lunedì 2 novembre 2009

L’addio a un purosangue



Da oggi non avremo più Alda Merini, la poetessa dell’amore e della follia, della “follia come spazio d’amore e di ricerca” come disse l’amico Giorgio Manganelli. Per capire quale fosse la sensibilità di questa donna, è sufficiente leggere la prefazione al volume: ”L’altra verità: diario di una diversa” in cui racconta con lucidità la sua esperienza di 10 anni di manicomio, di cui scriverà a distanza di anni:

“La malattia mentale non esiste ma esistono gli esaurimenti nervosi, esistono le pene familiari, la responsabilità dei figli, la fatica di crescerli ed esiste la fatica di amare. Il manicomio che ho vissuto fuori e che sto vivendo non è paragonabile a quell’altro supplizio che però lasciava la speranza della parola. Il vero inferno è fuori, qui a contatto degli altri, che ti giudicano, ti criticano e non ti amano.”

Alda venne ricoverata in manicomio per volontà del marito, perché nel 1965 la moglie era soggetta alla piena autorità del coniuge. Era una giovane moglie e una poetessa promettente, sposata ad un uomo ordinario ed insensibile. Già fragile emotivamente ed esasperata dalle precarie condizioni economiche della famiglia, quando morì la madre a cui era legata da enorme amore, ebbe una crisi di nervi e venne internata a sua insaputa.

Nel Diario Alda scrive: “Dopo qualche giorno mio marito venne a prendermi, ma io non volli seguirlo. Avevo imparato a riconoscere in lui un nemico ... e quella dissero che era stata una mia seconda scelta, scelta che pagai con dieci anni di coercitiva punizione.”

Solo questo documento basterebbe per capire come sappiamo divenire ciechi di fronte alle diversità degli altri e quali abissi di disperazione riesca a creare l’uomo per affliggere i suoi simili. Su questo Alda scrive: "Non c’è persona ingiustamente offesa o malata che non chieda a Dio il perché del dolore e quindi della propria morte.

Non c’è un Dio vero nella passione, ma spesso un catalogo di imposture e di colpe di cui si fa carico il prigioniero della vita. L’uomo è un prigioniero della vita ma è anche un prigioniero della morte e non c’è spazio creato dagli uomini che non possa cadere sotto l’accettazione che il dolore non solo è umano ma è giusto.

Manganelli ha esitato a lungo prima di mettere mano al Diario: inorridiva al solo pensiero che il suo amore potesse essere rinchiuso in un luogo di torture, in un lager maledetto che lui credeva luogo santo perché io non avevo disobbedito alla volontà di Dio. E’ ancora la domanda che mi rivolgo.

Dopo il mio abbandono Manganelli si è dedicato alle lettere, dalla “storia di un anima” io ho tratto “Il diario di una diversa” il che vuol dire che è vero che un grande dolore può fare un grande scrittore. Ma devo anche dire che solo Dio ha il potere di disarcionare un’anima, per il resto alcune anime camminano su traballanti ronzini e credono di essere dei purosangue.
Auguri a tutti i ronzini.

Alda Merini "

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