giovedì 23 ottobre 2008
Sommersi dalla bellezza del vuoto
Nella nostra cultura la bellezza è sempre stata regolamentata da canoni e proporzioni derivanti dalla concezione platonica dell’opposizione tra il mondo delle cose e il mondo delle idee, governato dal grande Demiurgo. E’ in Platone che troviamo per la prima volta quelle concezioni che saranno ereditate dal pensiero cristiano e rafforzate da s. Agostino.
Da sempre diamo alla bellezza una serie di obblighi, in merito alla misura, alla proporzione, all’armonia e alla grandezza delle parti sul tutto. Da quelle misure emerge un ideale socio-culturale esterno all’individuo, a cui però esso è obbligato ad aderire: tale concetto è espresso compiutamente nel canone armonico rinascimentale dell’uomo vitruviano.
Potremmo invece pensare che la bellezza possa essere svincolata da ogni canone predefinito? Possiamo pensare di lasciarsi andare alla mutevolezza delle cose e delle persone ed essere disponibili al bello?
Nelle culture d’Oriente tale ideale è del tutto naturale, ed emerge lasciandosi andare ricettivamente, nel pieno equilibrio di corpo e mente, ed in piena attenzione rilassata alla contemplazione di ciò che il mutamento offre ai nostri sensi. Nella chiara descrizione della pratica zen giapponese delle cerimonia del thè, possiamo apprezzare la preparazione mentale e fisica necessaria per essere accolti nella camera del thè vera e propria.
Cosa insegna il rigido formalismo zen? Mette in chiaro, evidenzia il metodo puro, l’essenzialità della tecnica attuativa, della pratica. Questo è molto importante da capire per la mente occidentale, che ha un approccio del tutto diverso, cioè logico-teorico all’esperienza. Il corpo orientale entra in gioco ancora prima della mente, quando l’individuo viene messo di fronte alle esperienze, alle tecniche e alle arti: l’approccio è essenzialmente pratico. Nel praticare un’arte, l’orientale diviene l’arte stessa, e il suo intervento sulla realtà non è assolutamente invasivo, ma è sempre rispettoso della natura delle cose. Questo punto di vista è molto difficile da capire per noi occidentali, è difficile da praticare.
Nel concetto di vuoto vi è la piena ricettività dell’essere, c’è la completa disponibilità a recepire l’esterno, vi è la massima centratura sul nostro essere, siamo in un’attenzione rilassata ma non selettiva, rispetto ai fatti che si osservano. Questa disposizione predispone il terreno, affinchè l’anima della disciplina entri in noi stessi, fluisca nelle nostre vie energetiche e possa infine manifestarsi in perfetta ed essenziale esecuzione artistica.
Afferma Cheng Yao Tian - calligrafo del periodo Ching - che “la via della calligrafia è fondata sulla padronanza del vuoto.” Tale elemento viene espresso ancor più chiaramente in Wang Yuan Chi, autore del trattato di estetica, “Yu Chuang Man Pi”: “Si deve concepire l’idea prima di afferrare il pennello, questo è il punto principale della pittura. Quando il pittore prende il pennello deve essere completamente tranquillo, sereno, calmo e raccolto, ed escludere tutte le emozioni volgari. Si deve sedere in silenzio davanti al rotolo di seta bianca, concentrando il suo spirito e controllando la sua energia vitale.” La bellezza si coglie mettendosi in attenzione ricettiva, lasciando che l’oggetto osservato la esterni, dal centro del suo essere.
A tutte le nostre scissioni e preconcezioni sul bello, sembra estraneo il pensiero orientale, il quale afferma che un individuo con mente e corpo equilibrati, illuminato dalla conoscenza e pienamente ricettivo può godere di bellezza assoluta e dominare il mondo. Il concetto di amore ed il concetto di bellezza vengono così svincolate da ogni legame con le persone, per abbracciare una dimensione cosmica. Cogliere l’essenza del vuoto, equivale alla suprema conoscenza, e praticare una disciplina con l’uso del vuoto è la somma manifestazione dell’arte, sia essa una pratica marziale, sia il rito del thè, sia il tiro con l’arco o l’arte dell’equitazione, sia il godimento estetico di una poesia, etc... Solo quando l’uso del vuoto è in funzione – osserva Giangiorgio Pasqualotto - vi è la “grande abilità che sembra assenza di abilità; essa è caratterizzata dall’assenza di intenzionalità e, quindi, di sforzo. L’opera riesce meglio quando l’Io si mette da parte e la fatica scompare: l’esecuzione raggiunge così la perfezione.”
Buona erranza
Sharatan ain al Rami
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