martedì 14 ottobre 2008
Al culmine della disperazione
Emil Choran nasce nel 1911 in Transilvania, in una famiglia benestante, figlio di un prete ortodosso e di una baronessa della nuova nobiltà ungherese. Allo scoppio della prima guerra mondiale i genitori, come altri intellettuali di origine rumena sono separati e condannati al confino, ed il piccolo Emil è affidato ai nonni. Dopo un’infanzia felice la sua vita cambia completamente. Fin dall’adolescenza è tormentato da gravi crisi di insonnia, a cui attribuì in seguito, tutte le stranezze di ciò che era diventato. Studioso di Kant, Schopenahuer e Nietzsche, in seguito diventa agnostico, ed assume come assioma “l'inconvenienza dell'esistenza”. Politicamente si schiera a favore del vitalismo e dell’esoterismo mistico dei nazisti e viene accusato di antisemitismo. Lui stesso si definisce un filosofo urlatore ma forse, lo dovremmo considerare un pensatore pericoloso perché troppo estremo,in questo molto simile a Nietzsche; entrambi nichilisti e devastanti. “Io non sono un uomo, sono dinamite” oppure “Annientare con le parole offre un senso di potenza e lusinga qualcosa di oscuro in noi. Non è erigendo, è polverizzando che possiamo intuire la segreta soddisfazione di un dio.”
Frasi così spiegano il forte impatto emotivo che offre Nietzsche, ma disvelano un pensiero fortemente antidemocratico, inumano e nichilista. Lo stesso Choran nega ogni gioia all’esistenza, lucidissimo nel suo assoluto pessimismo, sedotto dal nulla e affascinato dal vortice dell’irrazionale, infelice vittima della “caduta nel tempo”.
L’opera “Al culmine della disperazione” può definirsi un piccolo capolavoro filosofico, permeato di tutto il pessimismo e lo scetticismo che l’autore possa esprimere. E'scritta quando Choran ha 22 anni, ed è preda di uno "sconvolgimento interiore” che aggrava l’insonnia che lo tormenta da anni. In queste condizioni penosissime si ritrova per ore a passeggiare per le deserte strade cittadine, in preda ad una“criminale assenza di oblio.” La scrittura lo salva dal suicidio e “Al culmine della disperazione” costituisce ”una specie di liberazione, di esplosione salutare.” In una spietata autoanalisi, Choran sonda gli abissi più profondi dell’animo umano, in una condizione di “coscienza esasperata da se stessa.” Nel corso della veglia interminabile, insorge “un’interminabile ripulsa del pensiero attraverso il pensiero” che riesce a generare un pensiero estremo ed assoluto, espresso in una prosa ricca e seduttiva. Della sua scrittura offro un esempio, con un brano sull’essenza del lirismo umano.
“E’ sempre pericoloso conservare contenuti che chiedono di essere oggettivati, trattenere un’energia esplosiva, perché può venire il momento in cui non si sarà più in grado di padroneggiarla. Il crollo nascerà allora da un eccesso di pienezza. Esistono stati e ossessioni con cui è impossibile convivere. La salvezza non consiste quindi nell’ammetterli? ... Il lirismo rappresenta un impulso a disperdere la soggettività, perché denota nell’individuo, un’effervescenza insopprimibile che continuamente esige espressione. Essere lirici significa non poter restare chiusi in se stessi. Tale bisogno di esteriorizzazione è tanto più imperioso quanto più il lirismo è interiore, profondo e concentrato… Diventiamo lirici quando la vita dentro di noi palpita a un ritmo essenziale, e quando ciò che stiamo vivendo è talmente forte da sintetizzare il senso stesso della nostra personalità. Ciò che abbiamo di unico, di specifico, si compie in una forma così espressiva che l’individuale si eleva al livello dell’universale… La vera interiorizzazione conduce ad una universalità inaccessibile a quanti restano in superficie… Ecco perché il lirismo è considerato un fenomeno marginale e inferiore, frutto di un’inconsistenza spirituale, quando invece le risorse liriche della soggettività testimoniano una freschezza e una profondità interiori fra le più considerevoli. Certuni diventano lirici solo nei momenti cruciale della loro vita; altri solo nell’agonia, quando tutto il loro passato si attualizza e si riversa su di loro come un torrente: Ma nella maggioranza dei casi questo sfogo lirico nasce in seguito ad esperienze essenziali, quando l’agitazione del fondo intimo dell’essere attinge il parossismo. Così, uomini inclini all’oggettività e all’impersonalità, estranei a se stessi come alle realtà profonde, una volta prigionieri dell’amore provano un sentimento che mette in moto tutte le loro risorse personali. Il fatto che, quando sono innamorati, quasi tutti facciano della poesia mostra chiaramente che il pensiero concettuale non basta a esprimere l’infinità interiore, e che solo una materia fluida e irrazionale è in grado di offrire un’oggetivazione appropriata al lirismo. Non accade lo stesso con l’esperienza della sofferenza? Ignari di ciò che nascondiamo in noi stessi come di ciò che nasconde il mondo, siamo improvvisamente afferrati dall’esperienza della sofferenza … e trasportati in una regione infinitamente complessa, in cui la soggettività si agita come in preda ad una vertigine. Il lirismo della sofferenza provoca un incendio, e attua una purificazione interiore in cui le ferite non sono più semplici manifestazioni esterne, senza implicazioni profonde, ma partecipano della sostanza stessa dell’essere. E’ un canto del sangue, della carne e dei nervi. Lo stato lirico è al di là delle forme e dei sistemi. Una fluidità, una scioltezza interiore mescolano in uno stesso slancio, come in una convergenza ideale, tutti gli elementi della vita dell’anima per creare un ritmo intenso e pieno. Rispetto alla raffinatezza di una cultura anchilosata che, costretta in forme e cornici, camuffa tutto, il lirismo è un’espressione barbara. Qui sta appunto il suo valore: nell’essere solo sangue, sincerità e fiamme.”
(Emil Choran, Al culmine della disperazione, p.16-18).
Buona erranza
Sharatan ain al Rami
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