giovedì 24 settembre 2009

L'uomo che piantava gli alberi



“Qualsiasi stupido è capace di distruggere gli alberi”
(John Muir)


Quest’estate un mio amico che vende libri mi ha detto che dovevo leggere un racconto e mi ha consegnato un piccolo volume: “Prendilo, te lo consiglio. Lo finisci in 1 ora. Ti piacerà!” Così mi ha consegnato “L’uomo che piantava gli alberi” di Jean Giono, che dimostra “come gli uomini potrebbero essere altrettanto efficaci di Dio in altri campi oltre alla distruzione.”

Nell’estate del 1913 Jean Giono peregrinava in una zona solitaria della Provenza nel dipartimento delle Basse Alpi. Camminava da circa 3 giorni su di un altopiano a circa 1.300 metri. Aveva percorso un paesaggio di lande desolate, con ampie distese aspre e deserte su cui crescevano solo arbusti di lavanda, sotto la sferza di un vento feroce e implacabile. In un luogo desolato arrivò, assetato, allo scheletro di un paese di poche case diroccate, sperando di trovare acqua.

Era una bella giornata di giugno molto assolata, e il vento sferzava il paesaggio desertico e desolato, facendo risuonare il suo ululato furioso tra le rovine di quello che era stato un vecchio paesino con le macerie di un vecchio campanile, al fianco della chiesa. Dappertutto vi era desolazione e nessuna traccia di acqua, e così Giono riprese il cammino, disperando di trovare anima viva. All’improvviso vide in lontananza una macchia nera che assomigliava ad un tronco di albero ma, quando fu più vicino, si accorse che era un pastore solitario con un gregge di circa 30 pecore e il suo cane, che si riposavano sul prato arido. Il pastore gli offrì acqua dalla sua borraccia e poi lo portò ad una pozza profonda che aveva scavato a fianco di casa sua, da cui trasse un’acqua purissima ed ottima.

Il pastore abitava in una vera casa di pietra, una delle vecchie case del paese che aveva ristrutturato con pazienza. L’uomo, che era molto silenzioso come tutti i solitari, viveva nella casetta risistemata ad arte e tirata a lucido, con il pavimento spazzato e lavato, il fucile perfettamente oleato e la minestra calda che bolliva sul fuoco. Era rasato e pulitissimo, con gli abiti perfettamente rassettati e rammendati e silenziosamente divise con Giono la sua cena. Anche il suo cane era “affettuoso senza bassezza” e si mise seduto al fianco del suo padrone, dignitoso e muto: la presenza dell’uomo aveva il potere di infondere grande pace.

Era inteso che Giono fosse ospite per la notte, perché il villaggio più vicino era a un giorno e mezzo di cammino e poi gli abitanti di quei luoghi erano aspri e selvatici come le terre in cui vivevano, niente affatto ospitali. Erano rudi e grossolani boscaioli che facevano carbone, e che vivevano duramente facendosi una concorrenza spietata per i loro poveri commerci. C’era rancore e ostilità su tutto, causata dalle loro ambizioni frustrate dalla misera vita. L’ululato del vento spietato irritava i nervi degli abitanti sia il giorno che la notte, e la zona aveva vere e proprie epidemie di suicidio e una sinistra fama di numerosi casi di follia, quasi sempre assassina.

Dopo cena il pastore prese un sacco e rovesciò sul tavolo un mucchio di ghiande. Si mise ad esaminarle con attenzione e si mise a dividerle in mucchi di buone e di guaste. Giono si offrì di aiutarlo, ma il pastore rifiutò e continuò in silenzio a fare i suoi mucchi, dividendoli con una cura maniacale. Quando ebbe solo ghiande buone, le divise in mucchietti da dieci, eliminando ancora quelle più piccole ed imperfette fin quando ottenne cento ghiande perfette e poi andò a dormire.

Il giorno dopo Giono chiese di poter restare ancora un giorno per riposare ma, in realtà, era intrigato e curioso di sapere altro del misterioso pastore. Al mattino presto l’uomo uscì di casa con il suo cane e il gregge e andò al pascolo, seguito da Giono. Giono notò che portava come bastone un’asta di ferro di circa un pollice e lunga un metro e mezzo. Lasciato il suo gregge in custodia al cane, il pastore si spinse ancora più a monte e iniziò a piantare la sua asta di ferro nel terreno, facendo dei buchi in cui iniziò a depositare le ghiande e continuò così a piantare quercie finchè non ebbe finito tutte le ghiande.

Allora Giono gli chiese se quella terra fosse la sua e l’uomo rispose di no. Quindi Giono chiese se ne conoscesse il padrone, ma ancora un no fu la risposta. Riteneva che fosse una terra dello stato? Il pastore disse che non ne sapeva nulla e non si curava di saperlo. Piantò le sue ghiande con grande cura e, dopo il pranzo, ripetè la selezione di ghiande, finchè Giono insistette per sapere che cosa facesse. Seppe allora che l’uomo erano tre anni che piantava alberi in solitudine. Ne aveva piantati centomila, ma di centomila ne sarebbero nati solo ventimila. Dei ventimila ne avrebbe certamente persi la metà per colpa degli animali e delle intemperie, ma alla fine ne sarebbero restati diecimila, che nel giro di trenta anni sarebbero divenute diecimila splendide quercie, in un posto in cui prima non c’era nulla.

L’uomo disse di avere 55 anni e di chiamarsi Elzeard Bouffier. Aveva avuto una fattoria, ma era restato solo dopo la morte della moglie e del figlio, perciò si era ritirato in solitudine dove trovava piacere nel vivere con lentezza con la sola compagnia del suo cane e delle pecore. Aveva raggiunto quel paese, e si era convinto che quel posto sarebbe morto per mancanza di alberi e, siccome non aveva occupazioni più importanti, aveva deciso di rimediare a quello stato di cose. Ora stava studiando la riproduzione dei faggi che aveva avviato a piantare in una faggina dietro la casa, protetta da una rete per impedire lo scempio delle pecore, ed erano piante veramente splendide. Aveva anche trovato un posto in cui avrebbe messo delle betulle, perché “una certa umidità dormiva a qualche metro dalla superficie del suolo” ma non escludeva di piantare anche altri tipi di piante.

Il giorno dopo Giono ripartì e fu occupato per 5 anni per la guerra del 1914, ma volle poi tornare a respirare un poco d’aria pura. Allora volle tornare nelle contrade deserte in cui aveva conosciuto Elzeard Bouffier. Il villaggio era sempre abbandonato, ma le quercie erano cresciute molto. Elzeard si era disfatto delle pecore perché danneggiavano gli alberi più giovani ma, in cambio, aveva allestito circa 100 alveari con api operose e aveva continuato imperturbabile a piantare alberi, senza curarsi della guerra. Le quercie del 1910 era alte più di un uomo e si stendevano per 11 chilometri in una grande foresta, frutto del lavoro e dell’anima di quell’uomo infaticabile.

I faggi era stati una buona idea e facevano la loro bella figura in una rigogliosa faggeta. Anche le betulle del 1915 che Elzeard aveva messo in un terreno che aveva ritenuto umido e fecondo, ormai crescevano tenere e decise: il processo di rimboscimento funzionava a meraviglia, ma lui non se ne curava perché non si guardava mai indietro, e continuava la sua opera con animo indomabile. Scendendo verso il villaggio, Giono notò che ora scorrevano dei ruscelli dove prima c’erano stati dei letti disseccati, perché quei torrenti erano già presenti in tempi antichissimi. I tristi villaggi sorgevano su luoghi che erano stati insediamenti gallo-romano e gli archeologi avevano provato che, a quei tempi erano stati pescosissimi, ora stavano rinascendo.

Anche il vento aveva diffuso i semi, e nelle acque erano ricomparsi i salici e i giunchi. Erano rifioriti i prati, i campi e i giardini e gli abitanti che avevano notato gli alberi che ricrescevano, avevano creduto che fossero il prodotto di uno scherzo della natura. Se avessero sospettato di Elzeard Bouffier, lo avrebbero ostacolato, ma Elzeard era insospettabile e poteva continuare indisturbato il suo lavoro. Chi poteva pensare a tanta ostinata generosità umana?

A partire dal 1920 tutti gli anni, Giono tornò a trovare Elzeard, e in un anno gli vide piantare più di diecimila aceri. Morirono tutti. Allora lui si mise a piantare i faggi che avevano una migliore riuscita delle quercie. Tutto questo nella solitudine più assoluta, tanto che alla fine della sua vita arrivò a disimparare a parlare, forse per mancanza di abitudine o forse per mancanza di necessità. Nel 1933 Elzeard ebbe la visita di una guardia forestale che gli vietò di accendere fuochi nella foresta naturale per non mettere a rischio la crescita degli alberi: era la prima volta, spiegò la guardia, che si vedeva una foresta spontanea. E nel 1935 arrivò una delegazione forestale per esaminare la “foresta naturale” e fu deciso di fare qualcosa, ma per fortuna non si fece nulla se non vincolare l’intera zona mettendola sotto la tutela dello stato, e proibendo il taglio degli alberi.

Fu così che la foresta e la felicità di Elzeard Bouffier furono protette. Ma anche il villaggio ed il paese tornarono a vivere, con le casette perfettamente ristrutturate e circondate da campi e giardini fiorenti. Le ortiche non divoravano più le pietre diroccate e anche il vento non sferzava più il pianoro, ma scorreva e sussurrava come una brezza leggera. Ora mormorava perché era il vento della foresta, gentile e odoroso scorreva tra le case intonacate di fresco e gli orti dove crescevano verdure e fiori, cavoli e rose, porri e bocche di leone, sedani e anemoni. Quel posto era divenuto un posto dove si aveva voglia di abitare. Conclude Giono: “Ma, se metto in conto quanto c’è voluto di costanza nella grandezza d’animo e d’accanimento nella generosità per ottenere questo risultato, l’anima mi si riempie d’un enorme rispetto per quel vecchio contadino senza cultura che ha saputo portare a buon fine un’opera degna di Dio.”
Buona erranza
Sharatan

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