domenica 14 ottobre 2018

Impermanenza



“Noi siamo vuoti:
la materia di cui siamo composti,
per così dire, è vuota.”
(XIV Dalai Lama)

Una volta il Buddha riunì i suoi discepoli in un luogo chiamato il Picco dell’Avvoltoio. In quell’occasione impartì alcuni insegnamenti rivoluzionari sulla natura totalmente aperta e insostanziale del nostro essere, chiamata tradizionalmente shunyata, bodhicitta incondizionato o prajnaparamita.

Il Buddha aveva già dato insegnamenti sull’insostanzialità. Molti discepoli presenti al Picco dell’Avvoltoio avevano compreso profondamente l’impermanenza e la non esistenza del sé, la verità che niente, inclusi noi, è solido o prevedibile. Avevano compreso la sofferenza che proviene dall’attaccamento e dalla fissazione.

Avevano imparato ciò dal Buddha stesso e ne avevano sperimentato la profondità in meditazione. Ma il Buddha sapeva che la nostra tendenza a cercare un terreno solido è tenacemente radicata. L’ego può utilizzare qualsiasi cosa per mantenere l’illusione della sicurezza, inclusa la credenza nell’insostanzialità e nel cambiamento.

Allora il Buddha fece qualcosa di scioccante. Con gli insegnamenti della prajnaparamita spinse la zattera completamente al largo, portando i suoi studenti ancora più nell’insostanzialità. Disse loro che dovevano lasciar andare qualsiasi cosa in cui credessero, che basarsi su qualsiasi descrizione della realtà era una trappola.

Non era una notizia confortante per loro… spazzò via tutte le loro rimanenti concezioni sulla natura della realtà. Il principale messaggio del Buddha quel giorno fu che aggrapparsi a qualsiasi cosa blocca la saggezza. Qualsiasi conclusione va abbandonata. Durante questo insegnamento, conosciuto come il Sutra del Cuore, in realtà il Buddha non disse una sola parola.

Entrò in uno stato di profonda meditazione, e lasciò che il bodhisattva della compassione, Avalokiteshvara, facesse il discorso. Questo coraggioso guerriero, conosciuto anche come Kuan-yin, espresse la sua esperienza della prajnaparamita per conto del Buddha.

La sua visione profonda non era basata sull’intelletto, ma proveniva dalla sua pratica: vedeva con chiarezza che tutto è vuoto. Uno dei principali discepoli del Buddha, Shariputra, pose domande ad Avalokiteshvara. Questo è un punto importante. Anche se era un grande bodhisattva a insegnare e il Buddha vegliava su di lui, il significato profondo emerse solo attraverso quelle domande.

Nessun insegnamento veniva accettato per compiacere o per fede cieca. Shariputra non si accontentava di accettare quello che sentiva; voleva conoscere da sé la verità. Dunque, chiese ad Avalokiteshvara:«Come posso applicare prajnaparamita in ogni parola, azione e pensiero della mia vita? Qual è la chiave per addestrarsi a questa pratica? Quale visione devo assumere?»

Avalokiteshvara rispose con uno dei più famosi paradossi buddhisti:«La forma è vacuità, la vacuità è anche forma. La vacuità non è che forma, la forma non è che vacuità.» Quando ascoltai queste parole per la prima volta, non avevo idea di che cosa si stesse parlando. La mia mente si fece completamente vuota. La sua descrizione, come la stessa prajnaparamita, è inesprimibile, indescrivibile, inconcepibile.

La forma è quello che semplicemente è prima che vi proiettiamo le nostre credenze. La prajnaparamita rappresenta un prendere le cose in modo totalmente fresco, una mente senza impedimenti dove tutto è possibile. Prajna è l’espressione non filtrata dell’orecchio aperto, dell’occhio aperto, della mente aperta che sono in ogni essere vivente.

Thich Nhat Hanh traduce questa parola con “comprensione”. È un processo fluido, non qualcosa di definito e concreto, valutabile o misurabile. L’esperienza umana è questa prajnaparamita, questa inesprimibilità. Non è da considerarsi come uno stato di pace o uno stato alterato della mente. È uno stato di intelligenza fondamentalmente aperto, investigante e libero da preconcetti.

Non è rilevante che si presenti sotto forma di curiosità, di smarrimento, di choc e rilassamento: il punto è che ci addestriamo quando siamo presi alla sprovvista e quando la nostra vita è aria. Dunque, quando Avalokiteshvara dice:«La forma è vacuità» si riferisce alla semplice, diretta relazione con l’immediatezza dell’esperienza - il contato diretto con il sangue, il sudore, i fiori, l’amore, con l’odio.

Prima di tutto togliamo di mezzo i nostri preconcetti e poi lasciamo andare anche la credenza che dovremmo vedere le cose senza preconcetti. Continuiamo a portare al largo la nostra zattera. Quando percepiamo la forma come vuota, senza barriere o veli, comprendiamo la perfezione delle cose così come sono.

Si può diventare dipendenti da questa esperienza. Può darci un senso di libertà dall’ambiguità delle emozioni e l’illusione di poter penzolare al di sopra del disordine della vita. Ma «la vacuità è anche forma» rovescia la situazione. La vacuità si manifesta continuamente come guerra e pace, come lutto, nascita, vecchiaia, malattia, morte, gioia.

Siamo sfidati a restare in contatto con il cuore vibrante che caratterizza l’essere vivi. Per questo ci addestriamo nelle pratiche di bodhicitta… che ci aiutano a impegnarci pienamente nella vividezza della vita con mente aperta, non offuscata.

Le cose sono cattive o buone così come sembrano, non c’è bisogno di aggiungerci niente di extra. È scomodo non avere la terra sotto i piedi. Ma è un processo di smascheramento: pur essendo irritati e ansiosi, ci stiamo avvicinando a vedere la vera, non fissa natura della mente. È come un koan zen.

Avalokiteshvara, dopo aver detto a Shariputra che «la forma è vacuità e la vacuità è anche forma» si spinse oltre affermando che non c’è niente, nemmeno gli insegnamenti del Buddha, a cui aggrapparsi: né i tre segni dell’esistenza, né la sofferenza, né la fine della sofferenza, né l’imprigionamento, né la liberazione.

La storia continua raccontando che molti discepoli restarono talmente scossi da questi insegnamenti da avere un attacco di cuore. Un maestro tibetano commentava che, più probabilmente, si alzarono e se ne andarono, non vollero ascoltare. Proprio come noi: non ci piace vedere sfidati i nostri assunti fondamentali: ci fa troppa paura. L’istruzione su prajnaparamita è un insegnamento su come dissolvere la paura.

Nella misura in cui smettiamo di lottare contro l’incertezza e l’ambiguità, dissolviamo la paura. La piena illuminazione è sinonimo della totale assenza di paura: l’interazione con il nostro mondo sentita con tutto il cuore e con la mente aperta. Nel frattempo, ci addestriamo a muoverci pazientemente in quella direzione.

Impariamo a rilassarci nell’insostanzialità, gradualmente ci connettiamo con la mente che conosce l’assenza di paura. Non importa dove ci troviamo sul sentiero di bodhicitta, che siamo solo all’inizio o abbiamo praticato per anni, stiamo sempre spingendoci oltre l’insostanzialità. L’illuminazione, l’essere completamente risvegliati, non è che l’inizio del pieno entrare in un non sappiamo cosa.

Quando il grande bodhisattva finì di insegnare, il Buddha uscì dallo stato meditativo e disse: «Bene, bene! L’hai espresso perfettamente, Avalokiteshvara.» E quelli che non se n’erano andati, né erano morti d'infarto, gioirono. Si rallegrarono nell’ascoltare l’insegnamento sull’andare oltre la paura. (Pema Chödröm, Consigli ad un guerriero compassionevole, Mondadori)

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