lunedì 30 maggio 2011

Sentire



Un’onda s’infrange. E’ percorsa da piccole onde, a loro volta attraversate da onde microscopiche. Esplode in una miriade di gocce ondulate che riflettono per una frazione di secondo, ciascuno sotto un’angolazione diversa, il crollo dell’onda.

L’onda stessa non è che una piccola onda dell’immensa onda della tempesta che ne contiene miliardi. Onde di onde nelle onde. Onde di forme viventi, onde di popoli e di genti, onde di emozioni e di pensieri.

Brulichio del mondo, magia dei fenomeni in ogni istante. Anche i pensieri sono magici. Anche le emozioni si alzano, s’infrangono, si disperdono riflettendosi, poi rinascono instancabilmente, identiche e differenti. Contempla le emozioni, tristi e gioiose, così come contempli il mare, come senti il vento.

I pensieri diventano veleni solo se obbediamo loro invece di gustarli. Vivere le proprie emozioni significherebbe gustare molto lucidamente e nel minimo dettaglio tutti gli eventi nella nostra esperienza, come onde transitorie nella corrente dell’esistenza, senza credere nemmeno per un secondo alla realtà degli oggetti che si presume suscitino queste emozioni, né a quella del soggetto che si presume la provi.

Di fronte a questa miriade di eventi mentali, possiamo fossilizzare le cose, le persone, i significati, i valori, un “io” e irrigidisci la sofferenza. Ma, se seguiamo l’impulso appropriato, possiamo anche lucidamente lasciarci andare al flusso, alla varietà di energie, al carattere climatico e mutevole delle esperienze.

Senti la struttura, la qualità, l’intensità delle tue emozioni, invece di credere a ciò che ti rappresentano. L’emozione è perfettamente reale. Ciò che è illusorio è il nesso tra l’emozione e i suoi oggetti. Sei effettivamente avido, ma non hai bisogno veramente del bersaglio specifico del tuo desiderio.

Sei sicuramente irritato, ma l’oggetto della tua irritazione non è la sua causa. Quando senti l’emozione, sei presente. Quando credi a ciò che essa rappresenta cadi nella trappola dell’illusione, sogni, sei assente.

Così come puoi sentire la sofferenza come un’energia invece di rifuggirla, puoi percepire tutto ciò che entra nel tuo mondo come una qualità di energia piuttosto che come un oggetto di cui appropriarsi, da respingere o da ignorare.

Non vi è né bene né male, né bello né brutto. Ogni essere, ogni evento interno o esterno è una lunghezza d’onda, una frequenza, un colore dello spettro. Ho confuso troppo spesso la rimozione con il dominio di sé. Quando sale la sofferenza, sentila salire. Quando viene la pena, lasciala venire.

Senti le tue emozioni qui, adesso, nel presente, non reprimerle, non tentare di scappare da loro, ma allo stesso tempo non passare automaticamente all’azione, il che sarebbe ancora un tentativo di fuga.

Senti l’emozione completamente. Resta in lei. Non fuggire nei pensieri. Non ti domandare perché fa male, da dove venga, cosa sia esattamente a far male, come vi si potrebbe mettere fine, ecc.

Non fuggire nell’azione. La maggior parte delle azioni stupide viene compiuta per sfuggire a un’emozione spiacevole: aggredire per evitare di sentire collera: prendere per sottrarsi all’avidità o al senso di mancanza, oppure stordirsi per dimenticare la sofferenza, ecc.



(Pierre Lévy - Il capitolo del cuore)


venerdì 27 maggio 2011

Lo strumento dello Spirito


“A un uomo veloce, basta una parola;
a un cavallo veloce, un colpo di frusta.

Migliaia di anni, un solo pensiero;
un solo pensiero, migliaia di anni.

Dovete conoscerlo direttamente
prima che sia sollevato.

Ma ditemi, prima che sia sollevato
come lo cerchereste?”

(La Raccolta della Roccia Blu)


La saggezza antica afferma che saper usare la forza mentale è la più elevata manifestazione creativa dell’uomo, ed è l’impronta che conserviamo della nostra origine divina, perciò la purezza del pensiero umano può costruire un mondo interiore puro e raffinato come il nostro Creatore. Tra le prerogative dell'uomo vi è anche la capacità di dissimulare la vera natura del pensiero per mostrare anche l’opposto di ciò che pensiamo.

Impariamo a vivere interpretando dei ruoli formali con cui dissimuliamo l'interiorità con apparenze fittizie e ordinarie, poiché le apparenze sono credute primarie anche se carenti della sostanza. La capacità di nascondere la natura del pensiero diventa basilare per una pacifica convivenza, infatti pochi uomini potrebbero sostenere l’impatto con il vero pensiero degli altri.

Nella mente esistono dei semi costituiti dai pensieri, dai sentimenti, dalle passioni, dalle paure e dalle preoccupazioni, infatti ogni contenuto interiore stimola il seme mentale simile e corrispondente. Quando un pensiero seme entra in noi si radica, e se viene nutrito e accudito può crescere e mettere delle profonde radici, finché diventa un albero che produce i frutti simili alla pianta da cui nascono.

L’immagine dell‘albero interiore ci fa comprendere come la mente che non è ben governata possa produrre delle formazioni che sono dannose per il nostro equilibrio interiore. Un pensiero può offrire un colore opposto e diverso alla stessa giornata che può essere splendente o buia, poiché il pensiero può costruire o demolire, e il risultato finale è corrispondente alla qualità dei semi che accettiamo di accogliere e di conservare internamente.

Conservare un pensiero negativo avvelena la nostra mente, perché il pensiero è incontrollabile soprattutto se viene nutrito dalla scontentezza delle condizioni di vita che tutti affermano essere crudeli. Tutti negano che le proprie condizioni siano giuste, poiché pochi comprendono che le nostre condizioni sono le logiche conseguenze dell’agire nelle situazioni, perciò nessuno vuole accettare il suo destino e tutti reclamano una sorte migliore.

L’uomo discende dallo Spirito di cui condivide l’intima essenza, perciò noi siamo spirito e non siamo solo il corpo e la mente, infatti abbiamo tutte le facoltà che ci sono necessarie nella nostra mente che è stata creata per ordinare il nostro mondo astrale che altrimenti resterebbe privo di controllo e diverrebbe causa di sofferenze. La mente deve creare l’armonia interiore placando le forze interiori, perciò riordinando i dati e le informazioni ricevute dall‘uomo.

La nostra mente è controllata per mezzo del Sé Superiore, se è risvegliato e pronto per avviare l’evoluzione, perciò per placare la mente è primaria l’accorta vigilanza della qualità del pensiero e una grande forza di volontà. Se l’uomo non si ridesta alla realtà più elevata resta invischiato al livello più infimo del suo sviluppo.

Nel risveglio conosciamo il Sé Superiore e siamo placati, poiché siamo al sicuro nel luogo più sicuro che è nella "casa del padre" dove possiamo dimostrare tutta l’interezza di noi stessi. Nel ritorno conosciamo la totale libertà di essere autentici ed eliminiamo quello che ci rende infelici e che limita la nostra pura essenzialità.

I pensieri sono forze creatrici e se il pensiero si affina e spiritualizza diventa potentemente attivo e fa conseguire enormi risultati, poiché esso attrae le forze affini per potersi nutrire con le loro risorse energetiche e poter potenziare il pensiero originario. L’uomo non usa il suo potere mentale per costruire una vita migliore, e non educa il suo pensiero come facevano nel mondo orientale, poiché ignora che il pensiero agisce sul mondo causale.

Se crediamo che l’uomo sia una scintilla dell’intelligenza divina e che il suo pensiero sia la sua più elevata prerogativa non possiamo trascurare la disciplina del riordino interiore, infatti crediamo che il riposo non sia l’inerzia mentale. La fretta che usiamo in tutto ciò che facciamo si riflette nel ritmo frenetico dei nostri pensieri che si rincorrono sviluppando l’ansia, la paura, il nervosismo e la confusione interiore.

Sviluppare una disciplina mentale significa saper dialogare con noi stessi, infatti il nostro sé ascolta la voce del Sé Superiore solo se la facciamo emergere dal silenzio di un mondo interiore placato. Saper stare soli e saper pensare significa non temere la solitudine, poiché con il pensiero siamo sempre vicini a coloro che amiamo. La vita migliora se pensiamo con calma, infatti una efficace coltivazione mentale deve unire la pratica costante all’intenzione di migliorare continuamente.

La nostra vita scorre sempre più veloce, perciò la fretta viene impressa anche ai pensieri che si accavallano e s'intrecciano creando dei conflitti e un campo di battaglia interno che ci dilania. Il pensare deve essere una gioia e non una lotta mentale, perciò l’esterno non deve travolgere e devastare il mondo interiore con un pensare insano, penoso e doloroso. Se vogliamo conservare la pace e l'armonia interiore dobbiamo colmarci di pensieri positivi e elevati che ci possano saziare pienamente.

Se pensare equivale a creare, allora l’uomo costruisce con l’intuizione e con l’ispirazione mentale attualizzate nella concretizzazione materiale: il pensiero è la porta da cui la sostanza spirituale entra nell’uomo per concretizzarsi come prodotto del genio umano. Il nostro mondo dipende dal nostro modo di guardare, perché gli occhi sono condizionati dal modo di pensare, per questo dobbiamo occupare la mente di idee costruttive e opere positive, così da godere dell’arricchimento della bellezza e avere la forza della positività.

Una forza benefica tracima e si riversa anche nel nostro mondo materiale, poiché l’equilibrio del pensiero e del sentimento accorda armoniosamente il nostro strumento spirituale, affinché la mente divenga il cavallo bene aggiogato che giunge velocemente alla meta. Nella mente umana riposa la maggiore carica positiva o negativa, infatti scegliamo di vivere nell'ansia e nella nevrosi come vediamo nel frenetico mondo moderno con l’incremento delle aberrazioni umane prodotte dall‘infelicità mentale.

Sono i sentimenti che creano i pensieri, perciò le relazioni umane sono originate dall’emotività e dall’immaginazione che sono gli elementi che devono essere controllati più lucidamente, infatti l’immaginazione è eccitata dalla ripetizione di parole, di pensieri e di proponimenti che diventano dei mantra potenti. E' la ripetizione continua che riesce a ipnotizzare anche l’inconscio, poiché riesce ad entrare in profondità per inciderci come l’orafo che usa un bulino per decorare i suoi gioielli più preziosi.

Tramite l’ipnotica ripetizione i propositi si agganciano ai desideri diventando un sottofondo persistente e si accrescono come delle profonde convinzioni che vengono sorrette dalla fede di riuscire a realizzarle. L’immaginazione è una potente facoltà che agisce con certezza, ma anche l’inconscio deve collaborare e accettare di credere a quello che viene ripetuto, poiché l’idea deve essere innestata in profondità per essere nutrita delle nostre energie più profonde e vitali.

Se l’idea non è congeniale al nostro terreno interiore il suo seme secca o marcisce sebbene ogni innesto necessiti di tempo e di pazienza, perché nessuna concretizzazione è veloce. La prima difficoltà sarà quella di fare accettare l’idea come giusta, poi diamoci anche il tempo di far nascere le altre idee utili ad arricchire il nostro progetto originario: la convinzione necessaria è quella della fede che muove le montagne di cui dicono i vangeli.

L’immaginazione umana si convince usando gli effetti dolorosi del male che temiamo, perciò la paura può stimolare sebbene sia insufficiente per l’inconscio che può fingere di essere persuaso. La tecnica migliore resta l’influenza positiva e la gioia che godremo nella realizzazione futura dell'obiettivo, perciò la convinzione si ottiene usando la gioia e la felicità.

Le sapienze insegnano che la realtà è costruita con diversi piani che sono posti in ordine gerarchico, e che ogni piano agisce in modo causale sul piano inferiore imprimendogli il suo principio regolatore. La creazione è avvenuta per emanazione dal piano sottile e tramite una condensazione in materia concreta. La realtà è tangibile ma la forza che ci muove resta invisibile e misteriosa, quindi l’uomo la sperimenta in modo concreto nella potenza negli effetti che essa produce, e così ne viene influenzato.

L’immaginazione ricama la materia come la goccia scava la roccia, perciò il potere del pensiero è nella visualizzazione mentale, infatti la mente usa le emozioni e i sentimenti per plasmare la nostra roccia. Poiché l’immagine mentale non perde le sfumature e il fuoco dell’idea originale essa conserva internamente le sembianze, così la mente rende visibile lo spirito trasformandolo in una sostanza che è percepibile come quella concreta.

Trascurare il pensiero significa rinnegare la nostra potenza creativa e significa rinnegare la manifestazione dell’energia che siamo, perciò diventa la totale preclusione al risveglio dei nostri autentici valori interiori. Non voler pensare significa rinnegare la nostra essenza e dover subire il totale smarrimento del senso del vivere, cioè significa non ritrovare noi stessi e non saper vivere felici nel mondo concreto.

Buona erranza
Sharatan

mercoledì 25 maggio 2011

La nostra felicità


“Il nostro benessere dipende dagli altri;
è quindi opportuno ricordarsene,
anche se spesso abbiamo la tendenza a credere
di avere fatto tutto da soli.”

(Gyalwa Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama)

Gyalwa Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, con le sue parole diffonde delle verità molte complesse che lui sa esprimere usando le parole più semplici, perciò i suoi discorsi riescono a essere come un “fiume di tranquillità” che penetra in tutti coloro che lo ascoltano. Sua Santità è un vero magnete di compassione, di pace e di amore, e nelle sue parole ognuno può trovare sempre una buona ispirazione.

Lo scopo della vita, dice il Dalai Lama, è quello di perseguire la felicità, e la felicità si ottiene educando la mente. L’educazione della mente non comprende solo le capacità cognitive o l’intelletto, ma include anche i sentimenti, perciò dobbiamo educare sia il cuore che il cervello. Per fare questo lavoro si rende necessario essere in grado di identificare i fattori che conducono alla felicità e quelli che conducono alla sofferenza, in modo da poter rafforzare i primi e di poter eliminare i secondi.

Non dobbiamo dimenticare che le persone duttili e creative sono aperte nei riguardi del mondo esterno, perciò sono persone pronte ad andare incontro agli altri per aiutarli, poiché la felicità è determinata dallo stato mentale più che dalle concrete condizioni esteriori. La scienza afferma che il benessere umano avrebbe origini genetiche, perciò dovremmo credere che il nostro benessere personale e la nostra esistenza siano state già programmate geneticamente e tutto sarebbe già inscritto nel nostro patrimonio genetico.

Se riflettiamo, vediamo che la sensazione di soddisfazione è fortemente influenzata dalla nostra tendenza al confronto con gli altri, infatti essere soddisfatti della nostra vita dipende anche dalle persone con cui ci si confronta. Utilizzare questo metodo riesce utile se ci confrontiamo con coloro che sono più sfortunati, perciò impariamo a riflettere e sappiamo apprezzare le cose che abbiamo. Il livello di contentezza si rafforza cambiando la prospettiva mentale e pensando che le cose potrebbero andare ancor peggio, perciò possiamo dirci soddisfatti di ciò che già abbiamo.

L’ottica mentale ha un ruolo determinante sulla nostra felicità, infatti i 4 fattori dell’appagamento umano sono la ricchezza, l’appagamento terreno, la spiritualità e l’illuminazione, a cui va premesso il primo fattore che è il godimento di una buona salute, a cui dobbiamo unire anche la presenza di un compagno o di un gruppo di amici affidabili. Se sappiamo conservare lo stato mentale calmo e tranquillo possiamo essere delle persone molto felici, anche se la nostra salute non è buona.

Se il nostro stato mentale è negativo anche le più grandi ricchezze non ci faranno felici, e anche gli amici non saranno un appagamento soprattutto nel caso in cui la mente sia in preda alla collera e all’odio intenso. Maggiore sarà la nostra calma mentale e la tranquillità d’animo, e maggiore risulterà la nostra capacità di condurre un’esistenza felice e gioiosa, poiché essere nello stato mentale calmo e tranquillo non significa essere disinteressati o distanti.

La pace del cuore e lo stato mentale calmo e rilassato affondano le radici nella simpatia che è l’assonanza intima con il mondo, e nella capacità di saper provare compassione verso il prossimo: nel sentimento della compassione vi è un altissimo livello di sensibilità e di sentimento. Se possediamo delle qualità interiori di tranquillità d’animo e di stabilità interiore, pur in assenza di mezzi esteriori, possiamo vivere una vita lieta e gioiosa.

Ogni desiderio smodato conduce all’avidità, che è una forma di brama che si basa su delle aspettative troppo grandi, perciò l’avidità non viene mai soddisfatta dal perseguimento del suo obiettivo ma diviene, in qualche modo, illimitata. Il vero antidoto all’avidità è l’appagamento, infatti se abbiamo un grosso senso di appagamento interiore, non ci importa di ottenere o meno l’oggetto desiderato poiché, in un modo o nell’altro, siamo egualmente soddisfatti.

Ma come ottenere l’appagamento? L’uomo crede di poter essere appagato ottenendo soldi, casa, auto, partner perfetto e corpo perfetto, oppure possiamo partire imparando ad apprezzare quello che già abbiamo. L’unico modo di affrontare la vita è quello di guardare ai beni che si posseggono, e nel vedere cosa di buono si può fare ancora, perciò sapersi concentrare sulle proprie risorse e utilizzare al meglio le proprie facoltà.

L’uomo può raggiungere la felicità mutando l’ottica mentale e coltivando una maggiore autostima personale, ma anche coltivando delle relazioni e dei legami affettivi con gli altri, altrimenti la vita diventa triste e dura. Se una persona è calda e affettuosa, e se è dotata di sentimenti di compassione difficilmente si lascia deprimere, poiché il calore e l’affetto aiutano a maturare il senso del nostro valore interiore.

La felicità è connessa più alla mente che al cuore, infatti anche la felicità fisica è transitoria, e un giorno c’è e l'altro scompare, perciò è necessario inquadrare le cose con l’ottica della felicità piuttosto che con quella del piacere. Dobbiamo saper perseguire le cose che ci danno felicità, anche se la scelta è sovente la più difficile e ci costringe a sacrificare in un certo grado il nostro piacere, infatti esistono dei godimenti distruttivi che dobbiamo evitare se abbiamo come unica meta il perseguimento della felicità.

Con questa impostazione mentale possiamo affrontare tutte le scelte della vita con minore fatica, anche nella rinuncia delle cose che offrono un godimento momentaneo ma che, a lungo andare, ci danneggerebbero. Allora inquadriamo il problema chiedendoci: “Mi darà la felicità?” Poi ricordiamoci che la vera felicità deve essere vera e stabile, poiché la felicità è quella che resta nonostante gli alti e i bassi della vita e nelle normali oscillazioni dell’umore, infatti la felicità è quella che appartiene intimamente al nostro essere.

Allora il nostro andare sarà verso il godimento della vita, anziché verso il suo rifiuto, e il nostro andare darà maggiore ricettività e l’apertura alla gioia di vivere, per questo diventa essenziale addestrare la mente alla felicità. Il primo passo è l’apprendimento in cui dobbiamo imparare che le emozioni e i comportamenti negativi ci danneggiano, mentre quelli positivi ci giovano, perciò dobbiamo abolire dalla nostra mente l’odio, la gelosia e la rabbia che sono i sentimenti più dannosi.

Tali sentimenti, se vengono coltivati nella mente, si intensificano e così si intensificano anche tutti i sentimenti di ostilità verso il mondo: tutte le emozioni negative vengono intensificate da sentimenti come l’odio e la rabbia. Tutti gli stati mentali positivi come la gentilezza e la compassione sono invece utili, perché la persona sana è compassionevole, è gentile, di buon cuore e possiede un grande calore interiore.

Se nutriamo un vero sentimento di compassione, di affettuosa gentilezza, questa coltivazione schiude automaticamente la nostra porta interiore. Così sappiamo improntare le nostre relazioni sui valori del calore umano e sull’amicizia, per cui non avremo bisogno di dissimulare i nostri migliori sentimenti, come invece avviene con quelli negativi. Nell’autenticità del sentire e dell'esprimere tutti i sentimenti di paura, tutti i dubbi e tutte le insicurezze scompariranno automaticamente, perciò susciteremo il sentimento della fiducia.

Mutare l’ottica della mente e cambiare il modo di pensare, non c’è altra soluzione, anche se per cambiare è necessario del tempo, perciò impariamo a svegliarci il mattino con l’intento di vivere bene la giornata che sta iniziando, e la sera facciamo l'attenta verifica del giorno che è appena trascorso. La pratica del dharma consiste nel sostituire i precedenti apprendimenti negativi con altri comportamenti positivi: gli effetti negativi devono rimanere sulla superficie e non devono scendere nel profondo del nostro animo.

Nasciamo con l’encefalo programmato con un certo modello istintivo di comportamento, ma le nostre connessioni non sono statiche e l’encefalo è riprogrammabile, perché possiede la capacità di cambiare e di riconfigurare le sue connessioni in base a nuovi pensieri e nuove esperienze: tale plasticità è una sua proprietà intrinseca.

Agendo sul pensiero e adottando nuove ottiche possiamo influire sulle vie neuronali e correggere il modus operandi del cervello, e la trasformazione inizia con l’apprendimento di nuovi input che si verifica con la progressiva sostituzione del condizionamento negativo (cioè agendo sui moduli di attivazione esistenti) con quello positivo, cioè con la formazione di nuovi circuiti neuronali.

E’ chiaro che, più sofisticato è il livello della conoscenza e più efficace sarà il modo di affrontare la situazione, perciò dobbiamo anche valutare le conseguenze a breve e lungo termine dei nostri comportamenti. Più sofisticato sarà il livello dell’educazione e di conoscenza in merito a ciò che produce la felicità, e maggiore sarà la capacità di raggiungere la vera felicità. Il modo migliore di usare l’intelligenza e la conoscenza è mutare l’interno di noi stessi per maturare la bontà d’animo.

Tutti possono essere felici poiché siamo dotati degli strumenti essenziali per essere felici, e possiamo accedere agli stati mentali che portano alla felicità. Uno stato mentale calmo, compassionevole e moralmente sano giova anche alla buona salute fisica e al benessere generale, perciò avremo anche la salute emotiva che è rafforzata dai sentimenti d’affetto. La mitezza e i comportamenti che ad essa si accompagnano ci arrecano una vita familiare e comunitaria felice e armoniosa perché l'uomo è sostanzialmente compassionevole e mite.

La rabbia, la violenza e l’aggressività insorgono quando siamo frustrati nei nostri tentativi di ottenere l’amore e l’affetto, infatti i conflitti sono causati dal nostro intelletto per lo squilibrio o per il cattivo uso dell’intelligenza o delle nostre facoltà immaginative. L’intelligenza sviluppata in modo non equilibrato, poiché non è adeguatamente bilanciata dalla compassione diventa distruttiva e porta disastri, ma l’intelligenza sana è in grado di trovare modi e mezzi per superare i conflitti.

Il comportamento violento è causato dallo squilibrio di fattori biologici, sociali, situazionali e ambientali, mentre è l’altruismo che permette la sopravvivenza, infatti le relazioni e l’agire per il benessere degli altri è profondamente radicato nella natura umana, poiché proviene dal passato in cui l’unione in gruppo aumentava la probabilità di sopravvivenza.

La nostra vera natura è compassionevole e non aggressiva, ma per avere la felicità dobbiamo scartare le cose che ci arrecano sofferenza e potenziare quelle che portano gioia, perciò dobbiamo meditare su ciò che ci può rendere felici, e poi ridefinire l’ordine delle nostre priorità. Se inquadriamo così la vita è molto probabile che tutto abbia una nuova luce, ma dobbiamo veramente credere che la felicità sia un obiettivo legittimo, e infine decidere consapevolmente di voler perseverare in maniera sistematica al cambiamento della nostra vita.

Buona erranza
Sharatan


lunedì 23 maggio 2011

Guidati dall'energia


“La via in sù e la via in giù
sono un’unica e identica via”

(Eraclito fr. 26,60)

Quando lo spirito che è racchiuso in quello che chiamiamo il Sé accetta l’incarnazione avviene perché esso comprende che deve entrare nella dimensione fisica per compiere un apprendimento. L’esperienza viene accettata poiché esiste un obiettivo spirituale più elevato, e non esiste altro modo per adempiere a questa missione che sperimentare la dimensione fisica.

Dicono che, prima che fossimo calati nella materia sapevamo il motivo dell’incarnazione sia nel progetto individuale, ma anche nelle strategie e nei progetti maggiori che coinvolgono il gruppo di più anime in cui siamo, perciò conoscemmo sia la trama della nostra esistenza che il progetto evolutivo delle altre persone che avremmo incontrato nella vita terrena.

L’energia che noi siamo si sceglie la forma del corpo, si sceglie i futuri genitori, si sceglie il paese in cui nascere, si sceglie le sue relazioni con i debiti e i crediti karmici collegati, poi scegliamo anche il livello evolutivo e l‘epoca storica in cui vogliamo nascere, poiché queste scelte sono ritenute le più adeguate per lo sviluppo.

Il Sé personale conosce il programma della futura incarnazione, perché è inserito in un Sé Superiore che è un “corpo collettivo di energia” che non ha età e che non subisce la limitazione spazio-temporale, perciò conosce tutte le forme di energie che compongono il corpo collettivo. Il nostro Sé è un’energia spirituale singola che è inclusa in un corpo collettivo di energie, perciò ne condivide la memoria e il sapere di cui potrebbe avere necessità, infatti attraverso il Sé Superiore abbiamo la conoscenza della nostra esistenza futura e di quella delle dimensioni con cui entreremo in contatto.

Il nostro Sé individuale è inserito in un Sé Spirituale che è alimentato da una forza creatrice ancora più ampia, e che possiamo pensare come Spirito Supremo oppure come Fonte della vita: questa energia possiede una potenzialità energetica che vuole sempre maggiore evoluzione, perché essa è una forza potente che è dotata di incredibile generosità creativa, e che possiamo chiamare Dio.

Questa forza dinamica ha un irrefrenabile impulso a espandersi, poiché il suo desiderio è quello di accrescersi per diventare sempre più ampiamente sé stessa. Per avere maggiore estensione l’energia creatrice si deve moltiplicare in molteplici che ne aumentano le sue definizioni e le sue caratteristiche, e l’accrescimento avviene perché nell’espandersi e nella dividersi, essa acquisisce una maggiore capacità di creare ulteriormente, e nel momento in cui acquisisce più potere espansivo, anche l’energia creatrice aumenta in potenza.

Questa forza creatrice è in ogni particella fisica, e tale forza è immortale e infinita, infatti ogni cosa che contiene l’impulso vitale si deve accrescere, perciò anche il nostro Sé collettivo Superiore cerca il suo accrescimento. Il nostro Sé accetta l’esistenza fisica perché fa parte dell’insieme di forze che vuole accrescere, infatti noi sappiamo che la forza vitale si deve dividere per aumentare il grado di sviluppo, infatti accettiamo di vivere molte vite con differenti esperienze nel corso di ripetuti soggiorni sulla terra.

L’incarnazione avviene quando la vibrazione energetica materiale diventa adeguata per il nostro Sé che è fatto di spirito, perciò viviamo varie vite per diventare abili nel meccanismo dell’energia, infatti lo sperimentiamo nel ritorno del frutto delle nostre azioni. La vita terrena si costruisce su un determinato percorso ed è solo facendo questo cammino che ci liberiamo.

L’esperienza terrena è usata dal nostro Sé superiore per accrescere la sua forza, e le sue difficoltà ed i suoi limiti sono delle opportunità di sperimentare nuove forme di vibrazione energetica e di divenire esperti manipolatori di energie. Dicono che i limiti e le difficoltà materiali ci permettono un maggiore sforzo e un maggiore accumulo energetico, perciò l’energia concentrata inizia a vibrare più velocemente, e più l’energia è concentrata più vibra veloce, perciò la nostra forza viene potenziata.

Più la nostra evoluzione avanza e maggiore diventa il ritmo delle nostre incarnazioni, perciò diminuisce la distanza di tempo che intercorre tra una vita e l’altra, infatti il nostro Sé spirituale è divenuto più esperto, perciò viene connesso ad una maggiore quantità di energia e con energie sempre più potenti.

Per aiutarci a sostenere il percorso terrestre, nel corso delle prime vite in cui siamo inesperti, ci vengono assegnati due esseri spirituali che sono Angeli del karma che hanno il loro obiettivo spirituale che assolvono prestando servizio al nostro fianco. I nostri angeli custodi ci vengono assegnati per ricordarci gli obiettivi che avevamo definito prima dell’incarnazione, e da cui potremmo deviare essendo immemori di ciò che avevamo concordato.

I nostri angeli non controllano le nostre azioni, ma possono proiettare delle energie che possiamo recepire oppure possiamo ignorare, perciò la nostra scelta resta svincolata dalle loro azioni e noi restiamo liberi di scegliere la qualità delle nostre esperienze. Solo quando diventiamo più evoluti abbiamo l’aiuto di una potenza energetica maggiore, perciò ci viene assegnata una guida unica e più potente che è chiamata daimon.

Non è facile capire questa forma di energia, ma possiamo comprenderla se pensiamo che il nostro daimon sia stato una persona a cui siamo stati collegati nelle vite passate come una madre, un amico oppure un amante. Il loro corso evolutivo è maggiore del nostro, perciò esso ha il ruolo di facilitare anche la nostra evoluzione, e se noi ci sforziamo di migliorare e collaborare anche il daimon potrà aumentare la quantità di forza e di energia che ci imprime.

Maggiore energia possiamo contenere e più siamo veloci nel progredire, perché sarà maggiore la spinta evolutiva che il daimon può imprimere, infatti può proiettare tutte le energie opportune per il nostro progresso: e la quantità di energia che possiamo contenere è un nostro limite. Anche la nostra guida può fallire nel compito, perciò deve continuare il suo servizio presso altri individui fisici, finché abbia appreso bene come plasmare e proiettare le energie, così come dobbiamo fare anche noi.

Anche se il daimon è a un livello spirituale superiore e, sebbene non possa decidere il nostro destino, egli ne conosce la struttura che Platone nel mito di Er, chiama “paradeigma” per definire sia la forma fondamentale che abbraccia l’intero destino dell’essere umano che l’ombra che ci accompagna per tutta la vita. Il daimon è il custode del nostro destino e della nostra fortuna, ed è la presenza che non ci lascia mai perché tutela i nostri interessi.

Il daimon s’interessa a ciò che facciamo, ci protegge anche a dispetto delle nostre volontà, infatti ci ha scelto perché dal nostro successo dipende anche la sua evoluzione. James Hillman afferma che il daimon svolge la sua funzione di promemoria in molti modi, infatti ci motiva, ci protegge, ci assilla con ostinata fedeltà, si oppone se vogliamo cedere alla ragionevolezza rinnegando la nostra vocazione.

Spesso impone bizzarrie e devianze al suo padrone, specialmente se si sente trascurato o contrastato da lui. Il nostro daimon ci offre il suo conforto e può attirarci nel suo guscio e, se nella vita trova degli errori e dei nodi insoluti, allora è lì che si rifugia per aiutarci a scioglierli perché è dotato di prescienza, anche se non ha il potere di manipolare gli eventi del nostro vivere poiché la sua veggenza è limitata, e lui conosce solo il corso generale del nostro destino.

Questa energia ci dona l’ispirazione e l‘intuizione, perciò c’infonde quel sentimento di unicità che avvertiamo e che viene spesso collegato all’inquietudine del cuore, all’impazienza, all’insoddisfazione e allo struggimento interiore. Il daimon ama la bellezza e vuole essere riconosciuto dal suo padrone, perciò è lento ad ancorarsi ma è veloce a volare via, poiché non ha dimenticato la sua natura divina e sulla terra si sente sempre esule e vuole tornare nell’armonia del cosmo. Il suo linguaggio ama le metafore e le immagini che sono la base della lingua dei poeti, perciò sono la lingua che il daimon ama per comunicare con gli uomini.

Buona erranza
Sharatan

giovedì 19 maggio 2011

Nel cuore dei veggenti


“Quando lessi la Bhagavad Gita
e riflettei su come Dio creò questo universo,
tutto il resto mi è sembrato così superfluo”

(Albert Einstein)

Nella Chandogya Upanishad il saggio Aruni si interroga sull’origine del cosmo, degli dei e degli uomini, poiché il metodo dello yoga che è tipicamente indiano, rende gli ariani molto introspettivi. Praticando l’introspezione essi sono divenuti consapevoli che nel cuore dell’uomo vi è un vuoto che giace in una quiete indescrivibile che è oltre il pensiero e il sogno, perciò è oltre ogni percezione. A cosa corrisponde il vuoto interiore dell’uomo? Vi è un principio che è oltre il tempo? Vi è un substrato che è oltre la materia? E questo substrato è unico o molteplice? Nelle Upanishad sono contenute le risposte a questi quesiti cosmologici.

Gli induisti affermano che, oltre le forme e le apparenze esiste un continuum che è uno spazio causale non differenziato di cui vediamo solo l’aspetto esteriore. Il substrato più evidente, poiché è il supporto delle forme materiali è lo spazio, infatti lo spazio vuoto e assoluto è un continuum illimitato, che è indifferenziato e indivisibile detto etere, e in esso sono fissate le coordinate percepibili, e che sono relative per l’infinito. La localizzazione che facciamo dei pianeti, delle stelle e di tutti i corpi celesti crea l’illusione che vi siano delle ripartizioni ben definite, ma “lo spazio interno alla giara, non è mai separato dallo spazio esterno.”

Secondo gli induisti, lo spazio che viene delimitato dalla giara esiste finché la giara non viene infranta, poiché lo spazio che conteneva, esisteva ancor prima che la giara fosse plasmata. La delimitazione della materia in atomi è una mera illusione, poiché tutte le dimensioni esistono solo in funzione della nostra capacità di percepirle. Lo spazio che è all’interno dell’atomo è vuoto, perciò potenzialmente potrebbe contenere un’infinità di mondi, infatti non esiste alcun limite al numero dei mondi che potrebbero essere inclusi uno nell’altro.

Similmente anche il tempo è un altro continuum esistente, infatti è simile ad un bastone invisibile, poiché è solo l’eternità che è sempre presente e resta indissolubile, infatti il tempo viene sempre unito allo spazio con cui condivide le medesime caratteristiche e specificità. Il terzo substrato cosmologico è il pensiero, infatti tutto ciò che esiste ha la forma e la struttura logica che è tipica della realizzazione di un piano preciso, perciò è come un sogno ben organizzato. Nell’induismo si afferma che il mondo concreto visibile è l’idea o la forma cristallizzata del pensiero di un Essere Creatore.

Questo diventa evidente quando indaghiamo sul mondo e, nell’analisi più profonda non ritroviamo più la sostanza materiale, ma una formula e un concetto che sono simili ai prodotti di un Pensiero che progetta. Se il cosmo è visto come la manifestazione di un pensiero logico e ordinato, allora siamo spinti alla ricerca del substrato attivo e vivente, che è il fondamento di ogni continuum che può essere percepito.

Il substrato dello spazio è l'esistenza che è sat, il substrato del tempo è l’esperienza che è ananda, cioè la beatitudine, mentre il substrato del pensiero è la coscienza che è cit. Affinché un luogo possa esistere deve esistere anche l'oggetto da collocare al suo interno, perciò deve esistere una forma di esistenza a prescindere dai confini e misure della forma materiale: infatti l’esistenza dell’ente pensante precede lo spazio concreto.

Il tempo esiste se vi è la percezione di esso, perché il tempo che non è percepito non ha durata, e non può misurare nessun trascorrere: infatti la percezione precede anche il tempo. La percezione primaria è potenziale e indifferenziata, infatti è l'esperienza della perfetta beatitudine, come si afferma nella Taittiriya Upanishad (III; 6,1):

“Sappi che Brahman è beatitudine (ananda) perché dalla beatitudine nascono invero gli esseri e mediante la beatitudine, una volta che sono nati vivono, e nella beatitudine ritorneranno allorché muoiono.” Poiché la beatitudine è possibile solo con l'esperienza, non esiste l'esperienza senza l'esistenza; perciò l’induismo afferma che beatitudine è una forma di esistenza che si illumina da sé, ed è diversa dalla semplice sensazione.

Quando parliamo dell’esistenza è evidente che il vivere deve essere privo d'inerzia: la beatitudine è vita e il tempo è morte, poiché sono i due aspetti dell'entità unica, infatti il Signore del Sonno, che è Shiva è il principio della disgregazione, ma è anche il Signore della Beatitudine, il cui simbolo fonte di vita e piacere è il lingam, cioè il fallo. La fonte della vita e della morte è Shiva che è simbolo sia dell’amore che della morte, ed è l'opposizione nelle due esperienze più intense del vivere umano.

Siccome la beatitudine è la forma dell’esperienza, il continuum della beatitudine è costituito da emozione e sensazione, che è rasa. Nella Taittiriya Upanishad (2,7) è detto “Egli in verità è sensazione” rispetto all’Assoluto, poiché la più intima natura delle cose è l’esperienza della beatitudine assoluta che è vissuta nell'assoluto che si assapora solo nell’attimo presente, che è sempre concreto e reale, perciò perfetto come l’eternità. Colui che raggiunge lo stadio in cui percepisce il godimento dell’attimo presente, che è la sola realtà sempre persistente, è sempre libero dall’obbligo dell’azione, poiché il presente è la perfetta conciliazione dell'azione e dell'inerzia.

Il substrato continuum del pensiero è la coscienza che presume l'esistere solo con l'esistenza di un essere consapevole, infatti non può esistere un pensiero se non esiste il Pensatore, che è una forma di individualità. Il luogo della coscienza universale è il Sé (atman) che è l'immensità priva di forma, ed è il substrato che è sperimentato come vuoto oppure oscurità totale, ed è posto nel luogo che vive oltre la ragione e l’intelligenza. Questa regione è percepita come interna all’uomo, nell’interiorità del nostro essere, come un io profondo comune a tutti gli esseri umani, e come un Oceano privo di forma da cui emerge la struttura dell’individuo.

Il Sé Risplendente, si dice nella Mundaka Upanishad, è immenso, luminoso, inconcepibile e più sottile del sottile, più lontano del lontano, ma è anche nel luogo più vicino, infatti è “celato nel cuore dei veggenti.” Il Sé è inafferrabile e non può essere catturato, è indistruttibile e non può essere ucciso, è inattaccabile, perciò non può essere colpito: il Sé elude i vincoli di tempo e di spazio, perché il Sé dell'Anima individuale è più piccolo dell‘atomo e più vasto dell‘universo.

Infatti, “colui che conosce il vasto spazio racchiuso nella caverna del cuore realizza tutti i suoi desideri ed entra in contatto con l‘Immensità” (Taittiriya Upanishad (2,1). L’anima, che è il sé, è il continuum indivisibile che unisce tutti gli esseri, di cui ognuno è una entità pensante infatti, in ogni cosa che esiste è racchiusa una parte di anima, così come la forma circonda la porzione di spazio, così anche l’attimo avvolge la particella del tempo.

Similmente, anche la suddivisione dell’Anima Universale dà vita agli esseri individuali, perciò nessun’anima individuale può ritenersi divisa dall’anima universale come avviene con la forma della giara che racchiude una porzione di spazio, infatti avviene che la suddivisione di spazio imprima alla giara la sua forma concreta. Perciò è questo il motivo per cui l'anima è sempre inserita nel continuum della Coscienza Universale.

Tutte le esperienze provate dall’anima sono esperienze dell’identità individuale, ed il sé individuale che è l'atman che ha necessità della dualità per discriminare, infatti un sé esiste solo nella dualità, poiché l’uno ama l’altro, l’uno odora l’altro, l’uno sente l’altro, l’uno tocca l’altro, etc. Il substrato della coscienza universale è la somma di tutti gli dei, poiché è la forma di tutte le forme dell’universo, infatti il Sovrano del Cielo, in cui tutti gli dei formano l'Essere Supremo include tutto l'esistente.

Questo Sé superiore è il continuum della coscienza che diventa l’unico oggetto, la meta suprema della meditazione del saggio e che non viene mai toccato dalle azioni che vengono accumulate dall'uomo, e che forgiano l’individualità umana. Questo Sé, quando è a contatto con i caratteri dei singoli viene colorato come il vetro che sembra colorato in contatto con una superficie colorata, e può diventare rosso al contatto con la rosa.

Colui che conosce l’atman e lo rende la meta della sua felicità, si dice nella Chandogya Upanishad (VII, 25,2), può muoversi liberamente tra i mondi e diventare il maestro di sé stesso, mentre coloro che pensano altrimenti sono condannati a restare legati ai mondi transeunti e non possono uscirne quando vogliono. L’anima esiste come continuum persistente e costante, sia all’interno che all’esterno delle cose, mentre l’Io dell'individualità è il nodo temporaneo ed è il punto della coscienza particolare dove vengono legate e si manifestano solo alcune delle facoltà universali.

L’Io è il centro specifico in cui sono focalizzate le qualità del Sé indefinito universale che contiene infinite correnti e differenti linee di tendenza che si perdono nello spazio infinito. Il Sé esiste sempre perché è indefinito e senza pensiero, mentre l’io è la focalizzazione della vibrazione che diviene pensiero particolare: il Sé è il continuum di cui l’uomo fa diretta esperienza, infatti è il punto in cui l’uomo conosce l’Assoluto usando la sua medesima natura essenziale.

Il Sé è l’Assoluto che vive nell’uomo, perciò non esiste alcuna realtà che sia trascendente alla nostra coscienza, ma questo è “capito soltanto dai veggenti con gli occhi sottili dell’intelletto” (Katha Upanishad I, 3,12). Vi è un punto in cui avviene la completa fusione tra l’anima universale e l'anima personale, ed è il punto-limite che è il “bindu” nell’uomo. E’ da esso che ebbero origine tutte le cose, e cui tutto farà ritorno, perciò è il punto in cui dimora l’Uno, che è la Coscienza Universale di tutti gli esseri viventi.

L’atman è il ponte che unisce i mondi e impedisce la disgregazione, perciò superando questo ponte, i ciechi recuperano la vista, i prigionieri vengono liberati, e i malati vengono sanati. Attraversando questo ponte, si dice nella Chandogya Upanishad (VIII; 4,1-2), la notte diventa giorno, perché il mondo di Brahman è luce, perciò il Sé non è raggiunto usando delle spiegazioni tipiche dell’intelletto o della ragione, ma viene raggiunto da “colui che gli si dedica,” ed è per “costui che l’atman riveste il suo corpo.”

Chi non riesce a rinunciare all’azione, chi non trova la pace, chi non sa concentrarsi e non sa ridurre il pensiero al silenzio non può sperare di raggiungere il sé soltanto con l’ausilio dell’intelligenza (Katha Upanishad II; 22,23). Questo Sé che non si vede e non si sente non può essere percepito con i sensi, non si ottiene con le pratiche ascetiche o per merito delle buone azioni, ma è solo per grazia della conoscenza che colui che si è purificato lo può sperimentare interamente quando è in meditazione (Mundaka Upanishad III 1,8).

Per questo solo colui che è in pace, chi è calmo, chi è distaccato e paziente riesce a scorgere l’atman che vive in ogni cosa, perciò nessun male lo può bruciare, perché lui riesce a bruciare anche il male, infatti solo costui può vivere privo di ogni imperfezione e di ogni dubbio, infatti solo il saggio raggiunge lo stato in cui conosce l’Immensità, che è Turiya. (Brihad-Aranyaka Upanishad IV 4,23).

Buona erranza
Sharatan

domenica 15 maggio 2011

Conosci Te Stesso come Luce



Conosci Te Stesso come Luce.
Più grande persino del respiro.
Più esteso del Tutto.
Più silenzioso del Silenzio
che ti ammanta.

Conosci Te Stesso come Ammantato.
Più tenero persino di prima;
più profondo
di qualunque Oscurità.

Quando il tuo Corpo di Luce
respira senza confini
non sa
neppure dell'idea
o di un limite in assoluto.

Quando conosci Te Stesso
solo come Luce
che richiama il Mistero
per muoversi attraverso di Te
squisito, innocente strumento
della lunga
lunga eternità del canto.

allora

Conosci Te Stesso come
la più grande Risata della Vita
il più grande Amante della Vita
che fanno cenno al Mistero

di avvicinarsi...


(Em Claire)


sabato 14 maggio 2011

I tempi primordiali degli dei e degli umani


“Io non sono nato, la mia essenza è immutabile;
io sono il Signore di tutti gli esseri contingenti.
Tuttavia, nello stesso tempo, con la mia energia creativa
mi unisco alla natura - che è la mia - e vengo ad essere nel tempo“

(Bhagavad Gita 4,6)

Secondo la sapienza induista l’etere universale non è uno spazio vuoto ma è un oceano illimitato che è popolato dagli dei, dagli spiriti planetari e da altre creature inferiori, in cui la vita e la consapevolezza sono allo stato potenziale: tutte queste forze sono come i pesci che vivono nel mare perciò, come i pesci del mare, queste creature possono essere amiche o nemiche dell’uomo. Gli antichi credevano che vi fossero varie divinità che vivevano nell’etere cosmico e che si adattavano perfettamente a quei luoghi celesti.

E’ il perpetuo movimento della luce astrale che determina il grado evolutivo di questi esseri fatti di etere e di energia, poiché la luce è una forma di energia assoluta e immutabile, e non è paragonabile a ciò che la mente umana può concepire. Fin dall’origine dei tempi la volontà dell’Uno, in perfetta armonia con le leggi del creato, ha generato delle strutture elementali da cui ha avuto origine anche la razza umana.

Queste razze antiche hanno popolato i pianeti e le forze che animano gli individui si svilupparono in questa matrice, poiché deriviamo dai corpi di questi esseri elementali che sono i germi primordiali degli dei e degli uomini, che ebbero una ulteriormente evoluzione che gli permise di passare nei mondi invisibili.

Nelle filosofie antiche esiste la concezione che vi sia la medesima origine nella derivazione degli uomini e degli dei poiché, nel creato vige la medesima legge evolutiva e si afferma che, vi fosse una serie ininterrotta di forme elementali che, per progressione emersero da una nebulosa indifferenziata dotata di immensa energia per svilupparsi fino a giungere ad incarnarsi nel corpo fisico dell'uomo.

Questo è il fenomeno con cui l’emanazione della volontà divina si è differenziata, cioè facendo emergere dall’etere universale delle forme materiali che progressivamente si sono raffinate fino all’involucro di carne che racchiude lo spirito dell’uomo. Questo è la spiegazione del funzionamento della catena di evoluzione che proviene dallo spirito per giungere fino alla materia più grezza e che risale, in progressione, fino a ritornare alla fonte dell’Energia creatrice.

Nell’universo vi è una realtà eterica costituita da innumerevoli forme di energia e di vita, così come esiste in ogni minuscolo atomo, sin dal più umile filo d’erba, in cui pulsa un mondo di energia che vibra di potenzialità evolutiva. Nel corpo umano abitano delle minuscole strutture atomiche di cui siamo costituiti e che sono forze viventi, ma poi l’uomo abita la terra, e la terra abita lo spazio, in una posizione che è tra la luna e le stelle: per questo sappiamo che siamo inseriti in uno spazio che è pieno di infinite forme di esseri che sono forniti di vitalità.

La legge universale prescrive che neppure il più minuscolo atomo di energia debba andar sprecato, e che tutto debba avere la sua giusta collocazione, perciò non esiste nessun essere che sia inutile o che sia privo di significato e di un senso nel creato. Per questo motivo tra l’uomo e tutto ciò che esiste vi è fondamentale affinità, ma per sapere questo è necessario credere che esista una realtà raffinata e complessa che prescinde dalla percezione ordinaria, perciò dalle nostre limitazioni.

Le forze dell’elemento eterico sono suddivise in forme di energie di tipo perfettamente opposto, per cui abbiamo degli esseri assolutamente infimi ed esseri di eccezionale purezza e chiarezza che si prestano a fare da intermediari tra gli uomini e gli dei. C’è poi il livello descritto dai filosofi antichi come Socrate, Platone o Plutarco e da tanti altri saggi dell’antichità, e sono quelli che chiamano “daimon” e che sono esseri intermediari tra il cielo e la terra, perciò condividono la condizione divina, ma ebbero originariamente una condizione umana che era offuscata dall’imperfezione.

Questi esseri si suddividono in classi e famiglie inferiori, e la nostra Anima individuale è il primo “daimon guardiano” di ogni essere umano, perciò nessuno ha più potere sull’uomo del daimon personale: così il daimon socratico è il Dio o l’Entità Divina che ci ispira. Platone afferma che esistono 3 classi di daimon fra gli dei superiori e gli dei inferiori che siamo noi anime incarnate:queste entità spirituali popolano l’universo con i loro corpi composti di aria e di vapore.

Di queste 3 classi, le prime due sono invisibili e il loro corpo è composto di fuoco e di etere, infatti sono gli spiriti planetari. I daimon di terza classe sono formati da corpi vaporosi e sono perlopiù invisibili, ma qualche volta si concretizzano e diventano velocemente visibili, ed essi sono gli spiriti terrestri cioè la nostra anima astrale.

Apuleio diceva a proposito dell’anima divina e dell’anima umana che quella umana è un daimon che il linguaggio può definire ”genio” ed è un dio immortale, benché prenda dimora nel corpo dell’uomo per tutta la sua vita: in questo senso figurato il nostro genio nasce e muore assieme a noi. Cicerone afferma che Dio non ha corpo ma, nelle cose nascoste avviene che si può percepire ugualmente, e avviene come se si potesse toccare con il tocco tangibile.

In alcune civiltà la schiera delle divinità celesti e dei semidei umani diventa una schiera infinita con una molteplicità di qualificazioni di vizi e di virtù e, allegata alla loro qualità, essi posseggono anche la reggenza su quelle qualità e su quelle carenze, e ne governano delle determinate ripartizioni e distretti nei territori celesti e terrestri.

Nell’induismo, tra le schiere di esseri celesti, ricordiamo i “deva” cioè i “brillanti” che sono esseri spirituali splendenti che hanno partecipato alla fondazione degli universi, e che presiedono sui vari regni della natura, e che il mito occidentale denomina gnomi, fate, silfidi e salamandre, oppure come i “djinn” musulmani e altre simili categorie mitologiche.

Queste forme elementali non posseggono coscienza, poiché costituiscono l’Anima degli elementi della natura, perciò governano la terra, l'acqua, l'aria e il fuoco, e sono forze capricciose e mutevoli che costituiscono dei potenti centri di forza o centri energetici. Si narra di contatti di volontà potenti che riuscirono a modellare le forze naturali piegandole alla loro indomabile volontà, ma le forze della natura sono immani e finiscono sempre per sconfiggere chiunque gli si opponga: le forze degli elementi non vissero mai in forma umana, ma diverranno uomini nel futuro

Esistono poi gli esseri chiamati “pitri” termine che deriva dal sanscrito “pitr” cioè padre, antenato o avo, e che corrispondono ai “lari” romani che erano le divinità del focolare familiare: in questi esseri vive l’anima collettiva dei nostri antenati diretti, perciò essi sono l’essenza dell’eredità della stirpe umana, e gli “antenati lunari” di cui scrive Steiner.

Gli induisti lasciano l’involucro carnale affermando: ”Nachapurana Varti!” cioè “Io non tornerò!” perché si resterebbe al riparo dall’attacco dei medium che trattengono lo spirito umano per impedendogli di ascendere e ricongiungersi con le meravigliose sfere del cielo. I pitri sono devi perché sono brillanti, ed essi scesero dal sole e dalla luna per lasciare la loro ombra astrale presso gli uomini, e avvenne quando fornirono primitivi modelli per creare gli esseri umani.

Nei Rig Veda si raffigura il dio Vishnu come simbolo del fuoco che è universalmente diffuso, perciò anche come il sole che gira nelle 7 regioni del mondo compiendo 3 passi: più tardi questa operazione fu assegnata al dio Agni, a Indra e ad altre divinità che rappresentano le simbolizzazioni degli antichi culti solari. Nei Rig Veda si distingue tra i pitri che sono in grado di donare il fuoco e i pitri che non seppero donare il fuoco, poiché ci furono pitri che rifiutarono di fare il “sacrificio” del fuoco primordiale perciò furono puniti.

Nel significato più elevato e spirituale, coloro che fecero il sacrificio sono detti i “Sette Figli del Fuoco” o “Figli della Fiamma” e sono equivalenti alle 7 sephiroth che si sottoposero al sacrificio della frantumazione dei vasi, di cui dice la cabala. Da questi 7 pitri senza forma, vengono generati 7 pitri inferiori loro figli, di cui viene detto che “sono nati dalla mente” e che sono i rishi, i Prajapati, e altri esseri più tangibili dei loro genitori.

Da essi vengono altre generazioni di pitri di terzo livello, che sono “arupa” cioè “senza forma” che generarono degli esseri più materiali con l’aiuto dell’Anima Universale” che è l’Akasha: questo è il livello della creazione di esseri che ebbero poca anima divina immortale, e perciò furono una creazione incompleta.

Fu così che vi fu la fusione di tutti gli esseri che formarono un quadrato da cui furono generati degli esseri che erano perfetti nell’anima, nel corpo e nella mente, a cui ognuno contribuì donandogli le sue particolari prerogative: e questo fu quello che avvenne secondo la concezione induista quando fu creato il mondo.

All’origine vi era la materia cosmica primordiale, che è veicolo di vita vivente nello spirito, ed è questa la composizione dell’etere celeste che si spande nello spazio illimitato, poiché questa è la sostanza del mondo, dalla materia originaria germogliano tutti gli esseri che vengono formati dagli atomi e dalle molecole addensate nella materia.

L’elemento universale, benché omogeneo originariamente, una volta che ebbe diffuso le sue radiazioni nello spazio infinito, dovette usare delle forze centrifughe e delle forze centripede per fare un movimento di attrazione e di repulsione che sapesse polarizzare le particelle sparpagliate.

Con la polarizzazione, le particelle si comunicano le loro particolari caratteristiche e le loro proprietà, perciò possono restare eterogenee e distinte una dall’altra. Se fosse restata omogenea, come all'origine, la materia primordiale sarebbe stata perfetta, ma essa si è disintegrata perciò ha smarrito le sue proprietà creatrici, infatti la disgregazione gli ha tolto la completezza, perciò è nata la necessità di dover unire i contrari.

Però, i primi mondi e i primi abitanti furono degli insuccessi, perché nessuno di quei corpi aveva in sé la forza del potere creatore che è necessario per continuare ad evolvere, infatti quelle anime non erano immortali.

Solo lo spirito “purusha,” che fa parte dell’Anima del mondo, era presente in quei mondi incompleti ma, da solo era troppo debole per poter avere coscienza, perciò vi furono mondi che finirono prima di completare la loro esistenza, ed erano privi di forma materiale detti “scintille” che furono mondi primordiali. Secondo lo Zohar in essi non esisteva nessun uomo con tutte le 10 sephiroth, infatti l’uomo per essere completo deve avere lo spirito, l'anima e il corpo, poiché solo questa è la forma umana perfetta.

Buona erranza
Sharatan

martedì 10 maggio 2011

Privi di identificazione e di considerazione


“Una cosa l‘uomo deve ben comprendere:
la sua evoluzione non è necessaria che a lui.
Nessun altro vi è interessato,
ed egli non deve contare sull‘aiuto di nessuno;
infatti, nessuno è tenuto ad aiutarlo
e neppure ne ha l‘intenzione.”

(Georges Ivanovic Gurdjieff)

L’uomo non riesce a ricordarsi di sé stesso, dice Gurdjieff, poiché la caratteristica fondamentale della natura umana è la costante “identificazione” con tutto quello che cattura la sua attenzione, il suo pensiero e il suo sentimento. Se l’uomo riesce ad osservarsi attentamente, non potrà che convenire sul fatto che l’identificazione è sempre presente e che è costante e che l’elemento variabile è l’oggetto con cui ci identifichiamo, perché giunge sempre una cosa diversa a catturare la nostra attenzione.

Lavorando su se stesse, le persone si identificano con i loro sentimenti più profondi perciò si lasciano catturare dagli elementi isolati rischiando di perdere di vista una prospettiva generale. Nell’uomo avviene un errore di prospettiva come se, vedendo un paesaggio, l’attenzione venisse catturata da un albero isolato, ma pensassimo che quell’albero possa rappresentare tutto il paesaggio. Senza dubbio l’identificazione è la peggiore nemica dell’uomo che esamina, infatti diventa un inganno e l’illusione del punto di vista che interviene mentre cerchiamo di liberarci dai nostri condizionamenti.

Il motivo per cui è difficile sfuggire alle identificazioni, afferma Gurdjieff, è perché ci identifichiamo più facilmente con le cose che attraggono la nostra attenzione, in quanto gli dedichiamo molto del nostro tempo, del nostro impegno e della nostra cura. Per sfuggire al rischio è necessario restare vigili e diventare inflessibili nei nostri riguardi, perciò non avere paura di vedere e di smascherare le forme più sottili e più nascoste delle nostre tendenze: studiare come avvenga l’identificazione è molto utile per scoprire le cause profonde di una tendenza che è assai lodata.

Tutti ritengono che senza l’identificazione non si può compiere alcun tipo di lavoro, perché la confondono con la “passione” o con lo “zelo” oppure con ”l’ispirazione” che usiamo nello studio dell’oggetto da imitare: questo è falso, perché da un uomo che non è cosciente e desto non proviene nulla di sensato. Se pensiamo in modo lucido al potere dell’identificazione diventiamo consapevoli del rischio che corriamo, perché nell’identificazione si diventa una cosa oppure un organismo di carne, ma non si può essere degli uomini.

Se guardiamo alle cose che amano gli uomini e se osserviamo i ristoranti, i negozi e i teatri, vediamo che essi discutono, mostrano e cercano delle cose a cui attribuiscono un valore che esse non posseggono. L’uomo insegue degli oggetti che sono frutto del suo desiderio, della sua avidità e della sua illusione, infatti ottiene in cambio delle cose vuote di cui nulla resta. E’ per questo che l’identificazione è il maggiore ostacolo al ricordarsi di noi stessi, poiché ci insegna a dipendere dagli altri e restare sottomessi, e se l’uomo non può ricordarsi di sé non può ritrovare il suo vero essere.

Per non identificarsi dobbiamo ricordare che racchiudiamo due opposti in cui esiste un“Io” che combatte un “ego,” che deve essere sconfitto se vogliamo ottenere qualcosa di utile. Se l’uomo non cessa l’identificazione resta esposto al rischio che gli avvenimenti lo rendano schiavo del dolore o del piacere, perciò la prima liberazione è quella dell’identificazione con l’ego. Se questo è l’aspetto generale resta da capire l’identificazione con le persone osservando la considerazione che offriamo agli altri.

Perlopiù l’uomo si identifica con le opinioni altrui, infatti si identifica con ciò che le persone pensano, con il modo con cui lo trattano, perciò si preoccupa dell’atteggiamento e della considerazione che ottiene dal mondo, infatti se crede che gli altri non lo apprezzino e che non siano gentili sente disagio e preoccupazione. L’uomo diventa sospettoso e perde una grande quantità di energie nel fare congetture e supposizioni sul pensiero degli altri: è così che diventiamo più diffidenti, chiusi e limitati dal comportamento degli altri, poiché esso assume un‘importanza che è eccessiva.

L’uomo considera eccessivamente non solo le persone, ma anche la società e le condizioni storiche in cui vive, così che tutto ciò che non gli aggrada e che non comprende diventa ingiusto, illegittimo, falso e illusorio. Il punto di partenza di questo pensiero, dice Gurdjieff, è quello che le cose vadano cambiate, perciò l’ingiustizia è una delle maschere più insidiose della considerazione. Sembrerà strano, ma le persone arrivano a considerare troppo anche il clima, la pioggia, il caldo, il freddo e s’indignano persino per il maltempo.

L’uomo prende tutto in modo troppo personale e la sua considerazione lo vincola a quelle che crede siano delle sue esigenze fondamentali. L’uomo sente che deve essere maggiormente considerato, perché è un essere notevole davanti al quale tutti devono inchinarsi, e riconoscerne l’intelligenza, la bellezza, il potere, l’abilità, l’umorismo e le qualità che lo rendono magnifico. Ma questa necessità di essere riconosciuti come magnificenti si fonda su una concezione fantastica di se stessi presente in uomini che hanno un’apparenza assai modesta e ordinaria.

Pensando così è evidente, afferma Gurdjieff, che molti artisti, scrittori, musicisti e politici sono malati. Se vogliamo sapere di cosa soffrano, allora scopriamo che essi nutrono una enorme opinione e una smisurata considerazione di loro stessi, infatti sono sensibili esclusivamente alle esigenze di quello che gradiscono, perciò si offendono se non vengono apprezzati e riconosciuti universalmente. Vi è poi la considerazione di tipo opposto, in cui si teme di non avere considerazione sufficiente per gli altri, e si teme di non considerare abbastanza il mondo.

Temere di non saper dimostrare sufficiente considerazione mostra la nostra debolezza, perché dimostra che l’uomo può temere altri uomini, e anche questo causa una perdita di equilibrio, infatti l’uomo non riesce a fermarsi e diventa insensato se non smette di considerare eccessivamente il mondo. Si pensa che smettere di considerare comporti la perdita della sincerità e dell‘autenticità ma, avviene come nella lotta contro le emozioni negative, e la sola differenza è nel fatto che la considerazione è una lotta contro le manifestazioni esteriori delle nostre emozioni mentre, nella negatività mentale, il conflitto avviene all’interno dell‘uomo.

Il timore di perdere la sincerità e la spontaneità è un inganno, poiché è l’illusione con cui nascondiamo la fragilità umana. La verità è che l’uomo non può impedirsi di provare delle identificazioni, e non riesce ad esimersi dalla considerazione interiore come pure non riesce a non provare delle emozioni sgradevoli: questa è la ragione per cui l’uomo è debole. A questo punto è chiaro il meccanismo con cui l’identificazione e la considerazione diventano delle espressioni sgradevoli dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti interiori, infatti permettono che le emozioni ci rendano schiavi e incapaci di dominarci.

Ma l’uomo teme di ammettere le sue debolezze, perciò chiama le cose con cui si identifica la sua sincerità, la sua passione, il suo interesse e la sua aspirazione e reputa tutto questo come i suoi punti di forza invece che crederli dei sintomi delle sue paure. L’uomo dice di non voler lottare contro i suoi elementi di vantaggio, ma la verità è che non ha voglia di sottostare alla disciplina. Sebbene venga negata una tale evidenza, nel suo intimo, l’uomo conosce questa verità, ma mente a se stesso e continua a mentire pur affermando di voler essere sincero.

La considerazione esteriore che sappiamo dimostrare fa parte della nostra capacità di adattamento all’ambiente sociale ed è collegata alla capacità di comprendere e di saper rispettare le esigenze degli altri. Dobbiamo imparare a vivere in modo da rendere la vita più facile a noi e ai nostri simili, perciò dobbiamo conoscerli, dobbiamo comprendere le loro esigenze e le loro azioni, e dobbiamo saper valutare anche i pregiudizi e le limitazioni degli altri, infatti anche la considerazione esteriore richiede padronanza e l’utilizzo del potere del controllo interiore.

Spesso accade che l’uomo dimostra una considerazione sincera per gli altri, perciò crede di esprimere ciò che pensa e che sente ma, se l’uomo è debole, la considerazione diventa il desiderio di essere considerato, anche se accampiamo mille giustificazioni e diamo tutte le colpe agli altri che ci oppongono un rifiuto, così si fallisce infruttuosamente. Un debole dice che il fallimento viene perché gli altri lo usano, ed è così: ma se lui cambiasse l’atteggiamento anche le circostanze muterebbero, infatti l’eccessiva considerazione esteriore dimostra l'eccessiva dipendenza interna dal mondo esterno.

Accade che molti considerano il prossimo mascherando una eccesiva necessità di ricevere la considerazione, che è l’ulteriore dimostrazione di quanto la considerazione fluisca dall’interno all’esterno. Se l’uomo si ricorda di sé e vuole migliorare sa comprendere che tutti gli uomini sono macchine che rispondono in modo automatico e inconsapevole, perciò si ricorda che siamo tutti uguali.

Ricordando sappiamo comprendere e percepire ciò che gli altri pensano e sentono, perciò sappiamo usare in modo utile l’identificazione e il lavoro di perfezionamento ne sarà avvantaggiato. Se invece l’uomo avvicina gli altri solo per la soddisfazione delle sue esigenze ottiene il peso di troppe considerazioni da gestire, perciò l'equilibrio deve essere trovato. Un’equilibrata considerazione del mondo è essenziale per completare il perfezionamento ma, se vogliamo la massima efficacia diventa essenziale moltiplicare per dieci volte il livello di attenzione che è sufficiente nella vita ordinaria.

E’ il giusto apprezzamento che l’allievo dimostra per la considerazione che ci fa valutare se ha la comprensione del lavoro, e il risultato sarà proporzionale al valore che egli saprà dare e dalla comprensione che ne otterrà in cambio. E’ necessario ricordare che nessun lavoro si compie ad un livello che è inferiore a quello della vita ordinaria, e che tutti iniziamo a lavorare dal livello di uomini ordinari, perciò la mancanza di considerazione, la mancanza di rispetto, l’asprezza e l’impazienza ci dimostrano che abbiamo dimenticato che viviamo per imparare nel contatto con il mondo.

Buona erranza
Sharatan