lunedì 26 settembre 2016

Il valore delle circostanze difficili



“Reagire a circostanze difficili con pazienza e tolleranza,
anziché con rabbia e odio, significa avere un controllo attivo
delle cose, che è frutto di una mente forte e autodisciplinata.”
(Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama)

“Come coltivare un atteggiamento di attenzione nei confronti dei nostri simili? L’approccio principale consiste nel considerare il valore che attribuiamo a noi stessi in relazione agli altri. Una pratica giunta in Tibet dall’India prevede anzitutto di trovare un terreno comune con il prossimo (equiparazione) e poi di porlo al centro del nostro interesse, al posto di noi stessi.

Lo yogi e studioso indiano Shantideva spiega a fondo questa pratica - che consiste nell’equipararsi agli altri e sostituirsi con loro - nella Via del Bodhisattva, commentato da molti studiosi. La vera compassione si prova per ogni essere senziente e non soltanto per amici, familiari o persone che si trovano in situazioni di grande difficoltà. Per coltivare appieno la pratica della compassione è necessario praticare la pazienza.

Shantideva ci dice che se la pratica della pazienza smuove davvero la mente e genera un cambiamento, comincerai a vedere i nemici come se fossero i tuoi migliori amici, o addirittura delle guide spirituali. I nemici ci offrono ottime opportunità di praticare la pazienza, la tolleranza e la compassione. Shantideva ce ne fornisce straordinari esempi, in forma di dialogo tra le inclinazioni positive e quelle negative della mente.

Le sue riflessioni sulla compassione e sulla pazienza sono state estremamente utili per la mia pratica. Leggetele e la vostra anima ne sarà completamente trasformata. Eccone un esempio: «Per chi pratica l’amore e la compassione, il nemico è uno dei maestri più importanti. Senza un nemico non puoi praticare la tolleranza, e senza la tolleranza non puoi costruire una base solida per la compassione.»

Per praticare la compassione bisogna dunque avere un nemico. Quando sei di fronte ad un nemico che sta per farti del male, quello è il momento di praticare la tolleranza. Un nemico è dunque causa della pratica della tolleranza; la tolleranza è l’effetto o il risultato dell’esistenza di un nemico. Si tratta dunque di un rapporto di causa ed effetto.

Così è detto: «Quando la relazione tra due cose è di derivare l’una dall’altra, non si può considerare quest’ultima fonte del male, poiché contribuisce alla produzione dell’effetto.»

Riflettere su ragionamenti di questo tipo può essere d’aiuto a coltivare una grande pazienza che, a sua volta, dà origine ad una intensa compassione. La vera compassione si fonda sulla ragione. La compassione e l’amore ordinari sono invece limitati dal desiderio o dall’attaccamento. Se la tua vita procede senza difficoltà e tranquillamente, puoi continuare ad illuderti. Ma quando devi affrontare situazioni veramente disperate, di tempo per illudersi non ce n’è: devi fare i conti con la realtà.

Le grandi difficoltà cementano la determinazione e la forza interiore. In quei periodi arriviamo a comprendere l’inutilità della rabbia. Invece di arrabbiarci, dimostriamo attenzione e rispetto per coloro che ci creano problemi, poiché ci offrono la preziosa opportunità di praticare la tolleranza e la pazienza. La mia non è stata una vita felice.

Ho vissuto molte esperienze difficili; ho dovuto abbandonare il mio paese in seguito all’invasione della Cina comunista e cercare di trapiantare la nostra cultura nei paesi vicini. Ebbene considero queste esperienze come i momenti più importanti della mia esistenza. Sono state per me un grande insegnamento, e mi hanno fatto conoscere la realtà. Quando ero giovane e vivevo nel Potala, che sovrastava la città di Lhasa, osservavo spesso la vita giù in città attraverso la lente di un telescopio.

Imparai molto anche dai pettegolezzi delle persone che tenevano pulito il palazzo. Erano il mio giornale, poiché grazie a loro sapevo che cosa faceva il reggente e quali corruzioni e scandali erano in atto. Ascoltavo sempre con piacere, e loro erano orgogliosi di raccontare al Dalai Lama che cosa accadeva nelle strade.

I gravi avvenimenti successivi all’invasione del 1950 mi costrinsero a un coinvolgimento diretto in problemi che altrimenti avrei tenuto a distanza. La conseguenza è stata che ho preferito una vita di impegno sociale in questo mondo pieno di sofferenze. In quel terribile periodo tentai di soddisfare le richieste dei cinesi, di modo che la situazione non precipitasse. Quando una piccola delegazione di funzionari tibetani firmò con gli invasori un accordo articolato in diciassette punti senza il consenso mio o del governo, non ci rimase altra alternativa che lavorare a partire da quel documento.

Molti tibetani non erano d’accordo ma, quando manifestarono la loro opposizione, i cinesi reagirono ancora più duramente, e mi ritrovai tra due fuochi e mi proposi di raffreddare gli animi. I due primi ministri presero l’iniziativa di protestare per le condizioni imposte dal governo cinese, che mi chiese di deporli. Finché rimanemmo in Tibet dovevo affrontare quotidianamente problemi del genere.

Non potevamo dedicarci a migliorare la nostra situazione ma riuscii perlomeno a nominare un comitato per le riforme allo scopo di ridurre gli interessi esagerati sui debiti e così via. Mi recai una prima volta in India nel 1956 contro la volontà dei cinesi, per festeggiare il 2.500° anniversario della nascita di Buddha.

Mentre mi trovavo in quel paese dovetti prendere una decisione difficile, ovvero se tornare o no in Tibet. Mi giungevano notizie di rivolte nel Tibet orientale e molti funzionari rimasti lì mi consigliavano di non rientrare. Sapevo inoltre, sulla base delle esperienze passate, che con l’aumento della sua forza militare la Cina avrebbe adottato un atteggiamento più duro.

Sembra chiaro che c’erano ben poche speranze ma, al momento, non si capiva se ci fossero garanzie assolute di un sostegno efficace da parte del governo dell’india o di qualche altra nazione. Alla fine decidemmo di tornare in Tibet. Invece, nel 1959, quando si verificò una fuga di massa verso l’India, la situazione era più facile perché non ci trovavamo più di fronte ad un dilemma.

Avremmo potuto dedicare tutto il tempo e le energie a nostra disposizione per costruire una comunità sana, in grado di fornire un’educazione moderna ai giovani, e al contempo, tentare di conservare i metodi tradizionali di studio e di pratica del buddhismo. Lavoravamo ormai in un’atmosfera di libertà, affrancati da ogni paura. La mia pratica personale ha tratto molti benefici da un’esistenza vissuta tra gravi problemi e preoccupazioni.” (Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama)

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