 2008

Il viaggio nel mare interiore


“E’ più facile navigare per migliaia di miglia tra il gelo e la tempesta che esplorare il mare interiore” affermava Thoreau, avvertendo del viaggio pericoloso che si cela nella scoperta di noi stessi.
Nell’uomo, l’Io rappresenta il centro dell’esistenza conscia e fa capo all’identità e al corpo dell’individuo. L’Io si comporta in modo sano se riesce a farci attuare l’esistenza in modo pieno e soddisfacente, altrimenti diviene nevrotico o scisso e ci rende impossibile coltivare la felicità. Esiste poi una parte che Jung identifica nel Sé, considerato una fonte spirituale piuttosto che una risorsa psicologica, che chiama l’”archetipo di Dio” dentro di noi.
Egli pensava che la nostra dimensione interna, il nostro inconscio, contenesse sia un “album di famiglia” con i ricordi legati alla nostra appartenenza, ma anche una memoria cosmica contenente tutte le memorie mitiche dell’umanita e lo chiamò inconscio collettivo. L’inconscio collettivo affermava “contiene l’eredità spirituale completa dell’evoluzione dell’umanità che rinasce nella struttura cerebrale dell’individuo” per cui noi siamo la somma dell’Io portatore dell’individualità, e del Sé che è l’eredità dei nostri avi ma il Sé non si limita ad essere soltanto questo egli impersona la realtà divina nel mondo.
Nel Sé divino vi è una triplice struttura suddivisibile in inferiore, medio e superiore. L’inferiore è legato alle radici arcaiche, al passato dell’umanità; il medio è costituito dai valori socio-culturali vigenti; il superiore è invece relativo ai valori, alle potenzialità, alle mete future dell’umanità. L’impresa a cui l’uomo è chiamato è quella di costruire un ponte che unisca il proprio Io al Sé divino, a fare vivere in equilibrio un Io sano che funzioni a dovere con un Sé che si attui e fluisca pienamente nel mondo, manifestando i propri talenti e capacità: così il Sé manifesta la sua natura di Buddha, con l’equilibrio delle pulsioni conscie con quelle inconscie.
Diceva Joseph Campbell, grande studioso di miti cioè di verità primigenie e distillate che “L’inferno è rimanere imprigionati nel proprio Io” e anche il buddismo afferma che quando la sofferenza emerge nella nostra vita è segno che ci stiamo aggrappando a qualcosa (desiderio) o stiamo fuggendo da qualcosa (paura). Il senso delle due affermazioni è lo stesso. L’eroe è colui che vive e supera il dolore della disgregazione uscendone trasformato e vittorioso. Ma lavorare sul nostro interno richiede un grosso lavoro sulla nostra ombra sia positiva che negativa a cui va applicato un procedimento alchemico di purificazione e rielaborazione.
Per tornare alla nostra fonte e recuperare le risorse dell’Io sano bisogna tornare all’interno di noi stessi, al nostro vero Sé, il nostro vero Buddha interno e la nostra vera fonte risanatrice. In questo consiste il risveglio individuale, nell’abbandono delle nostre parti non sane e nella scoperta di quelle che ci rendono felici e realizzati, perché il futuro è dentro di noi molto tempo prima che accada, come diceva il poeta Rilke.
Conoscere sé stessi è quindi una vera e propria conquista, è veramente il viaggio avventuroso immaginato da Thoreau, solo che, una volta intrapreso non si può più tornare indietro. Io immagino questa conquista come un ritorno a casa, un riconoscimento della nostra vera essenza, spesso rinnegata per ignorata o per paura. Se comunemente si ritiene che un percorso di consapevolezza costituisca solo un atto di egocentrismo e di asocialità, in realtà questa accezione è funzionale solo alla paura sociale che si prova di fronte agli individualismi, alle persone intellettualmente dotate e consapevoli, molto più accorte e meno disposte a subire le imposture. Dice il filosofo Anacleto Verrecchia che “le forti intelligenze sono autonome e non si lasciano facilmente plagiare” e la ferma determinazione è una qualità indiscreta e scomoda per un’epoca di millanterie e sopraffazioni.
E’ quindi inevitabile che un anticonformismo potente, basato sulla fiducia di sé e sull’adesione critica ai modelli sociali prevalenti, unito ad un alto profilo morale, richiedano una forte convinzione personale ed una piena centratura sul proprio essere, un vero e proprio viaggio da eroe, come direbbe Campbell.
Potrebbe quindi sembrare inevitabile abbracciare la via della conoscenza come via di solitudine, ma io credo che questo non sia inevitabile se riusciamo a vivere con gli altri sapendoli accettare per come sono, senza imporgli le nostre idee. Tutte le filosofie orientali insegnano che è necessario apprezzare la complementarietà degli opposti ed accettare anche persone molto diverse da noi, ma per farlo è necessario coltivare un distacco pacificato cioè essere nel mondo senza essere del mondo. Se non dobbiamo cambiare gli altri, possiamo però cambiare come gli altri influiscono su di noi e questo ci permetterà di vivere in maniera più serena ed armoniosa.
Sicuri di noi stessi possiamo continuare la nostra strada di ricerca e scoperta personali, senza adeguarci al modo di vedere comune, senza timore di potere sentirsi isolati, esclusi o manipolati dalle altrui aspettative che ci indicano come “dovremmo” essere. Una persona che non realizza sé stessa diventa rabbiosa, accidiosa e vendicativa perché l’essere umano che non si sente riconosciuto e quindi amato diviene un essere infelice che riversa la sua infelicità su coloro che gli sono vicni. Colui che si stima poco ha bisogno di continue conferme, di complimenti e di gratificazioni, per cui è disposto ad accondiscendere alle altrui volontà anche se non sono le proprie, ma a prezzo della sua felicità. Alla lunga il gioco non paga perché tutto ciò che rifiutiamo, come afferma Freud, finisce per divenire nostro nemico e le istanze rinnegate, deviando il loro corso, diventano bombe a tempo. Soffrendo della negazione di noi stessi, si vive allora proiettando sugli altri le nostre responsabilità o distruggendoci con l’infelicità. Non abbiamo il coraggio di dirci che il vero problema non sono gli altri ma siamo solo noi stessi, che non abbiamo il coraggio di affermare la nostra volontà e di proclamare la libertà di essere.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

giovedì 10 luglio 2008

Avere tra gli amici il generale Patton!


Vi è una categoria di persone che non tollero assolutamente e sono quelli che definisco “panzer”, persone dotate della sensibilità di un mocassino, che esprimono le loro opinioni senza alcuna delicatezza, senza alcuna grazia, e senza preoccuparsi minimamente dei sentimenti altrui.
Io ho una amica che è “panzer” e periodicamente arriviamo a litigare perché mi ricorda il generale George Patton, il “generale d’acciaio” dal carattere risoluto e determinato, che io non sopporto. Mia nonna mi raccontava l’avanzata degli alleati guidati dal generale Patton, in Sicilia, come peggiore del soggiorno nazista: gli ho creduto solo quando ho studiato la storia della seconda guerra mondiale. Lei invece, che era di Bronte, ricordava il piccolo borgo di Piano Stella a 7 km. da Acate, verso Catania, in cui gli alleati avevano ucciso 5 contadini inermi, freddati a colpi di mitra. E’ un eccidio senza alcun senso, che vede dopo 64 anni la prima udienza a Palermo il 20 marzo 2007, quando il Tribunale militare ha aperto un processo alla storia per chiarire questa insensata strage.
Qualsiasi cosa si possa dire sul generale, per me rappresenta una ferita al valore militare di tutti i tempi e di tutte le epoche, da non apprezzare nemmeno umanamente. Doveva vincere e vinse, sia nello sbarco in Sicilia che nello sbarco in Normandia, ma la sua figura non è da ammirare. Viene ricordato, in Sicilia, anche per i sanguinosi eccidi all’aeroporto di "San Pietro" a Biscari, dove furono uccisi 73 soldati tedeschi ed italiani che si erano arresi, e a Comiso, dove 60 soldati italiani e poco dopo 50 tedeschi vennero fucilati. I soldati americani spararono sulla folla inerte facendo 6 morti. Dal suo diario sappiamo che Patton provava astio verso i siciliani, giudicati poco valorosi e troppo arrendevoli. Prima dello sbarco in Sicilia aveva detto ai suoi soldati: “Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! È finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali.” Le foto ce lo mostrano con il suo cane Will, un bull terrier dal carattere mite e timoroso, fatto che imbarazzava molto il feroce generale. Tra le frasi celebri che gli attribuiscono vi è quella che mi sembra meglio lo rappresenta: “ Guidatemi, seguitemi, oppure state fuori dalla mia via!”
La categoria degli insensibili ha delle relazioni umane al livello dell’uomo di Neanderthal, con pari capacità di ferire i sentimenti altrui. Essi entrano nella vita degli altri con un effetto travolgente che schiaccia tutto e tutti, travolgendo gli interlocutori con un linguaggio crudo e senza controllo, interessati solo a sfogare la loro acredine e la loro rabbia. Tale comportamento rivela arroganza, biasimo per gli altri, opportunismo, distruttività, impetuosità, testardaggine e maleducazione. Non sentendosi capaci di affrontare la responsabilità della loro vita, incolpano gli altri per i loro insuccessi e gli eventuali imprevisti, sempre pronti a puntare il dito se qualcosa non va come dovrebbe.
Sono, in apparenza, sempre dalla parte della ragione, per cui si mostrano sorpresi se le loro crude osservazioni non vengono apprezzate. Nell’avere rapporti con loro si rischia di essere travolti, perché la loro ragione è tale da non ammettere né discussioni né vie alternative da quelle proprie. Si permettono atteggiamenti che nessuna persona civile e bene educata si permetterebbe ma, drammaticamente, sembrano inconsapevoli della loro maleducazione e mancanza di garbo. La loro mentalità è chiusa ed è priva di interesse per le ragioni e per le esigenze altrui, per questo discutere con loro è sempre una perdita di tempo.
Il loro vissuto li ha portati a percepire il mondo come un luogo ostile in cui difendersi con pari crudelà e determinazione, per questo decidono di diventare i migliori, anche a discapito degli altrui sentimenti. Nel loro animo esiste una robusta corazza emotiva che gli soffoca ogni sensibilità ed emotività; una chiara difesa alla sofferenza del vivere a cui reagiscono con prepotenza e violenza. Questa impostazione così dura di fronte alla vita, causa un impoverimento della loro personalità, che non vuole essere coinvolta in modo vulnerabile dalle altrui esigenze. La paura del coinvolgimento è giocata tra i poli: obbligo della scelta-rischio di scegliere così, imponendo il loro modo di vedere, impongono il loro ordine personale e danno il loro ordine al un mondo altrimenti caotico ed angosciante. Il disinteresse per la sensibilità altrui è conseguenza del fatto che, avere una precisa scaletta di priorità ed un determinato obiettivo, rafforza sicurezza e senso di potere.
Solitamente essi giocano sul senso di timore che riescono ad incutere, per cui spesso vengono stimati negli ambienti professionali per la sicurezza e la determinazione che dimostrano nel perseguire gli obiettivi. Nel lavoro, i capi di questo genere, riescono a conquistare il timore dei loro sottoposti ricorrendo all’intimidazione e al pubblico ludibrio. Le loro accuse ed i rimproveri avvengono con manifestazioni plateali, con contumelie miranti a riscuotere rispetto ed ammirazione.
La migliore strategia con queste persone è non ingaggiare lotte di potere evitando ogni scontro ma, in ogni caso, continuare a pensare ed agire senza essere arrendevoli, bensì usando la propria testa e continuando per la propria strada. E’ opportuno centellinare la presenza di tali personaggi, fissando limiti ben precisi entro cui includerli nella nostra vita, ma se oltreppassano tali confini, non esitiamo a ripristinare le opportune distanze e ad allontanarci.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

mercoledì 9 luglio 2008

Le competizioni dei perdenti


Si può amare la competizione soprattutto se è amichevole ed è intermittente, ma vi sono personaggi che non riescono ad escludere la competitività dal loro stile di vita. Essi vivono ogni attività e ogni contesto della vita come se fosse una sfida da vincere ad ogni costo, una dimostrazione della loro furbizia e capacità di sbaragliare gli avversari ad ogni costo: avversari sono tutti coloro che essi incontrano sulla loro strada. Per questo il rapporto con un competitivo è sempre estremamente faticoso perché tutti coloro che vivono la vita come una gara senza fine sono persone ambiziose, invidiose, implacabili e vendicative che vedono il mondo come popolato da lupi di cui desiderano diventare il capobranco. L’ambizione dei competitivi è tale che il loro interesse è risvegliato solo da tutto quello che è fuori dalla loro portata. Potere ottenere l’impossibile equivale alla sfida suprema e la sublime vetta dell’impossibile dimostra la forza della loro determinazione vincente. Il loro primo motore resta sempre l’invidia perché avere ciò che altri non hanno e di cui si sente la mancanza, è un segno supremo di rivalità. I competitivi sono quindi molto tenaci, ma di una tenacia ben poco amichevole ed il solo timore di poter perdere, li spinge a raddoppiare la determinazione per rendere la competizione ancora più appetibile. Il solo fatto di essere contro tutti li rende invincibili e se chiedere aiuto equivale ad ammettere la loro debolezza, essi si credono in grado di fronteggiare il mondo. Prendere gli altri in fallo li aiuta a costruire una infallibilità personale e li mette in posizione di vantaggio, per cui dagli errori altrui traggono gioia perché rinforza in loro la convinzione che, a prescindere da tutto, loro quegli errori non li avrebbero mai fatti. Se la competizione aiuta ad affermare un Io debole e se nella sconfitta si perde una parte di sè stessi, ogni mezzo è considerato lecito per vincere.
Un’autostima personale malata, perchè basata sulla competizione, è frutto di una società debole di idee e progetti, in cui si attribuisce valore solo alle persone prepotenti ma vincenti. Se vinci sei tutto e se perdi sei un niente :questo giustifica ogni eccesso di darwinismo sociale.
In alcune società, ingiustamente definite “primitive”, non esiste la competizione, perché estranea in contesti in cui la cooperazione e la solidarietà sono valori sociali fondamentali e in queste società, al contrario della nostra proclamata come “evoluta”, si considerano i competitori delle persone maleducate ed insensibili.
Nella nostra cultura e soprattutto nei posti di lavoro, la competizione viene invece esaltata mentre viene del tutto trascurato il valore della forza cooperativa e della reciproca crescita professionale, ai fini di un migliore servizio/prodotto che protrebbero essere offerti concentrandosi su una fruttuosa collaborazione piuttosto che su lotte e conflitti.
Se è giusto misurarsi con delle sfide, indispensabili alla crescita e al miglioramento, per il competitore esse diventano vere ossessioni penetranti e divoranti. In lui la competizione non ha nulla di sano spirito sportivo ma diviene un meccanismo perverso, che trasforma dei ragionevoli esseri umani in ottuse miscele di aggressione, irrazionalità e maleducazione. E’per questo che è nel lavoro che il competitivo offre il peggio di sé, sbaragliando disinvoltamente colleghi ed avversari per ottenere la considerazione dei capi e maggiori vantaggi personali.
Nella amicizie i competitori vogliono essere considerati gli esseri più brillanti ed affascinanti, e in amore sono insopportabili ed egoisti e vogliono considerazione, attenzione e rispetto in maggior misura di quanto siano disposti ad offrirne. Essi devono sempre essere in primo piano, sivrani tronfi e trionfanti, relegando in uno scomodo “strapuntino” i malcapitati che gli sono al fianco.
La stessa Bibbia, nella Genesi, offre l’esempio di Giacobbe ed Esaù, figli del patriarca Isacco, gemelli e rivali fino dalla nascita. Essi “ si urtavano nel suo seno” - quindi già nell’utero materno - tanto che la madre Rebecca chiese al Signore il perché di tanta ostilità, ed il Signore rispose che “due nazioni erano nel suo grembo […] un popolo sarà più forte dell’altro e il maggiore servirà il più piccolo” e lei era incinta di due gemelli. Alla nascita uscì per primo Esaù, ma Giacobbe lo seguì aggrappato al suo calcagno. Il nome Giacobbe deriva da “ageb” cioè “tallone, calcagno” e più specificamente “afferrare per il calcagno o soppiantare”; il nome gli fu imposto perché al momento del parto, teneva con la mano il calcagno del fratello gemello Esaù, nato per primo e quindi destinatario del diritto di primogenitura. Il suo nome viene fatto derivare con una etimologia popolare dalla parola ebraica che significa "ingannare" ('aqob) ed infatti Giacobbe conquistò il diritto di progenitura con un inganno. I discendenti di Giacobbe dipendono da questa benedizione carpita e non legittima.
Ma la competizione non è una qualità innata - checchè ne dica la Bibbia - essa dimostra solo un senso d’insicurezza profondamente radicato. Nella paura del fallimento vi è una minaccia all’integrità personale, per questo il competitivo segue il principio del divide et impera e si dimostra un grande presuntuoso che diventa assai difficile cambiare o sopportare.
Molti credono erroneamente che la competizione sviluppi i migliori risultati, invece lo spirito competitivo consegue i risultati più mediocri mentre è vero che orientare al risultato rende molto più che orientare alla competizione. Molti uomini d’affari fortemente competitivi, per ottenere la vittoria si accontentano anche di risultati mediocri a condizione di avere partita vinta, per cui non si assumono il rischio di essere maggiormente creativi, propositivi ed innovatori. La motivazione intima, alla lunga, diviene l’incentivo più efficace ed il leader carismatico ottiene sempre una maggiore performance di gruppo.
Ma esiste una sana competizione? Un atteggiamento in cui uno vince ed uno perde non è mai sano: è sano invece pensare di potere vincere e guadagnare entrambi. La differenza tra dominante costruttiva o distruttiva della competizione sta solo nell’uso di regole del gioco condivise e nell’individuazione di colpi proibiti o ammessi. Anche in questo caso è sempre essenziale che la competizione lasci ampi spazi alla collaborazione, in onore al vero competere latino, che significa “lottare insieme per ottenere qualcosa". Nel vero gioco costruttivo entrambi gli avversari stanno dalla stessa parte e fanno una gara per offrire il migliore contributo al fine comune.
Non dimentichiamoci mai delle nostre vere coordinate mentali e non prestiamoci ai giochi di forza dei competitori che cercano la lotta per umiliarci e rafforzare così il loro scarso valore. Guardiamo dritto verso i nostri veri obiettivi, godiamo senza ostentazione dei nostri successi e concentriamoci solo su noi stessi per potere vincere veramente.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

lunedì 7 luglio 2008

La doppia vita di un mio amico


Io ho un amico da molti anni. L’ho conosciuto quando aveva un negozio di abbigliamento. Io facevo acquisti nel suo negozio, per cui ero soltanto una cliente, ma con il tempo siamo diventati amici. Qualche anno fa, le cose sono cambiate, per cui lui ha lasciato la sua quota di negozio alla sua ex-socia e si è messo a vivere facendo l’ambulante, con un banco al mercatino etnico. Nel contempo ha iniziato a fare volontariato sociale e si è messo ad assistere malati terminali, facendo l’accompagnatore alla morte. Ha accompagnato molti malati di Aids e di tumore, spesso ha dovuto accompagnare anche degli amici e l’esperienza è stata molto dura. Mi ha raccontato di avere accompagnato un suo amico, un musulmano e con lui il gioco si è rovesciato. L’amico musulmano, che chiamerò Karim, gli ha spiegato che la sua morte era nella volontà di Allah, per cui lui andava contento sulla strada che Allah gli aveva indicato. Il mio amico non riusciva a capire come Karim fosse tanto sereno e tranquillo e si sentiva angosciato, quindi Karim ha dovuto consolarlo spiegandogli che il suo dio gli aveva preparato il migliore percorso che era possibile: ne era certo. Quando Karim se n’è andato, il trapasso è stato veloce ed è scivolato via dolcemente. Anche nella morte, mi ha spiegato il mio amico, siamo molto personali perché abbiamo il nostro stile, insomma l’affrontiamo tutti diversamente.
Ad un certo punto, nella vita del mio amico è successo un salto di sincronicità per cui inaspettatamente le cose sono completamente cambiate. Il cambiamento è sopraggiunto sotto forma di incidente: l’hanno investito con un forgone, mentre andava ad aprire il suo banchetto di mercanzie etniche, e la cosa si è messa molto male. All’ospedale i medici gli hanno detto che la sua schiena era molto malridotta e che gli avrebbero prescritto degli analgesici per tenere il dolore a livelli accettabili. Il mio amico ha cominciato a curarsi con analgesici e farmaci antinfiammatori, ma non ne veniva a capo in alcuna maniera. Era ridotto malissimo, si stava intossicando e tutto per tenere sotto controllo una situazione inaccettabile. Anche a livello economico rischiava di rimanere a secco, se si fosse ridotto fisicamente ancor peggio. Come avrebbe potuto lavorare se non si teneva in piedi senza farmaci?
Chi non crede alla sincronicità fa molto male perché un giorno il mio amico legge su una rivista, di un medico ayurvedico che è di passaggio in Italia, in una città vicina, per tenere una conferenza. Senza esitare il mio amico contatta il medico ayurvedico e gli strappa un appuntamento. All’appuntamento il medico ayurvedico, dopo averlo accuratamente visitato accetta di curarlo, ma la sua clinica è in India. Come fare? Il mio amico è sofferente e disperato e non esita affatto: andrà in India.
A questo punto urge una spiegazione metafisica per creare del pathos. L’amico Thorwald Dethlefsen direbbe che, se la malattia è il messaggio dell’anima attraverso il corpo, allora la schiena malridotta del mio amico rivela la mancanza di energia per “tenere” il peso delle sue scelte, segnala una vita che “non si riesce più a tenere”. Ecco quindi che il mio amico parte per l’India e, quando scende dall’aereo ha una folgorazione: è afferrato da una sensazione di struggente malinconia e dal riconoscimento di quella terra. Sente dentro se stesso che è ritornato a casa. Quelle persone, quegli odori, l’aria stessa sono l’aria di casa e lui tra quegli sconosciuti si sente in famiglia.
Il suo soggiorno in India è stato altrettanto sconvolgente. Lui fisicamente potrebbe essere scambiato per il cugino di Kabir Bedi: ha lo sguardo profondo e gli occhi scurissimi, con lunghi capelli intrecciati morbidamente dietro le spalle ed è vestito, da anni, perennemente in bianco. In India, mi racconta, tutti gli parlano in hindi, lo salutano come un santone e lo credono un guru. Lui sempre più spesso deve spiegare che è italiano e non indiano però gli credono a fatica. La cura ayurvedica con lui sta funzionando e non credo proprio che dovrà andare su una sedia a rotelle, come gli aveva detto uno specialista, ventilandolo come futuro fatale. Invece il fato ha giocato diversamente con il mio amico.
Il primo elemento è stato che la clinica è in una piccola città, per cui il mio amico si è ritrovato ad alloggiare in una pensione improvvisata, che consiste nella camera in affitto, con portico e vista sul giardino, di una famiglia del posto. Ora la camera gliela tengono prenotata tutto l’anno, anche quando torna per 6 mesi in Italia.
In clinica ha poi conosciuto un’eccentrica americana più che settantenne – che storpia il suo nome e che parla come Don Lurio - con cui ha iniziato a fare del volontariato in un orfanotrofio della città. In quell’istituto sono ricoverati bambini handicappati che le famiglie hanno abbandonato. Mi ha confessato che giocare con i bambini gli ha ridato una gioia di vivere indicibile. Accompagnare alla morte lo aveva distrutto, quindi se vuole continuare ancora a farlo, deve trovare ossigeno ed i bambini per lui sono stata la risposta, gli hanno ridato energia. Intanto lui e l’eccentrica americana, che ora fa anche la cura ringiovanente, hanno ordinato ad un falegname locale una trentina di lettini di legno da donare ai bambini che dovevano dormire sulle stuoie. Ora devono portare l’obiettivo-cibo a due ciotole di riso al giorno: prima vi era una sola ciotola di cibo. In India ha trovato dei sarti eccezionali, per cui lui disegna dei modelli che poi fa cucire e che rivende in Italia. Adesso lui è felice perché fa una doppia vita: una in Italia dove sta per 6 mesi e dove ancora vive sua madre, che è una donna meravigliosa e una madre che tutti gli vorremmo rubare. L’altra sua vita è l’India dove ora si cura e vive per 6 mesi, ma dove spera tanto di potersi trasferire per ritornare finalmente a casa.
Buona erranza
Sharatan ain al Rami

giovedì 3 luglio 2008

L’importanza d’avere un bel target


Ad un certo punto accade che mi devo esercitare nella scrittura e scrivere qualcosa su di me e mi dicono che mi devo aprire un blog. Senza un blog non sei nessuno, scopro in seguito. Pare strano ma lo scrivono anche in Zambia e una mia amica, lupo di rete mi dice che non solo lo tengono tutti, ma che non averlo è quasi un’handicap. Per cui mi decido a farne uno tutto mio e me lo penso e me lo covo per un pezzettino.
Quando lo creo mi sento impacciata e lo sono anche adesso perché avrei voluto fare qualcosa di preciso, ma lui parte come vuole e diviene una cosa che non ha senso. A prescindere da questo però, scopro che esiste per ogni blogger, come per ogni categoria professionale, una sindrome che la definisce e nobilita: la Sindrome da Contatore, consistente in una tossicomania di contatti, in una sindrome del visitatore che abbisogna di numeri sempre maggiori. Mi dicono che la cosa è più facile se scegli un target ben preciso ma, siccome non mi interessa fare di un interesse una fonte di guadagno e siccome mi voglio anche divertire, non voglio un preciso target di lettori. Per questo mio disinteresse del target, tutti quelli a cui lo dico, mi guardano come se fossi strana, ma io me ne frego. Io non sono strana, sono anomala, per cui lo sarà anche il mio target.
Non "sembrasse" però che partivo del tutto alla cieca, infatti dalle mie girovagate mi ero fatta le mie idee e “ ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi…” come direbbe il replicante Roy Batty in Blade Runner. Nonso cosa voglio ma so quello che non mi piace. Di blog, ne ho visti alcuni estremamente intriganti e mi immagino che avranno certamente un bel target, ce n’è per tutti i gusti: non ne dubito, come non dubito che ognuno esista per un target.
Se Internet è come il Carnevale di Venezia, non mi stupirei però di trovare autori dal target diverso da quello dichiarato. Forse troveremmo un’onesta casalinga della Val Puzzona o forse un geometra di Portapescola dietro personaggi insospettabili, perchè oggi tutti hanno bisogno di sentirsi qualcosa di diverso da quello che sono. La Sindrome di Zorro colpisce implacabile in un’epoca in cui si è ciò che si appare. Ho seguito per qualche tempo il blog di un grazioso tipetto - un play boy della rete una sorta di Califano telematico - che si faceva corteggiare in rete da un gruppo di sue estimatrici, forse un paio erano anche amiche personali. Lui, interessante e fascinoso, faceva una serie di citazioni di genere neo-colto usando un autore che va per la maggiore e che anche io leggo. E’ un genere letterario a cui aveva attinto per suo profilo. Tutto molto suggestivo e romantico, condito da una serie di foto gradevoli di lui di mezzo busto e di profilo, su primo e primissimo piano. Va bene tutto, ma non sono il mio genere! Evidentemente non sono queste le cose che costituiscono il mio target. Risparmierò ai miei quattro lettori la gigionerìa telematica. Allora cambio metodo, divento introspettiva. Come sono, mi chiedo, forse dovrei definire cosa voglio e cercare i miei simili; così si costruiscono i target. Mi chiedo chi sono e concludo che scrivo di attualità perché questi sono i tempi in cui vivo. Scrivo delle cose che leggo e delle persone che stimo. Descrivo ciò che mi piace e ciò che mi colpisce. Parlo di quello che mi interessa e di quello che mi indigna. Che colpa ne ho io se la realtà è più assurda della commedia?
Comunque un target migliore mi farebbe comodo per cui mi analizzo i must della rete e scopro che l’hard è il miglior richiamo, e se devo coltivare un target, tanto vale che me lo scelgo vincente.
Allora potrei fornire il mio blog di immagini un pochino più pruriginose, qualcosa di più stuzzicante, magari qualche trasparenza o donnina discinta, seppure di classe, per non creare imbarazzanti equivoci. Sembra che la letteratura hot sia quella che renda meglio, in questi come in tutti i tempi. Oggi, degli illustri scrittori reggono due identità di cui una “letterariamente colta” per la mente ed una “letterariamente ignobile” ma economicamente redditizia, per le necessità del corpo. Leggo che è considerato molto facile e redditizio trasformarsi da semplice casalinga, con 2 figli a carico e lavoro part time, in una frequentatrice sessuale seriale e poi in una Lady Vintage della rete. E tutto anche dopo i 45 anni! E’ tutto realmente avvenuto, così che la signora in oggetto – Mrs. Suzanne Portnoy - si ritrovi a scrivere ben due libri infarciti di fatti erotici che lei descrive minuziosamente, che gli danno target e che la arricchiscono. La vivace signora racconta che, dopo 10 anni di matrimonio senza sesso e 2 figli, un divorzio ed un amante morto sotto i suoi occhi, mentre si nutrivano di Viagra ed erotismo, si è ritrovata a cliccare su un sito di incontri, proponendo non sesso virtuale ma un vero incontro in un hotel di New York. Da questi sollazzi è nato “Il macellaio, il pasticcere e tutti gli altri” edito in Italia da TEA, a cui ne è seguito un secondo, in attesa di terzo imminente titolo. La Portnoy, ha annunciato sul New York Review of book: “prima del mio 67esimo compleanno vorrei fare sesso con un uomo che mi piace” e devo dire che si impegna onestamente. Dal suo blog risponde in modo disinvolto e spigliato a tutti, e come reazione del suo target, riceve decine di offerte maschili che gli chiedono di incontrarla per una notte. Potenza del target! Attualmente ha firmato per il Sunday Times un servizio fotografico in cui compare su di una dormeuse in vestaglia rosa e mascherina di pizzo, le foto sono state inserite nel sito Flickr e centinaia di utenti la cliccano e la inseriscono nei loro album fotografico: le stesse foto sono inserite sul suo sito web. Molti autori di blog si sono così riconvertiti al promettente mercato del Personal Porno, dei blog a pagamento con contenuti erotici, fenomeno che ben presto verrà documentato da un libro di Federico Ferrazza, giornalista e fondatore del Centro Studi per la Divulgazione delle Tecnologie, che fornirà accurati dati, documentazioni e testimonianze. Dovendone inventare uno, nell’incertezza, a questo post allego un’immagine osé e spero così di aumentare il mio misero target.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami