giovedì 29 novembre 2018

Il segreto della bellezza



Il grande pittore Wu-Tao-Tzu ricevette l’incarico dall’imperatore:«Dipingi un quadro che mi riveli il segreto della bellezza». Per la sua opera gli venne dato un muro del palazzo. Se si fosse rifiutato di dipingere, gli sarebbe stata tagliata la testa. L’artista si chiuse per vari mesi a lavorare. Il giorno in cui annunciò che l’opera era terminata, l’imperatore, accompagnato dalla corte e dal boia, andò a sedersi di fronte alla tenda che celava il muro.

«Spero di conoscere il segreto della bellezza per usarlo a sostegno del mio potere!» mormorò ansioso il monarca. Wu-Tao-Tzu scostò allora la tenda e rivelò un paesaggio vasto come il mondo, in mezzo al quale si levava una montagna. Tutti lo guardarono rapiti. Passata la prima impressione, l’imperatore parlò:«È un bel paesaggio, niente di più! Ma dov’è il segreto che ti ho chiesto?»

Il pittore rispose:«Lo possiede lo spirito che vive nella caverna ai piedi di questa montagna.» In quello stesso istante, ai piedi della montagna si aprì l’imboccatura di una caverna. Il pittore continuò:«Ciò che è lì dentro è così bello che nessuno potrebbe esprimerlo. Maestà, le mostrerò come ottenerlo!» Il pittore batté le mani, diventò piccolissimo ed entrò nella caverna. Il masso che faceva da porta si richiuse dietro di lui. Il dipinto, poco a poco, cominciò a svanire. Nessuno rivide più Wu-Tao-Tzu.

Possiamo dire che l’imperatore e il pittore sono due aspetti di uno stesso essere: il primo, sottomettendo il mondo alla sua volontà, ossia, pensando “la realtà è ciò che credo che sia” e velando sempre più la verità con l’ombra crescente del proprio ego individuale, vive prigioniero della sua mente. Il secondo, invece, abbandonandosi alla volontà di ciò che veramente è, dopo essersi liberato dal suo ego individuale, di ogni legame emotivo, di ogni desiderio di permanenza, di ogni abuso di potere, si immerge nell’Essenza impersonale e diventa tutt’uno con il mondo.

Non vi è in lui spettatore né spettacolo, è impossibile definirlo. Il segreto della bellezza, che sfugge ad ogni concetto razionale, consiste nel diventare bellezza. All’imperatore rimane solo il ricordo del pittore che è diventato invisibile fondendosi con la propria opera. Questo ricordo lo trasformerà.

Anche se non potrà comprendere intellettualmente la bellezza - splendore della Verità - lei, la bellezza, contribuirà dall’invisibilità, a dare fluidità al suo stagnante mondo soggettivo. L’imperatore, usando un’altra immagine, cercherebbe di ridurre un fiume ad un lago. Il pittore, invece, si immergerebbe nella corrente e si lascerebbe trascinare fino all’oceano infinito. (Alejandro Jodorowsky, La risposta è la domanda, Ed. Mondadori)

domenica 25 novembre 2018

La Sua Voce



“Un cammino è necessario.
Se non si può fare in ascesa
di finisce col farlo in discesa.
Questa è la fatale legge della vita.”
(Pietro Ubaldi)

Pietro Ubaldi nasce a Foligno il 18 agosto 1886 da una antica famiglia della “mistica Umbria” quasi “all’ombra di san Francesco, una figura che giganteggiò nel suo spirito” come scrisse nell’opera autobiografica “Storia di un uomo”. Nacque sul tardi di una sera d’agosto “in una semplice casa di un antico rione dalle anguste vie” come penultimo di molti fratelli. La sua famiglia era molto agiata, essendo una derivazione del ramo che diede i natali al famoso giurista Baldo degli Ubaldi.

Per questo il padre lo avviò alla professione di avvocato e, approfittando della propensione del giovane per le lingue che imparava come se emergessero da un sogno, gli aprì uno studio per clienti stranieri a Roma. Ma il ragazzo non era portato per il diritto e lasciò la professione legale dopo due anni. Visse di rendita per qualche tempo, poi rinunciò all’eredità paterna e iniziò a lavorare per mantenere la famiglia malgrado discendesse da una delle famiglie più famose e nobili dell’Umbria.

La scelta di rinunciare alla ricchezza fu vista da tutti come un sintomo di follia, ma fu una scelta matura, lucida e frutto della volontà di non assecondare l’ingiustizia della ricchezza eccessiva che egli vedeva come un’ingiustizia e uno sfruttamento del più debole da parte del più forte, per cui fece l'esperimento totale del dettato evangelico. Sfruttando la sua laurea qualificata ottenne una cattedra come insegnante di inglese a Modica, in Sicilia, dove restò nell’anno scolastico 1931.

Nel 1932 ottenne il trasferimento dalla Sicilia al Liceo Ginnasio “Mazzantini” di Gubbio dove restò fino al 1952 quando decise di trasferirsi in Brasile dove lo reclamava un numeroso gruppo di estimatori che lo conosceva per merito di un ciclo di conferenze metafisiche che aveva tenuto nel paese. Dal 1952 fino alla morte visse in Brasile dove morì il 29 febbraio del 1972 a 86 anni e mezzo come egli stesso aveva predetto.

Ubaldi ebbe la prima esperienza delle sue facoltà medianiche la notte di Natale del 1931 mentre era a Modica. Dopo quel evento Ubaldi iniziò a scrivere messaggi che gli venivano suggeriti da un Essere Superiore, tramite quella che egli chiamò “La Sua Voce” che gli dettò opere che saranno tradotte nelle più importanti lingue compreso l’arabo. La sua esperienza iniziò come la percezione iniziale di una Voce che gli sussurrava all’orecchio destro ma, con gli anni, essa divenne sempre più interiore fino ad affiancare, con la sua presenza, la coscienza cosciente dell’udente.

La comunicazione si fece tanto intima che non furono più necessarie le parole, ma diventò un’intuizione istantanea di concetti e di idee che gli sorgevano repentine nell’intimo. Ubaldi lo racconta nell’opera “Le Noùri” in cui difese le sue idee e che vinse un concorso bandito per una collana di biosofia diretta da Gino Trespioli. Nello scritto afferma la tesi che il pensiero si trasmette per onde e che è possibile captarlo. Anzi, scrisse che questa sarebbe stata la scoperta futura che, dopo la scissione dell’atomo, avrebbe offerto la novità più importante che avrebbe unito la scienza alla religione.

Secondo Ubaldi, l’organo preminente per la ricezione delle “noùri” o “correnti di pensiero” è l’epifisi cioè la ghiandola pineale. Organo preminente ma non il solo, perché l’intera scatola cranica ha la funzione di essere la cassa di risonanza per la ricezione di noùri. La ghiandola pineale è situata al di sopra degli occhi e anche Cartesio credeva fosse il centro dell’anima. Ubaldi afferma che la ghiandola pineale ha la funzione di mettere in contatto l'uomo con tutti gli esseri viventi dell’universo.

Quello che accomuna tutti gli esseri senzienti è il fatto che siamo dotati di mente, la nous greca, perciò la noùri è “vibrazione di pensiero” e unità di intelligenze, perché il pensiero si trasmette per mezzo di onde. Ubaldi conferma l’ipotesi secondo cui, migliaia di anni fa, la ghiandola pineale era molto sviluppata e permetteva un contatto telepatico tra tutti gli esseri della terra. Ma, con la progressiva materializzazione del corpo umano, la facoltà telepatica era regredita, perciò la ghiandola si era atrofizzata ed era rimasta attiva solo in pochi uomini che dicono cose sublimi ma sono incompresi, emarginati e uccisi.

La stessa tesi la afferma Julian Jaynes in “La mente bicamerale” dove dice che, in origine, esisteva solo la “forma mentale dei micenei o mente bicamerale”. Le due camere della mente erano occupate, rispettivamente, dal dio-guida e dall’uomo-oggetto che era il suddito a cui tale dio impartiva ordini o direttive che sembravano giungere dalla “voce” del dio. A quei tempi, dice Jaynes, prevaleva il senso dell’udito e l’oracolo, la divinità, lo spirito, parlavano all’orecchio umano per cui l’umanità restava in ascolto. Oggi, invece siamo dominati dal senso della vista per cui crediamo solo a ciò che vediamo come lo scettico Tommaso.

Anticamente dominavano i vati, i profeti e la poesia orale, perciò faceva testo la parola e si credeva a quello che si udiva, e ciò spiega la struttura bicamerale della mente con i due emisferi specializzati in funzioni diverse. Questo fu intuito da Roger Sperry che ebbe il Nobel per aver scoperto le specializzazioni dei due emisferi cerebrali: per cui l’emisfero destro è la sede del sentimento, di assonanze, melodie, suoni, colori, spazi, mentre l’emisfero sinistro è la sede del ragionamento, cioè di “peso, calcolo e misura” ovvero delle facoltà logiche.

Cosa rivelò la “Voce” la prima volta che parlò a Ubaldi? Gli disse:«Nel silenzio della notte sacra ascoltami. Lascia ogni sapere, i ricordi, te stesso, tutto dimentica, abbandonati alla mia voce, inerte, vuoto, nel nulla, nel silenzio il più completo dello spazio e del tempo. In questo vuoto odi la mia voce che dice: sorgi e parla: SONO IO. Esulta della mia presenza: essa è gran cosa per te, è un gran premio che hai duramente meritato… Non domandare il mio nome, non cercare di individuarmi. Non potresti, nessuno potrebbe; non tentare inutili ipotesi. Tu mi conosci lo stesso».

L’originalità del fenomeno vissuto da Ubaldi è questo manifestarsi di una medianità attiva, ispirativa e cosciente molto diversa da quella passiva, spiritica che conosciamo in cui il mezzo presta il suo corpo all’entità disincarnata che, il più delle volte, è dello stesso livello evolutivo del medium per cui, i suoi messaggi, spesso provengono da un livello meschino e basso. La sua medianità è cosciente, attiva perché la Voce come scrisse: “era distinta da me, dalla mia normale coscienza quotidiana, poiché essa guidava, consigliava e predicava, e questa seguiva e obbediva, poiché tra le due sorgevano anche discussioni e divergenze in cui cedevo sempre…”

La sua facoltà medianica è il frutto di un raffinamento interiore e di una ferrea disciplina morale a cui si sottopose che lo fece ascendere alle frequenze più elevate a cui potesse ascendere, così che le noùri potessero essere captate. Il suo è un “fenomeno ispirativo” che avviene per una “sensibilizzazione per evoluzione biologica continuata per superiori stadi di evoluzione psichica e ascensione spirituale”.

Scrive in “Le Noùri” che “le religioni sono un orientamento dato dall’Alto allo spirito umano per guidarlo nella via delle sue ascensioni, sono una discesa dello spirito divino attraverso le rivelazioni. In fondo a tutte queste rivelazioni vi è una sola ed unica religione che cammina e in cui, adattandosi alla psicologia dei popoli nelle forme del tempo, l’idea di Dio avanza” quindi i maggiori “creatori del pensiero umano hanno attinto alla sorgente unica. Krishna, Zoroastro, Hermes, Mosè, Buddha, Orfeo, Pitagora fino a Cristo che supera tutti. La verità è una.”

Per Ubaldi, l’intima natura della realtà è pensiero. Quindi “basta un mutamento di coscienza per mutare e spostare tutta la gamma delle mie risonanze interiori, per farmi percepire l’universo quale è nella sua fase superiore … e psichismo esso diventa, come sua reale nuova forma di essere, appena in quella nuova dimensione io abbia saputo coscientemente affacciarmi …” ma tale conquista e il raffinamento delle sue facoltà gli richiese anni.

Nel 1932, Ubaldi si trasferisce a Gubbio e affitta una casetta nella gola del Bottaccione, tra aspri picchi che dominano il tramonto. È una casetta isolata e semplice che egli sente in sintonia con la “forza dei grandi moti tellurici” di una “terra forte e ardita” che ha duramente lottato per assurgere a quelle altezze”. 

Negli ultimi anni si è data molta importanza a questa zona che è stata definita serie magneto-stratigrafica tipo, grazie alle proprietà della gola. Infatti, ogni 420.000 anni si invertono i poli magnetici della terra e le pietre della gola del Bottaccione conservano il ricordo di quell’antico magnetismo poi invertito.

Ubaldi inizia a scrivere la sua opera più importante “La Grande Sintesi” nell’estate del 1932 nella villa di Colle Umberto dove trascorreva le vacanze estive insieme alla famiglia. Chiuso nella stanza della torre, di notte e nel silenzio della campagna, egli gode della quiete necessaria per avere la concentrazione adatta per l'ascolto della voce e per la trascrizione di quello che gli comunica quella Voce che lo ispira.

Scrive velocemente e di getto mentre i suoi familiari dormono, alla “debole luce di una lampada” mentre “la penna scorre rapida e senza rumore” come scrisse nell'autobiografia “Storia di un uomo”.Durante l’anno non riesciva a scrivere, perché il lavoro e la quotidianità della vita familiare non gli consentono di avere la concentrazione necessaria.

Ne “La Grande sintesi” si espone un sistema filosofico di amplissimo respiro in cui si descrive l’architettura dei mondi, il ciclo evolutivo che la materia inerte deve compiere per ascendere fino a Dio attraverso la successione di vita minerale, vegetale, animale e infine esistenza umana. Ubaldi dice che sono necessarie molte vite per compiere questa lunga ascensione, e la reincarnazione è la prova lampante della misericordia di Dio che vuole che tutti siano salvi.

Ubaldi racconta che, la prima idea dell’opera gli venne a 27 anni: passeggiava in riva al mare, sulla spiaggia di Falconara, e: “guardando l’incanto del creato, sentii all’evidenza, rivelazione rapida come folgore, che il Tutto non poteva essere che Materia, Energia, Concetto e Spirito, e vidi che questa era la formula dell’universo: (M=E=C)=S. In cui M uguale a Materia, E uguale a Energia, C uguale a Concetto o Spirito, S uguale a Sostanza. È questa la grande equazione della Sostanza, cioè il mistero della Trinità in cui è incentrata tutta ‘La Grande Sintesi’”.

Ubaldi afferma che l’opera non è frutto della sua cultura essendo una cultura troppo limitata perciò insufficiente a giustificare la forte struttura metafisica e filosofica di un’opera così poderosa che si estende in territori allora inesplorati. È un'opera di alta cultura, tratta materie che egli non ha mai studiato, perciò non può venire dalla sua misera persona e dalla sua preparazione scolastica. La vastissima visione dell’universo e del suo funzionamento anticipa delle intuizioni che ampliano le teorie di Einstein.

Enrico Fermi definì quell’opera: “un quadro di filosofia scientifica ed antropologica etica che oltrepassa di molto i consimili tentativi dell’ultimo secolo” e anche lo stesso Einstein conobbe Ubaldi ed ebbe rapporti epistolari con lui, infatti gli scrisse da Princeton attestando il suo apprezzamento per l’opera. Di grande valore è anche l’aspetto profetico di Ubaldi e le sue idee sul cancro che, a distanza di alcuni decenni, vengono confermate dalla scienza.

Le sue idee vennero considerate incredibili, perché la Voce disse che, nella vita, la lotta è universale. Tutti sono in lotta, sia uomini che animali, perciò c’è lotta anche nella cellula che è come una fortezza positiva accerchiata da forze negative. Se questa fortezza non resiste, se non viene sostenuta da forze positive, la parte negativa che l’assedia prende il sopravvento, e interviene l’anarchia raffigurata dal cancro, la cui cura deve essere primariamente preventiva e psicologica.

Un’altra profezia famosa fu quella fatta in Brasile riguardante la caduta del comunismo in Russia e il risorgere del cristianesimo rinnovato che sarebbe iniziato in Russia, in un tempo futuro. Ubaldi era ben consapevole dell’importanza di conservare le sue opere infatti, nel 1953, scrisse dal Brasile ad una sua amica di Roma dicendo che aveva deciso di espatriare con la famiglia perché era stanco di non avere neppure il necessario per vivere e di seminare sui sassi. Ora viveva in un paese che aveva un terreno più fertile cioè maggiormente disposto ad accettare il suo messaggio.

“Per vent’anni ho elemosinato editori e non posso più logorarmi in questa lotta inutile … Invecchio e il tempo passa. Io devo produrre; è la produzione che resta e non le amicizie, gli articoli, le conferenze, i movimenti, ma i libri - diffusi nel mondo in modo che nessuna guerra possa distruggerli … I libri restano, e io parlo ‘alla gente del Duemila’ la quale, dopo strazi immensi potrà capire. Oggi non si può capire. Non è colpa mia!”

Ne “La Grande Sintesi” egli “insegna a seguire la legge dolorosa e faticosa che consente di ascendere attraverso errori e conseguenti rettifiche espiatorie, con il minore danno e con il maggiore vantaggio possibile, e insegna a sapersi muovere, in quel complesso organismo di forse che è l’universo, senza dolorosamente urtarsi a ogni passo” come scrive in “La nuova civiltà del Terzo Millennio”. Tali idee vanno diffuse, “il tempo e lo sviluppo nervoso e intellettuale umano” ne permettono la trasposizione effettiva nella prassi quotidiana e “questa comprensione oggi non solo è possibile, ma è necessaria.”

In “La nuova civiltà del Terzo Millennio” Ubaldi parla della nuova civiltà che seguirà quella attuale, che sarà una civiltà delle spirito, frutto del travaglio che stiamo vivendo, perciò essa mostrerà un nuovo gradino evolutivo. Ubaldi è un anticipatore dell'uomo del futuro che vivrà sulle vie dello spirito. “Per avanzare è necessario risvegliare, educare, sviluppare una grande sensibilità che vi darà modo di passare da una psiche estyeriore di superficie a quella interiore che è in noi. Questa strada porta alla conoscienza dell'Assoluto.

Fin dal 1972 Ubaldi ci sollecita a lavorare per sviluppare una nuova forma di coscienza che riesca a superare tutte le barriere e le differenze fra gli uomini, in modo che il genere umano possa acquisire una sapienza nuova, una conoscenza nuova. “Siamo ad una svolta nella storia del mondo - egli scrive - e la nuova civiltà del Terzo Millennio è imminente e urge gettarne le basi concettuali.”

Buona erranza
Sharatan

giovedì 22 novembre 2018

Come comunicare?



“Le parole sono portatrici di comunicazione
e di cura solo quando sono parole leggere e profonde,
interiorizzate e calde di emozione, sincere e pulsanti di vita.”
(Eugenio Borgna)

Comunicare è entrare in relazione con se stessi e con gli altri; comunicare è trasmettere esperienze e conoscenze personali; comunicare è uscire da se stessi e immedesimarsi nella vita interiore di un altro da noi: nei suoi pensieri e nelle sue emozioni. Noi entriamo in comunicazione, e cioè in relazione con gli altri, in modo tanto più intenso e terapeutico quanta più passione è in noi, quante più emozioni siamo in grado di provare, e di vivere.

Se vogliamo creare una comunicazione autentica con una persona, se vogliamo davvero ascoltarla, non possiamo non farci accompagnare dalle nostre emozioni. In ogni forma di comunicazione, e soprattutto in quella terapeutica, l’io si confronta con un tu nell’orizzonte di un noi che si fonde, e trascende, l’io e il tu in una nuova dimensione dalla quale si esce cambiati, e non si è più quelli di prima.

Come comunicare? Si comunica con il linguaggio delle parole, con quello del silenzio, e con quello del corpo vivente. Le parole sono portatrici di comunicazione e di cura solo quando sono parole leggere e profonde, interiorizzate e calde di emozione, sincere e pulsanti di vita; ma gli orizzonti di senso delle parole cambiano nella misura in cui accompagnano al linguaggio del silenzio, e a quello della voce, degli sguardi, dei volti e dei gesti, che contrassegnano i modi di essere del corpo vivente.

Questi sono solo alcuni aspetti della comunicazione, che non è unicamente quella della vita quotidiana, ma anche quella terapeutica, nella quale è necessaria una radicale attenzione alle cose che si dicono, e che possono ridestare le più diverse risonanze emozionali in chi ascolta, e in particolare in chi attenda di essere curato. Ci sono parole, parole emozionali (le sole che contano), capaci di creare ponti di comunicazione fra chi cura e chi è curato, e ci sono parole incapaci di farlo: determinando fratture incolmabili fra noi e gli altri…

Nella definizione che ne è stata data da Hugo von Hofmannsthal, il grande scrittore austriaco dalla straordinaria sensibilità e dalle grandi intuizioni psicologiche, le parole sono creature viventi, ma anche, con una definizione ancora più smagliante, sono prigioni sigillate dal mistero, e ogni volta dovremmo essere capaci di aprire queste prigioni, di togliere loro i sigilli, di farne sgorgare i significati, e di scrutarne le cifre tematiche solo apparentemente oscure, e inesplicabili.

Le parole si modulano, cambiano, si modificano continuamente nelle situazioni in cui ci veniamo a trovare, e negli incontri che abbiamo in vita. Le parole non sono mai inerti e mute ma comunicano sempre qualcosa. Le parole sono impegnative per chi le dice, e per chi le ascolta, cambiano di significato nella misura in cui cambiano i nostri stati d’animo, e non è facile coglierne fino in fondo le risonanze.

Le parole, una volta dette, non ci appartengono più, e sono determinanti nell’aprire il cuore alla speranza, o nel condurli alla disperazione. Le parole cambiano il loro significato nella misura in cui si accompagnano al linguaggio del corpo vivente, del sorriso e delle lacrime, degli sguardi e dei gesti, e anche al linguaggio del silenzio: sì, anche il silenzio parla, bisogna saperlo ascoltare, ed esserne in dialogo senza fine.

Ma altre cose si possono dire delle parole. Le parole non sono di questo mondo, sono un mondo a se stante, ma sono anche creature viventi, e di questo non sempre siamo consapevoli nelle nostre giornate divorate dalla fretta e dalla distrazione, dalla noncuranza e dalla indifferenza, che ci portano a considerare le parole solo come strumenti, come modi aridi e interscambiabili di comunicare i nostri pensieri.

Ma le parole che ci salvano non sono facili da rintracciare. Ma, come trovare e come rivivere, le parole che salvano, e creano relazioni? La salvezza non può venire se non dall’ascolto, dall’ascolto del dicibile e dell’indicibile, che ci dovrebbe accompagnare in ogni momento della giornata, e in ogni situazione della vita. Se le parole non nascono dal cuore, se non sono leggere e profonde, gentili e assorte, fragili e sincere, fanno del male, e fanno del male i gesti che non sanno testimoniare attenzione e partecipazione.

Insomma, le parole che non fanno male, le parole che aiutano le persone che vivono nel dolore o nella disperazione non le troveremo mai se non siamo capaci di immedesimarci nelle loro emozioni, e di riviverle per quanto è possibile dentro di noi. Non ci sono ricette, non ci sono consigli, in questo campo, ed è solo necessario affidarsi alle antenne leggere dell’intuizione e della sensibilità personale.

Certo, non c’è comunicazione autentica in vita, nella vita sana e nella vita malata, se non quando si evitano parole indistinte e banali, ambigue e indifferenti, glaciali e astratte, crudeli e anonime. Le parole giuste, insomma, non possono se non essere quelle gentili e silenziose che non rimarcano le differenze, ma colgono le affinità fra chi soffre di disturbi psichici e chi non ne soffre: almeno in apparenza.

Costa fatica, costa tempo questa educazione alla partecipazione ai pensieri e alle emozioni degli altri, ma è dovere, un dovere inalienabile, farlo anche nella vita di ogni giorno; e quante infelicità, quante sofferenze si eviterebbero, e quante speranze animerebbero le relazioni di cura. Ma, ancora, quanta importanza avrebbe la cosa nel cuore delle famiglie nelle quali oggi non si comunica molto, non si ascolta molto, si creano relazioni in autentiche: incapaci di riempire il vuoto e la solitudine che dilagano nella vita di oggi. (Eugenio Borgna, Parlarsi, Einaudi)

domenica 18 novembre 2018

Il profeta dormiente



“Un avvertimento per ogni essere umano:
la collera è un veleno per l’organismo.”
(Edgar Cayce, Lettura 2-14)

L’11 novembre 1931, un uomo comparve davanti al tribunale di New York con l’accusa di esercizio illegale della professione medica. Gli contestavano di avere curato con successo molti ammalati, ma il modo con cui egli ha praticato la medicina ha ridestato la curiosità di un folto pubblico che affolla l’aula. L’imputato è Edgar Cayce che ha dichiarato di aver un dono straordinario: quando si addormenta sotto ipnosi è in grado di vedere l’interno del corpo umano, di identificare l’organo malato, di spiegare le cause della malattia e di prescrivere la cura più adatta.

Le persone che aveva guarito erano molte, le sue cure erano naturali e si rivelavano efficaci. D’altronde, l’associazione che l'imputato aveva fondato era “trasparente” poiché pubblicava testi, faceva assemblee pubbliche ed era in contatto con persone di tutto il mondo: insomma, era tutto perfettamente legale. L’accusato accompagnato dalla moglie Gertrude e dalla segreteria, Gladis Davies, ammise di essere privo di qualsiasi nozione medica e fu dichiarato non colpevole.

In realtà ciò non ci deve stupire perché quell'uomo possedeva doti taumaturgiche straordinarie. Da dove gli venivano quelle straordinarie capacità che il processo rese ancora più note di quanto non fossero? Edgar Cayce era nato nella piccola città di Hopskinville il 18 marzo 1877 da una famiglia fuggita con gli Ugonotti dopo l’abrogazione dell’editto di Nantes. La famiglia era di origini nobile e forse era originaria di Arles, di cui si erano perse le tracce negli archivi fin dal 17° secolo.

Sicuramente cercarono rifugio oltreoceano e, nell’Ottocento, ne ritroviamo i discendenti insediati nel sud caloroso e sorridente dell’America allora agricola. Si era in campagna e la famiglia di Cayce abitava nel sud, dove i contatti con il mondo soprannaturale erano consueti, per cui non ci si stupiva della comunicazione con gli spiriti della natura e con i morti. La sua famiglia abitava in una fattoria e conduceva una vita patriarcale coltivando tabacco, andando a cavallo, cacciando e pescando così come tutta la gente del vicinato.

Il padre disse che Edgar come un neonato bello ed amabile, molto intelligente e pieno di gioia. La sua indole amabile era evidente e lo rendeva interessante perché non era mai capriccioso ma sempre tranquillo e molto docile. Era un bimbo molto sicuro di quello che voleva o non voleva, tanto che già a 18 mesi la madre lo vestì con i pantaloni come i bimbi grandi e lo portava con sé. Edgar la seguiva ovunque e imparò a parlare presto: era socievole e aveva sempre qualcosa di piacevole da dire a chiunque incontrava.

Ben presto divenne l’amico di tutti, perché era un bimbo dolce, e mai piangente o capriccioso. Aveva un indole curiosa e indagatrice, per cui chiedeva il motivo di tutto quello che non capiva, e non si contentava di ricevere delle risposte evasive o parziali. A 2-3 anni dimostrava molto giudizio e una maturità superiore alla sua età per cui fu soprannominato “il Vecchio” in modo affettuoso dai suoi stessi parenti.

Edgar era molto affezionato ai suoi nonni e già prima di arrivare ai 18 mesi li vedeva più volte al giorno. Se venivano a trovarlo i suoi nonni, Edgar tornare con loro e dormire a casa loro, e anche i nonni lo adoravano e lo accontentavano in tutto. Del nonno adorato Edgar disse che era stato un uomo meraviglioso che tutti chiamavano "Il Galantuomo". Quando Edgar era molto piccolo, il nonno lo cullava per addormentarlo prima di metterlo nel letto tra lui e la nonna. E se il bimbo si svegliava, lo cercava con le manine e non si riaddormentava finché non gli accarezzava il viso ornato dalla folta barba.

Andava sempre dietro a suo nonno fin dalla più tenera età, per cui gli vide fare delle cose strane e incredibili che di solito si credono opera degli spiriti. Suo nonno era richiesto da molte persone per intervenire in convegni misteriosi a cui Edgar lo accompagnava e nei quali il bambino lo vide muovere tavoli e altri oggetti senza avere contatti con essi.

Alle sue domande il nonno gli aveva risposto che non sapeva di quale energia si trattasse, ma non aveva voglia di perdere tempo a chiederselo. Era l’8 giugno del 1881, e Edgar aveva solo 4 anni, quando il nonno annegò, e del fatto sconvolgente, il bambino fu unico testimone. Raccontò che era in sella dietro il nonno quando entrarono per la prima volta nello stagno, ma il nonno lo riportò a riva e lo fece scendere.

Poi il vecchio rientrò nello stagno, e il bimbo vide che il cavallo lo disarcionava e, quando le cinghie della sella si ruppero, il nonno non ritornò più a galla. In seguito preferì restare da solo impegnato in dialoghi e giochi con amici che nessuno vedeva. Quando aveva 9 anni, sua zia lo portò a cercare erbe selvatiche nei campi e quando furono arrivati vicino alla stalla dello zio Jim, Edgar disse alla zia che si divertiva molto a giocare nella stalla.

La zia osservò che non capiva che cosa ci fosse di tanto divertente nel giocare in una stalla vuota e abbandonata, ma Edgar spiegò che non era affatto vuota. Ogni giorno incontrava il nonno nella stalla, e il nonno pressava il tabacco e poi fumava. Con lui c’erano dei bambini e delle bambine con cui Edgar si divertiva a giocare. La zia gli ricordò che il nonno era morto da sei anni e che i morti non pressano il tabacco e non fumano. Ma Edgar insisté a dire che era sicuro che fosse il nonno quello che veniva a parlargli.

Era certo che fosse lui perché gli aveva accarezzato la barba come faceva sempre da piccolo e poi i bambini con cui amava giocare li ha visti anche sua madre e non ci aveva trovato nulla da dire. La zia spaventata pensò all’azione del demonio, per cui parlò con sua madre che confermò tutto e aggiunse che non credeva assolutamente che in suo figlio potesse esserci qualcosa di malvagio. Nel frattempo, anche altri parenti iniziarono a rimproverarlo per i suoi “strani” incontri e il bambino imparò a tacere sulle strane esperienze che viveva.

A dieci anni il padre gli donò una Bibbia per incoraggiarlo a leggere ed Edgar imparò e fece la promessa di rileggerla ogni anno, per cui conosceva perfettamente le Sacre Scritture! Le sua fede fu sempre salda e profonda, e neppure il fatto che le sue eccezionali doti medianiche lo misero in contato con idee molto lontane dalla sua mentalità la fece vacillare. Ma da dove provenivano le sue straordinarie doti e le sue rivelazioni?

Le sue eccezionali doti provenivano dalla sua capacità di leggere negli archivi akashici. Come rivelò lui stesso, quando era addormentato, entrava in un grande edificio, nella Sala degli Archivi, e una mano gli porgeva un libro aperto alla pagina che riguardava l’entità o l’avvenimento di cui voleva sapere: lui non faceva altro che leggere quello che vi era scritto. Le registrazioni contenute nel Libro della Memoria di Dio sono il prodotto di pensieri, fatti e azioni di ogni entità, sono energie attive nella vita dell’entità e sono anche le registrazioni della memoria della Natura.

A causa di questa descrizione modesta del suo ruolo Cayce non volle mai descriversi come “guaritore”, ma si presentò come un “psichic diagnostician” che non corrisponde a nessuna professione conosciuta. Di certo era un intuitivo che vedeva nel tempo e nello spazio riuscendo a trascendere il passato e il futuro. Di sé disse di non avere avuta mai uno spirito guida come dicono la maggioranza dei medium, e non si considerò mai un medium, ossia il canale di un’entità disincarnata che agisce per suo tramite.

Quando la famosa medium inglese Eileen Garrett lo incontrò a New York, gli propose uno scambio di letture tra colleghi: in trance, tramite il suo spirito guida, Uvani, lo consigliò di farsi aiutare dagli spiriti. Ma Cayce non volle seguire il suo suggerimento e, nel corso della lettura che fece per se stesso, chiese: “Uvani forse pretende di saperne più del Maestro che l’ha creato?”. È interessante notare che il termine “Maestro” Edgar la riserva soltanto per il Cristo inteso come Spirito eterno del Cristo e non nel senso del Gesù storico. Egli credeva che fosse meglio rivolgersi al buon Dio invece di accontentarsi dei semplici santi.

Leggendo le letture di Cayce vediamo che la base di tutto è la Mente, perché la mente costruisce ogni cellula del nostro corpo fisico. Se ogni malattia nasce nella mente, ne segue che la mente ha il potere di distruggere la malattia. Ecco perché è necessario visualizzare i nostri organi in pieno vigore e in buona salute emettendo i pensieri positivi che facilitano la guarigione. È essenziale, secondo Cayce, avere fede nella potenza della mente!

Questa visione che sembra ottimistica anticipa di molti decenni la concezione olistica della medicina. Per Michael Balint e altri autori, ogni problema mentale o emozionale viene somatizzato nel corpo, per cui è necessario curare anche la mente e il cuore insieme all’organo fisico. Cayce anticipa la prospettiva olistica affermando che l’uomo è un Tutto indivisibile e, in una lettura, disse che ogni entità verificherà coi fatti che esiste un corpo fisico che permette il funzionamento della persone nelle tre dimensioni nel piano terrestre.

Esiste il corpo mentale che funge da energia direttrice per il corpo, per le emozioni e per ogni manifestazione mentale spirituale dell’individuo. Inoltre esiste il corpo spirituale cioè l’anima o la coscienza di vivere che è eterna e nella quale l’entità individuale impara a conoscere le relazioni con la parte mentale e con quella fisica. Tutti i corpi sono Uno nell’entità, afferma Cayce, e la malattia non è che la conseguenza del “peccato” ossia il risultato di errori compiuti sulla Terra.

Il peccato non va inteso in senso clericale, secondo Cayce, ma è la ribellione contro la Verità e la Luce che colpisce il corpo fisico, tempio del Dio Vivente. Lo stato di perfezione che va raggiunto è l’armonia assoluta, corrispondenza finale perfetta dei tre corpi armonizzati e sincronizzati in modo impeccabile. E così diverremo degli Dei! Ma come primo passo è necessario accrescere la Conoscenza perché l’ignoranza è fonte di ogni male, come insegna anche il buddhismo.

La guarigione è sempre possibile perché è la mente che costruisce tutto, ma si deve fare attenzione: nessuno può odiare il suo prossimo senza procurarsi una malattia di stomaco o di fegato. Nessuno può essere geloso o collerico senza avere dei problemi digestivi o cardiaci. L’odio e la gelosia sono figli della paura, e la paura è la causa di quasi tutti i mali di cui soffre l’umanità, ci ricorda Cayce.

Se eliminiamo i veleni della mente con la “purificazione” dai veleni della mente possiamo eliminare anche i veleni che inquinano il corpo e che si manifestano come malattie. L’intossicazione avviene quando la persona è dura di cuore e porta dentro di sé delle emozioni negative che lasciano una traccia negativa nel corpo e nei suoi organi. L'intossicazione si elimina se ci sintonizziamo con la pace, la vita, la speranza e la comprensione, cioé si neutralizza con l’amore e la luce.

Ma tale pulizia va fatta su tutti i tre corpi e se riconosciamo in noi stessi la Verità, se riconosciamo quello che ci è stato rivelato dalla Coscienza Cristica cambieremo gli atteggiamenti mentali rispetto a noi stessi, agli altri e al mondo che ci circonda: tutto ciò si ripercuoterà anche sul corpo fisico. Le ghiandole endocrine sono responsabili del legame fra i tre corpi anche se l’importanza e la conoscenza del ruolo del sistema endocrino non era accurata come avrebbe meritato.

Anche i centri che la tradizione indiana chiama “chakra” sono responsabili di tutte le energie spirituali e mentali che sono la chiave della persona umana. Cayce fu precursore anche della possibilità di avere guarigione tramite la meditazione e la preghiera di cui incoraggiò la pratica fondando un gruppo di guarigione tramite preghiera nel 1931. La sua terapia si basa sulle medicine dolci per cui, ad esempio, proclama la virtù dell’olio di ricino, l’uso dell'olio di oliva a cui Cayce attribuisce il potere di far dimagrire, di correggere la stitichezza, di drenare l’organismo e prezioso anche per impacchi e massaggi esterni.

Nel 1923 Cayce incontra un uomo d’affari, Arthur Lammers, che gli aprì una dimensione inaspettata poiché gli chiese cosa ne pensava dell’astronomia, della cabala e dell’alchimia. A quel tempo Cayce era senza denaro, come avvenne spesso perché si rifiutò sempre di sfruttare le sue eccezionali doti a fini speculativi. Lammers gli offrì di aiutarlo economicamente in cambio di alcune letture personalizzate. Il facoltoso uomo d’affari rivelò che durante la lettura Cayce gli aveva parlato delle sue vite passate e gli aveva fornito il suo quadro astrale ricco di particolari precisi e dettagliati.

Cayce ne restò stupito perché le cose che Lammers affermava di avere ascoltato dalla sua stessa voce durante la lettura non facevano parte delle sue concezioni. Durante le letture emersero le rivelazioni di altre vite passate di Lammers tra cui una vita vissuta ai tempi della guerra di Troia. La questione turbò profondamente Cayce che credeva che nella Bibbia ci fosse tutto quello che era utile sapere, per cui ebbe molte discussione con familiari e amici sulla reincarnazione che, all’inizio, faticò ad ammettere.

Ma non gli fu più possibile ignorarla, anche se l'idea della reincarnazione sconvolgeva profondamente la sua coscienza di cristiano. Alla fine la accettò pienamente e parlò della morte del Battista come di un karma che pagava perché quando era vissuto come Elia aveva ordinato lo sgozzamento di centinaia di sacerdoti di Baal. Più tardi Cayce adottò anche i concetti di karma e akasha per spiegare i meccanismi della legge universale che sta sopra tutte le religioni ufficiali.

Arrivò a persuadersi che la reincarnazione faceva parte, a pieno diritto, degli insegnamenti del Cristo perché rispondeva a quesiti a cui le religioni non sapevano rispondere. La legge di causa e effetto è confermata anche dalla fisica e rafforzata dalla Legge della Grazia. La grazia è l’amore puro, la tenerezza che Dio prova per ogni creatura, ed essa può liberarla dalla rigida legge del karma. Più esattamente, spiega Cayce, quello che conta è guardarsi in faccia e saper risolvere il debito karmico che abbiamo con noi stessi.

Questo significa che dobbiamo lavorare nella situazione di vita in cui ci siamo e nei rapporti con gli altri. I rapporti umani della vita attuale hanno il ruolo di guarire il nostro ego aiutandolo a ristabilire l’armonia con le leggi divine. Il significato di “debito karmico” va sostituito dal termine di “memoria karmica” che è necessario purificare laddove sia negativa. In altre parole, Cayce vuol dire che affrontare la nostra memoria karmica negativa è molto più facile e leggero che accettare il vecchio e pesante concetto di karma.

Ma non è solo una questione di parole, perché con la Legge di Grazia “anche quelle che sono chiamate karmiche diventano semplici impulsi interiori. Accordando la propria volontà alla Via di Cristo, si può impedire che accadano le disgrazie e si possono sormontare le difficoltà, facendo scelte positive che danno gioia, amore e felicità per tutta la vita” conclude Cayce ricordando che “la buona novella” dei Vangeli non è altro che la conferma dell'amore di Dio.

Buona erranza
Sharatan

martedì 13 novembre 2018

Il sorriso



“Prendi un sorriso, regalalo
a chi non l’ha mai avuto.”
(Mahatma Gandhi)

Il sorriso è una manifestazione più difficile da definire rispetto alla risata, perché è molto più discreto. La risata è sonora, e qualche volta persino fragorosa: la bocca si apre, gli occhi si increspano o si chiudono addirittura. Il sorriso, invece, è silenzioso: si manifesta con un impercettibile movimento delle labbra e una leggera increspatura degli occhi.

Il sorriso è uno dei primi linguaggi del bambino, che i suoi genitori e i suoi cari guardano con amore. Questo sorriso, che nel bambino è colmo di innocenza e di purezza, nell’adulto può diventare ironico, beffardo, persino ipocrita. Quanti sorrisi servono a mascherare la collera, la scontentezza, il rancore o il desiderio di vendetta!

È così che ogni giorno tanti sorrisi artificiali vengono distribuiti a dritta e manca: non sono che degli schermi, e lo si percepisce. Ogni sentimento può esprimersi attraverso un sorriso. Lo scoraggiamento, la rinuncia o, al contrario, la speranza e la decisione di rimettersi al lavoro, l’abnegazione o il desiderio di prendersi una rivincita si accompagnano talvolta a dei sorrisi.

Ma osservate quanto questi sono diversi fra loro! Il sorriso di scherno ha qualcosa di stridente. Il sorriso della saggezza è molto sottile, appena percettibile, ma ricco di significato; e non vi dirò niente sul sorriso della stupidità. È anche dal sorriso che si possono riconoscere le creature perverse.

Anche se esse hanno un bell’aspetto, una bella fronte, dei tratti fini e regolari, il sorriso - un che di contorto che compare negli angoli della bocca - tradisce il loro decadimento. Non spesso, ma mi è capitato di incontrare simili esseri, ed è stato il sorriso a rivelarmi la loro vera natura. Perciò, so che non mi posso fare un’idea esatta di qualcuno, finché non ho visto il suo sorriso.

Quante volte poi sono rimasto colpito dal sorriso che può trasformare il viso ingrato o persino brutto di certi esseri! Perché un sorriso buono si accompagna ad uno sguardo buono; quello sguardo colmo d’amore e di bontà diffonde sul viso di quelle persone una tale luce che i loro tratti fisici sembrano fondersi: non si vede altro che quella luce.

Che gioia e che conforto può portarci il sorriso di certi esseri! È come un regalo inatteso. E che dire del sorriso del sole che appare tra le nubi per avvolgerci con la sua luce? Ma il più bello, il più desiderato, quello cui tutta la nostra anima aspira, è il sorriso che Dio ci accorda dopo certe sofferenze alle quali avevamo creduto di non poter sopravvivere.

Non appena quel sorriso appare, l’oscurità, l’angoscia, la paura e le immagini minacciose si cancellano, e tutto si rischiara e si armonizza. Quel sorriso vale più di tutte le ricchezze e di tutte le gioie della terra. Nessuna violenza lo può conquistare, ma solo l’amore, la speranza e la fede. Spesso bisogna attendere a lungo per meritare un tale sorriso, ed è la più grande ricompensa.

È possibile che apparentemente una prova non ci abbia apportato niente, ma che anzi ci abbia fatto perdere molte cose, anche degli esseri che ci sono cari. Eppure, sentiamo che la nostra luce, il nostro amore e la nostra forza sono aumentati, e la pace e la gioia ci pervadono; e questa sensazione ci dice che il sorriso di Dio si è finalmente posato su di noi.

Il sorriso è già un saluto, un segno di riconoscimento che rivolgiamo alle persone che incontriamo, ancor prima di farlo con la parola: perciò dobbiamo anche fare attenzione a quello che esprimiamo con il nostro sorriso. Certo, non si tratta di fabbricarsi un sorriso artificiale studiandosi allo specchio.

Bisogna che quel sorriso, che deve esprimere la bontà, la dolcezza e la comprensione, venga in modo naturale dal nostro cuore, dalla nostra anima. Dobbiamo quindi discendere nelle profondità del nostro essere per cercarvi il silenzio e la luce, e allora gli scultori che sono in noi sapranno quali nervi e quali muscoli tendere o rilassare.

Possiamo avere fiducia in loro: essi sapranno lavorare sulle labbra, sugli occhi, sulla fronte e, a poco a poco, le forme e le espressioni del nostro volto diverranno più armoniose. Voler modificare da soli il vostro sorriso rischia più che altro di deformarvi. Lavorate con amore, con la speranza e fede, e affidatevi all’ispirazione dei vostri scultori interiori. (Omraam Mikhaël Aïvanhov, Il sorriso del saggio, Ed. Prosveta)

giovedì 8 novembre 2018

Un’antica storia cinese



In un’antica storia cinese si tramanda che, durante un grande raduno, una festa traboccante di rumori, di danze, di canti e via dicendo, un uomo cadde in un pozzo. A causa del frastuono, nessuno se ne accorse. A quell’epoca, in Cina i pozzi non erano protetti da un muro: erano all’aperto, senza protezione; nel buio potevi scivolare e caderci dentro. L’uomo si mise a gridare:«Salvatemi!»

Un monaco buddhista passò nei paraggi e, udendo quell’uomo, guardò in basso. «Meno male che mi hai sentito. Tutti sono così presi dalla festa e il frastuono è enorme … avevo paura di morire.» Il monaco buddhista rispose: «Infatti morirai, perché ciò che ti è successo dipende da una cattiva azione del passato; adesso hai ricevuto la punizione: accettala e consegui la libertà! È meglio così: nella prossima vita, ricomincerai ripulito da ogni colpa e non dovrai più ricadere in un pozzo».

L’uomo replicò:«In questo momento non ho bisogno di saggezza e di filosofia …» ma il monaco se n’era già andato. Quindi arrivò un vecchio taoista. Poiché aveva sete si chinò sul pozzo. Quell’uomo stava ancora urlando in cerca di aiuto, e il taoista disse:«Questo non è virile. Bisogna accettare tutto ciò che viene: ecco cos’ha detto il grande Lao Tzu.

Quindi, accettalo e rallegrati di quanto ti è successo! Stai urlando come una femminuccia. Sii uomo!». L’altro rispose:«Sono disposto a farmi dare della femminuccia, ma, per favore salvami! Non sono coraggioso. Dopo potrai dire tutto quello che vorrai, ma prima tirami fuori». Il taoista replicò:«Noi non interferiamo mai negli affare degli altri. Crediamo nell’individuo e nella sua libertà.

Cadere nel pozzo e morirci è una tua libertà: tutto ciò che posso fare è darti un consiglio. Anziché morire urlando e piangendo - questo sarebbe da sciocchi - muori come un saggio. Accettalo, sii felice, goditi questo stato di cose, intona una canzone e lascia questo mondo: tutti prima o poi moriremo, quindi a che pro salvarti?». E se ne andò.

Arrivò un confuciano, e l’uomo intravide una speranza, perché i confuciani sono più terreni, più concreti. «Sono fortunato che tu sia passato di qui, uno studioso di Confucio. Ti conosco, ho udito il tuo nome. Adesso fa’ qualcosa per me, perché Confucio insegna: ‘Aiuta gli altri’». Il monaco confuciano rispose:«Hai ragione, ti aiuterò. Andrò di città in città e protesterò, fino a convincere il governo e mettere un muro intorno a tutti i pozzi del paese. Non avere timore».

L’uomo rispose:«Ma quando i muri di protezione saranno eretti e la tua rivoluzione avrà avuto successo, io sarò morto». Il confuciano replicò:«Tu non conti, io non conto, gli individui non contano: solo la società è importante. Cadendo nel pozzo, tu hai sollevato un problema importantissimo; adesso lotteremo per risolverlo. Sta’ calmo, rassegnati: faremo in modo che ogni pozzo abbia un muro di protezione, così nessuno potrà più caderci dentro.

Viceversa, salvando solo te, cosa si salverebbe? Il paese ha milioni di pozzi e milioni di persone possono caderci. Dunque, non pensare a te stesso; elevati al di sopra di questo egoismo. Io servirò l’umanità. Tu hai già reso un grande servizio cadendo nel pozzo; adesso la mia parte è costringere il governo a erigere muri di protezione». E il confuciano se ne andò.

Il quarto uomo che passò di lì era un missionario cristiano che portava con sé una borsa. Immediatamente l’aprì, tirò fuori una corda e ne gettò un capo nel pozzo. Prima ancora che l’uomo avesse aperto bocca, il missionario gli aveva gettato la corda. Colmo di meraviglia, l’uomo esclamò:«La tua religione sembra la più vera».

Il missionario rispose:«Senza dubbio. Noi siamo attrezzati per ogni emergenza. Sapendo che la gente cade nei pozzi, porto con me questa corda per salvarla. Infatti, solo salvando gli altri posso salvare me stesso. Però mi preoccupa ciò che ha detto il confuciano; non si dovrebbero mai costruire muretti intorno ai pozzi, altrimenti come potremo mai aiutare l’umanità?

Come faremmo a tirare fuori coloro che sono caduti? Prima devono cadere, solo così noi possiamo salvarli. Noi viviamo per aiutare gli altri, ma come prima cosa deve esistere questa opportunità; se non sussiste, come potremo mai metterci al servizio degli altri?».

Di certo, tutte queste religioni che predicano il “servizio” desiderano che l’umanità resti povera e bisognosa di essere aiutata, è un loro interesse … La povera gente è necessaria, assolutamente indispensabile; altrimenti, che ne sarebbe di questi grandi servitori dell’umanità? Cosa accadrà a tutte queste religioni e ai loro insegnamenti?

Come potrà la gente guadagnarsi il diritto di entrare nel Regno di Dio? Queste persone povere e sofferenti vanno usate come una scala: e questo lo chiami altruismo? Queste religioni sono sempre contrarie hanno bisogno che questi problemi restino. È un bisogno profondamente egoista, interessato; implica perseguire uno scopo.

Quando servi qualcuno e ti senti meglio, hai ridotto l’altro a un verme, a un essere subumano. Sei così superiore da aver sacrificato i tuoi interessi ma, anziché “servire” i poveri li stai semplicemente umiliando. Se possiedi qualcosa che ti dona pace, gioia ed estasi, condividilo. E ricorda che quando condividi, lo fai senza motivo.

Non sto dicendo che tramite la condivisione raggiungerai il paradiso, non ti sto dando alcuno scopo; sto dicendo che la condivisione in sé ti appagherà. L’appagamento è nella condivisione in sé, non esiste scopo al di là di essa; è fine a se stessa. Ti sentirai riconoscente verso la persona che ha accettato di condividere con te, non avrai la sensazione che abbia un debito nei tuoi confronti: non hai “servito” nessuno. (Osho, Liberi di essere, Mondadori ed.)

domenica 4 novembre 2018

Suonare con lo spirito



La musica è una delle vie per le quali
l’anima ritorna in cielo.
(Torquato Tasso)

Un venerabile maestro cinese ha insegnato che, per praticare in maniera efficace qualsiasi arte, devi comprenderla a tre livelli differenti: quello teorico o fisico, quello ideativo o mentale, e infine quello integrale o spirituale. Anche se si sovrappongono, generalmente, questi livelli di comprensione sono consecutivi: vale a dire che devi compiere dei progressi sostanziali a un determinato livello prima di cominciare a dirigerti verso quello successivo.

Prendiamo per esempio la musica. Per produrre musica con uno strumento, il primo passo consiste nell’imparare alcune tecniche: come tenerlo, come suonare note e scale musicali, ecc. Queste tecniche sono necessarie, ma niente affatto sufficienti per fare musica.

Una volta acquisite alcune tecniche di base, puoi compiere il secondo passo: imparare alcuni dei concetti che sottostanno alle tecniche. Terrai lo strumento, e il tuo corpo, in modo tale che tu possa essere in grado di respirare correttamente, e quindi di mettere in pratica le tecniche acquisite ed eventualmente far fuoriuscire la musica dalla tua anima.

Le idee basilari che sottostanno alla semplice scala musicale includono lo sviluppo dell’attacco, il tono, la coordinazione e gli altri strumenti. Le idee basilari di una composizione includono espressione della melodia, armonia, cadenza. Le idee dinamiche che sono alla base della semplice scala includono varie possibilità, come il crescendo e decrescendo, nonché numerose altre sfumature. Tutte queste idee sono necessarie per fare della musica, ma ancora non bastano.

Cosa c’è , allora, oltre alle tecniche e alle idee? Lo spirito stesso dell’idioma musicale. Non importa se suoni musica bluegrass, country, folcloristica, blues, rock, soul, gospel, jazz, classica o di qualsiasi altro tipo. Ciascuna di esse ha il proprio particolare spirito, che è molto più di un semplice insieme di note e idee. Se il musicista riesce a catturare e a riflettere lo spirito della musica, la musica sarà giusta.

È lo spirito stesso del musicista a consentirgli di integrare lo spirito dell’idioma - vale a dire di fare suo il pezzo - ed è il talento del musicista a permettergli di riflettere quello spirito nella performance. E questo è vero anche in altre forme di arte e nello sport.

Un allenatore di tennis si è reso conto di questa verità. Ha detto che ci vogliono quindici anni per formare un giocatore: cinque anni per imparare i colpi (livello tecnico); cinque anni per imparare a usare i colpi all’interno del gioco (livello ideativo) e cinque anni per imparare a vincere (livello integrale).

Devi sentire lo spirito del gioco in modo che tu possa farlo tuo: vale a dire, trovare il tuo modo di fare un punto quando sei sotto pressione, oppure di strappare il servizio al tuo avversario o di vincere un match. Ogni tanto riuscirai a colpire una palla in maniera pulita e la piazzerai in maniera perfetta come succede a qualsiasi leggenda del tennis: senza pensarci consciamente.

Allora potrai affermare di avere raggiunto il tuo obbiettivo: avrai catturato lo spirito del gioco. In questi casi gli atleti dicono di essere “in zona” vale a dire di essere in vena. Quando sei “in zona” tutto si realizza in maniera semplice e naturale. Il tempo rallenta e non hai alcun senso di ansia o di fretta.

La tua tecnica non ti costa sforzo, le tue idee sono assolutamente giuste, la tua esecuzione impeccabile, il tutto senza pensiero conscio. Il tuo spirito si fonde con lo spirito del gioco. Tu diventi il gioco. Il cammino dello sviluppo spirituale è lo stesso di quello musicale, atletico o di qualsiasi altra natura, oltre a essere, ovviamente, il sentiero che contiene tutti gli altri.

Sia i musicisti, sia gli atleti si impegnano in esercizi spirituali, utilizzando vari tipi di strumento. Se tu metti da parte gli strumenti esteriori e sviluppi quelli interiori - essenzialmente respirando e condizionando la mente-ti ritroverai su un cammino spirituale che contiene tutti gli altri e che conduce all’ultima zona, quella che racchiude tutte le altre.

Non tutti sanno suonare o sono atleti, ma tutti respirano e pensano. Perciò, in teoria, tutti possono sperimentare la zona estrema. Alcuni affermano che la zona sia vuota, e che l’unico modo per abitarla sia di lasciare alle spalle il proprio Io. Questo è l’insegnamento zen, nonché quello di altre scuole buddhiste. Altri invece sostengono che la zona sia piena: piena di amore cosmico, di luce radiante, di musica divina, e che l’unico modo per entrarvi sia di fondere la tua goccia di spiritualità nel mare dello Spirito Divino che crea, sostiene, distrugge e rinnova il cosmo.

Krishna, incarnazione di Vishnu, si rivolge con queste parole ad Arjuna, prode guerriero demoralizzato:«Ogni qualvolta la spiritualità si dissolve e il materialismo è dilagante, allora o Arjuna, mi reincarno. In qualunque modo gli uomini cerchino di venerarmi, io li accolgo. Lungo qualsiasi strada loro camminino, essa conduce a Me.»

Se stai percorrendo un cammino spirituale, allora, nei momenti importanti della tua vita, incontrerai guide. A volte ti appariranno sotto le spoglie di persone benevole o malevole; altre volte si manifesteranno come eventi gioiosi o tragici; altre volte ancora appariranno come sensazioni sfuggenti o sogni intangibili. Le tue guide ti mostreranno ciò che vedi già, ma solo quando sei pronto a vederlo. Gli antichi cinesi lo sapevano bene:«Quando lo studente è pronto, l’insegnante appare.»

I musicisti, gli atleti e tutti coloro che hanno raggiunto i massimi livelli all’interno della propria disciplina o della propria forma di arte sono in grado di compiere performance eccezionali e spesso anche imprevedibili. Perché? Perché corpo e mente non impediscono più l’espressione dello spirito dell’arte. Al contrario: essi sperimentano l’unità dell’essere con la propria arte, con il proprio pubblico e con il miracolo cabalistico di ogni singolo istante.

Itzhak Perlman, il grande violinista è stato protagonista di un evento straordinario in occasione di un indimenticabile spettacolo tenutosi al Lincoln Center di New York. All’inizio di un’opera orchestrale, nella quale lui era il solista, gli si ruppe una corda del violino. Tutti i presenti udirono chiaramente il rumore prodotto dalla corda, e l’orchestra smise di suonare.

Di norma un musicista avrebbe sostituito la corda, il che avrebbe comportato un considerevole ritardo. Nel caso di Perlman, un’eventualità del genere avrebbe presentato un’ulteriore difficoltà. Vittima da bambino della poliomelite, cammina molto lentamente e con enorme sofferenza servendosi di tutori per le gambe e appoggiandosi a stampelle.

Quando sale sul palcoscenico, prima di iniziare a suonare, mette giù le stampelle e toglie i tutori. Se avesse dovuto sostituire la corda, avrebbe dovuto rimettersi tutto l’armamentario, scendere dal palco, quindi risalirvi e ricominciare tutta la trafila. Lui, invece, ha fatto qualcosa di incredibile. È rimasto al suo posto, con lo strumento privo di una corda e ha fatto cenno al direttore di ricominciare a suonare.

Jack Reimer, giornalista dello «Houston Chronicle», che era tra il pubblico, ha scritto in seguito:«E ha suonato con una passione, con una forza e con una purezza tali che nessuno mai aveva udito prima. Naturalmente tutti sanno che è impossibile suonare un’opera sinfonica solo con tre corde. Io lo so.

E anche voi lo sapete ma, quella sera, Itzhak Perlman si è rifiutato di saperlo. Quando ha terminato l’esecuzione, il silenzio ha avvolto la sala. E poi il pubblico si è alzato in piedi e gli ha tributato uno scroscio di applausi. Eravamo tutti in piedi, gridavamo e applaudivamo, facevamo di tutto per mostrargli quanto avevamo apprezzato ciò che aveva fatto.»

Poi Perlman si è schermito con un’osservazione profondamente filosofica e indimenticabile, almeno quanto la sua performance:«Sapete, a volte è compito dell’artista scoprire quanta musica si può ancora fare con ciò che rimane.» Possiamo applicare la morale di Perlman alla nostra vita, anche se non siamo musicisti di fama mondiale, né atleti. Anche vivere, infatti, è una forma d’arte che richiede la stessa perizia di musica o sport, se non di più.

Questa è la grande lezione che Jack Reimer e molti altri hanno imparato dall’esibizione di Perlman:«Forse, dunque, il nostro compito in questo mondo infido, che cambia in fretta e ci disorienta, è fare musica, prima, con tutto ciò che abbiamo, poi, quando non è più possibile, continuare con ciò che ci rimane.» Sì. E questa è la funzione del tuo spirito: fare musica, anche senza corde. (Lou Marinoff, Le pillole di Aristotele, Mondadori ed.)