domenica 30 settembre 2018

La produzione dello straniero



“Non credere che si possa diventare felici
producendo l’infelicità altrui.”
(Lucio Anneo Seneca)

Tutte le società producono stranieri: ma ognuna ne produce un tipo particolare, secondo modalità uniche e irripetibili. Se si definisce «straniero» chi non si adatta alle mappe cognitive, morali o estetiche del mondo e con la sua semplice presenza rende opaco ciò che dovrebbe essere trasparente; se gli stranieri sono persone in grado di sconvolgere i modelli di comportamento stabiliti e costituiscono un ostacolo alla realizzazione di una condizione di benessere generale.

Se compromettono la serenità diffondendo ansia e preoccupazione e fanno diventare seducenti esperienze strane e proibite; se, in altri termini, oscurano e confondono le linee di demarcazione che devono rimanere ben visibili; se, infine, provocano quello stato di incertezza che è fonte di inquietudine e smarrimento - allora tutte le società conosciute producono stranieri.

Il procedimento seguito per tracciare i confini e disegnare le mappe cognitive, estetiche e morali, stabilisce fin dall'inizio gli individui destinati a rimanere ai margini o fuori degli schemi di una esistenza ordinata e dotata di senso: gli stessi che in seguito saranno accusati di causare i disagi più fastidiosi e insopportabili.

L'incubo ossessivo che ha attraversato il nostro secolo, tristemente noto per i suoi orrori e terrori, strumenti di morte e tristi premonizioni, è stato compendiato nel modo migliore da George Orwell nella memorabile immagine dello stivale militare che calpesta un volto umano. Nessun volto era al sicuro: chiunque poteva essere accusato di aver trasgredito o infranto regole e confini.

Poiché l'umanità sopporta male i confini e i limiti e gli uomini che li oltrepassano diventano «stranieri», tutti avevano ragione di temere lo stivale capace di schiacciare il volto estraneo nella polvere, di calpestarlo fino a fargli perdere i connotati dissuadendo così gli altri dall'attraversare illegalmente le frontiere. Gli stivali militari fanno parte delle uniformi. Elias Canetti le ha definite una volta «uniformi assassine».

Ad un certo punto del nostro secolo è diventato chiaro a tutti che gli uomini da temere maggiormente erano quelli in uniforme. Le uniformi erano i simboli dei servitori dello stato, inteso come fonte di tutti i poteri, e soprattutto del potere coercitivo sostenuto dall'autorità legittima di «auto-assolversi dall'accusa di crudeltà disumana».

Indossando le uniformi, gli uomini «attivavano» e incarnavano quel potere; indossando gli stivali dell'uniforme, calpestavano e umiliavano nella polvere su ordine e in nome dello stato. Lo stato che insieme alle uniformi forniva ai suoi uomini l'autorità e la preparazione per opprimere calpestando e allo stesso tempo garantiva la loro assoluzione, era lo stato percepito come fonte, custode e unico garante della vita ordinata: la diga che protegge l'ordine dal caos.

Uno stato che aveva ben chiaro cosa dovesse essere l'ordine e aveva la forza e l'arroganza non solo di dichiarare ogni altro stato delle cose «disordine», ma anche di costringerle ad assoggettarsi alle proprie condizioni. Era, in altri termini, lo stato moderno: che imponeva la legge dell'ordine nell'esistenza e definiva l'ordine come la chiarezza delle divisioni, delle classificazioni, delle ripartizioni e dei confini da rispettare severamente.

La figura tipica dello straniero "moderno" era il prodotto residuo dello zelo regolatore dello stato. Gli stranieri non erano in grado di adeguarsi alla concezione dell'ordine. Quando si tracciano linee di divisione e si contrassegnano le zone così ottenute, tutto ciò che altera e non rispetta tali suddivisioni è fonte di insidia e rovina.

La riduzione o la sovra-determinazione semantica degli stranieri insidia la visibilità delle suddivisioni e travolge i paletti indicatori dei confini. Il semplice fatto che gli stranieri siano là, attorno ai confini, disturba e ostacola la realizzazione dei compiti che lo stato si prefigge di svolgere.

Lo straniero semina incertezza nel terreno in cui dovrebbe crescere la certezza e la trasparenza. Nel progetto che prevede di realizzare una condizione di ordine armonioso e razionale non c'è spazio - non potrebbe esserci spazio - per ciò che è «indefinito», non ha una collocazione precisa ed è cognitivamente ambivalente.

L'impresa di costruzione dell'ordine è una guerra di logoramento dichiarata contro gli stranieri e tutto ciò che è anomalo. Per combattere questa guerra, citando Lévi-Strauss, venivano impiegate ciclicamente due strategie alternative ma anche tra loro complementari.

La prima era "antropofagica": consisteva nell'annullare gli stranieri "divorandoli" per poi metabolizzarli rendendoli una copia perfetta di se stessi. Questa era la strategia della "assimilazione": rendere simile il dissimile; soffocare le distinzioni culturali o linguistiche; proibire tutte le tradizioni e i legami ad eccezione di quelli che favorivano il conformismo verso il nuovo e pervasivo ordine; promuovere e rinforzare il solo e unico criterio della conformità.

La seconda strategia era "antropoemica": "espellere" gli stranieri, esiliarli dai limiti del mondo ordinato e impedire loro ogni comunicazione con chi sta dentro.

Questa era la strategia dell'"esclusione": confinare gli stranieri all'interno delle mura ben visibili del ghetto o dietro gli invisibili e non meno tangibili, divieti di "condivisione", "connubium" e "commercium"; «compiere un rituale di purificazione» attraverso l'espulsione degli stranieri oltre le frontiere del territorio amministrato; o, quando nessuna delle due misure era applicabile, distruggere gli stranieri fisicamente.

L'espressione più comune delle due strategie si manifestò nello scontro tra la versione del progetto moderno di stampo liberale e quello di stampo nazionalista/razzista. Secondo il progetto liberale, gli uomini erano tra loro differenti a causa della diverse tradizioni locali e particolaristiche in cui erano nati e cresciuti. Ma in quanto «prodotti dell'educazione» e «creazioni» culturali, essi erano flessibili e disponibili ad essere forgiati.

Con la progressiva universalizzazione della condizione umana (che ha significato lo sradicamento di ogni particolarismo e delle forme di autorità che li legittimava e, di conseguenza, la liberazione dello sviluppo umano dall'ormai inutile vincolo della nascita) questa diversità predeterminata, inevitabilmente imposta sulla possibilità di scelta degli individui, è destinata a scomparire.

Naturalmente la prospettiva nazionalista/razzista si oppone radicalmente a questa visione sostenendo che il cambiamento culturale proposto dal progetto liberale si scontra con limiti che nessuno sforzo umano è in grado di superare.

Alcuni individui non saranno mai convertiti in qualcosa di diverso da quello che sono. Non è possibile liberar"li" dai loro difetti: ci si può solo liberare "di loro", comprese le loro innate peculiarità e le loro eterne stranezze.

Nella società moderna e sotto l'egida dello stato moderno, l'annullamento culturale e/o fisico degli stranieri e dell'anomalia era una "distruzione creativa"; un'opera di demolizione e allo stesso tempo di ricostruzione; di profondo rimescolamento ma anche di riordino.

Faceva parte integrante dello sforzo continuo di costruzione dell'ordine, della nazione, dello stato: era la loro condizione necessaria e parallela. Inversamente, ogni volta che il progetto di costruzione dell'ordine lo prevedeva, certi abitanti del territorio da assoggettare al nuovo sistema si tramutavano in stranieri da eliminare.

Sotto la pressione della spinta alla costruzione dell'ordine, gli stranieri vivevano, per così dire, in uno stato di estinzione sospesa. Gli estranei erano, per definizione, un'anomalia da correggere. La loro presenza era definita "a priori" come temporanea, proprio come uno stadio presente ma momentaneo nella storia dell'imminente ordine futuro.

La coesistenza permanente con l'estraneo e il diverso, e la pragmatica del vivere con gli stranieri non doveva assolutamente essere considerata come una prospettiva reale.

Almeno finché la vita moderna avesse tenuto fede al suo progetto, e finché tale progetto avesse cercato la realizzazione di un ordine nuovo e globale, e finché la sua realizzazione fosse rimasta il compito di uno stato abbastanza ambizioso e intraprendente da perseguire l'obiettivo.

Queste condizioni non sembrano più tenere oggi, in un'epoca che Anthony Giddens chiama «tarda modernità», Ulrich Beck «modernità riflessiva», George Balandier «sur-modernità» e che io (insieme a molti altri) definisco «postmoderna»: l'epoca che stiamo vivendo ora, nella nostra parte di mondo (o meglio, vivere in un'epoca simile definisce ciò che consideriamo «la nostra parte di mondo»).

(Zygmunt Bauman La società dell’incertezza, Laterza ed.)

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