mercoledì 26 settembre 2012

Una lezione zen



"E' l'arte suprema dell'insegnante
a risvegliare la gioia della creatività e della conoscenza"
(Albert Einstein)

Negli anni Settanta un maestro zen arrivò a Providence, nel Rhode Island, e iniziò a viverci lavorando come riparatore di lavatrici. Il suo nome coreano era Seung Sahn cioè “Montagna Alta” dal nome della montagna cinese su cui venne illuminato Hui Neng sesto patriarca zen, ma i suoi allievi lo chiamavano Soen Sa Nim, cioè l'Onorato Maestro Zen. Il maestro coreano era stato scoperto da un gruppo di studenti della Brown University, che gli avevano creato attorno un gruppo curioso di scoprire chi fosse quel tipo strano e cosa avesse da offrire di nuovo.

Da questo gruppo originario nacque il Providence Center Zen, e nei decenni che seguirono sorsero nel mondo molti altri centri basati sugli insegnamenti del maestro Soen Sa Nim. Jon Kabat Zinn lo aveva sentito nominare da uno dei suoi studenti, perciò decise di conoscere lo strano maestro che viveva riparando le lavatrici e che sembrava molto felice dell’umile lavoro. Jon, conoscendolo, notò in Soen Sa Nim qualcosa di molto affascinante, infatti il maestro coreano aveva un viso aperto e sorridente illuminato da uno sguardo molto attento.

Sembrava un uomo sempre molto presente a se stesso sebbene il suo atteggiamento fosse privo di qualsiasi traccia di orgoglio o di presunzione. Il maestro aveva sempre il capo ben rasato, perché i monaci buddisti tagliano “l’erba dell’ignoranza,” come chiamano i capelli, e calzava dei semplici sandali di gomma, perché le calzature di cuoio si ottengono assassinando gli animali. Il maestro zen indossava una semplice veste grigia, e quando insegnava indossava una kesa marrone semplicissima fatta con pezze di stoffa cucite insieme che formavano un rettangolo che pendeva sul petto.

Questo tipo di indumento viene usato nella tradizione zen per ricordare l’umile veste del Buddha e dei suoi primi discepoli che usavano delle tuniche composte da scarti di stoffa. Soen Sa Nim sembrava un uomo dall’età indefinibile, malgrado dovesse essere sulla quarantina, e aveva una corporatura robusta su un'altezza di circa un metro e ottanta. Di lui si diceva che in Corea fosse molto stimato ed autorevole, e il maestro diceva di se stesso che era voluto venire nei posti in cui “succedevano le cose” e l’America di quegli anni era molto attratta dalle discipline orientali, dalle tecniche di meditazione e dalle filosofie orientali.

Spesso lo strano maestro iniziava le sue lezioni afferrando il kyosaku, cioéil piccolo bastone piatto tipico dello zen, che aveva fatto con un ramo ritorto e nodoso ben lucidato. Usava il bastone per appoggiarvi il mento mentre parlava, oppure lo teneva sollevato sulla testa, poi diceva: “Lo vedete questo?” A quelle parole tutti restavano perplessi e muti, infatti tutti gli occhi sorpresi degli allievi lo fissavano senza capire cosa volesse comunicare. Subito dopo batteva violentemente il kyosaku sul tavolo che aveva davanti, per cui lo schiocco violento sgomentava sempre più il gruppo dei discepoli.

Il maestro del tutto calmo, tranquillo e imperturbabile malgrado quel gesto violento, si rivolgeva al suo pubblico e chiedeva: “Lo sentite questo rumore?” Gli allievi restavano sempre muti e ancor più perplessi, perché nessuno aveva il coraggio di parlare per commentare o rispondere alle sue domande: dopo l’introduzione a suon di bastonate il maestro coreano iniziava la sessione. Chiaramente l'eccentrico avvio delle sue sessioni aveva un significato, ma furono necessarie molte lezioni perché il messaggio fosse chiaro.

Il messaggio diceva che quando si tratta di zen, di meditazione o di consapevolezza non dobbiamo complicarci le cose. Per fare la meditazione, praticare lo zen o provare la consapevolezza non dobbiamo inventarci delle filosofie complicate e non dobbiamo avere una mente brillante, perché una filosofia che è lontana dal vivere comune non ci dona la vita. Il concetto del maestro coreano era che il vedere e il sentire deve essere sempre un fatto nudo e crudo, perciò dobbiamo perseguire una percezione estremamente semplice.

Quando vediamo e sentiamo in modo nudo e semplice, cioè quando percepiamo la realtà per com'è, troviamo il rifugio nella mente originale, che è il luogo libero da tutti i preconcetti mentali compreso il concetto di “mente originale.” Questo luogo non si cerca con la mente e non si trova nella mente, perché è già presente al nostro interno, perciò non dobbiamo temere di non trovarlo, infatti questo luogo è l’unica dimensione in cui non possiamo perderci. L’essenziale è solo il percepire, per questo non dobbiamo pensare, infatti vedendo il bastone dobbiamo sapere soltanto chi è che lo vede.

Allo stesso modo, quando sentiamo il colpo secco dello scoccare sul tavolo dobbiamo sapere soltanto chi è colui che lo sente: la vera percezione è quella che troviamo nell'essere pienamente presente alla nuda e semplice percezione. Nella pienezza del totale “vedere e sentire” troviamo il luogo del vero rifugio, ma questo luogo esiste solo nell'attimo che precede le interferenze dei pensieri. La percezione originaria sa bloccare l'azione disturbante della mente e le interferenze dei pensieri.

Solo in seguito Jon Kabat Zinn comprese che il maestro voleva insegnare che vedere e sentire non è un fatto naturale, ma che questa facoltà è complessa e molto difficile da apprendere, perché è molto difficile percepire in modo semplice ed essenziale. Nell'esperienza percettiva siamo sommersi dai pensieri e dalle emozioni prodotte delle esperienze passate, ma queste interferenze ci rendono estranei alla percezione della realtà.

La velocità con cui i pensieri, le emozioni e le interpretazioni nascono impedisce di sentire che la percezione è come una novità da assaporare, e questo errore non ci fa assaporare le esperienze. Siamo sottratti all’istante in cui sorge la vera visione originale, perché essa arriva quando la realtà colpisce la nostra percezione. Se impariamo che la percezione è in questa nuda semplicità non veniamo sommersi dai disturbi della mente, e anche se la vera visione fugge molto veloce, la totale vicinanza della nostra coscienza ai sensi ci fa percepire.

L'inconsapevolezza e le disattenzioni ci condizionano, perché l'estraneità tra la coscienza e la percezione ci fa scivolare negli automatismi dei pensieri e delle emozioni. L'inconsapevolezza è come un gorgo d’acqua che ci risucchia e ci sommerge, perciò la lezione zen non iniziava in modo strano. L'inizio non era banale, ma la sessione iniziava con un insegnamento profondo, perché Soen Sa Nim ci esortava a risvegliarci dal sonno in cui giacciono immersi i nostri sensi e la nostra coscienza.

Il maestro ci avvertiva che siamo tanto immersi in noi stessi da essere ipnotizzati dalle nostre concezioni mentali, per questo siamo travolti dalle cose che ci accadono e viviamo estranei a quello che avviene. Per questo motivo restiamo nelle situazioni che non ci danno quello che vogliamo, e subiamo anche quello che non rappresenta ciò che siamo. Dobbiamo riconoscere il torpore in cui sono smarriti i sensi e la nostra coscienza, perché questa fatale ignoranza ci getta indifesi nel vortice ottuso che chiamiamo la nostra vita.

Buona erranza
Sharatan



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