martedì 5 maggio 2009

La morte del prossimo


Nella Bibbia è detto: “Ama il prossimo tuo come te stesso. Io sono il Signore” e lo stesso precetto è stato ripetuto da Cristo. Alla fine dell’Ottocento Nietzsche gridò che Dio è morto e, alla fine del secondo millennio, tutto ci fa sospettare che sia morto con Dio anche il nostro prossimo: questa è la teoria dello psicanalista Luigi Zoja, per spiegare l’indifferenza moderna per il destino dei nostri simili.

Ma chi è il nostro prossimo, si chiede, se non colui che possiamo vedere, sentire, toccare e con cui possiamo instaurare un reale rapporto di empatia e di condivisione? Il concetto di prossimità e di alterità non ha altro significato se non quello di potere vedere, concepire e perciò sentire un nostro vicino, un nostro simile. La novità del cristianesimo, seppure la volessimo cercare, è costituita dall’allargamento del precetto ebraico ad ogni prossimo, al prossimo che è un nostro simile, a tutti gli esseri umani: ogni prossimo così ci diventa caro, ogni prossimo così diventa fratello.

Il dono che facciamo al nostro prossimo diventa un omaggio a Dio, ed il concetto di prossimo e di amore che viene a lui tributato, diventa insieme etica civica e mistica religiosa. Non è un caso se tanta letteratura mistica, di tutte le religioni e non solo del cristianesimo, assume un tono molto sensuale e quasi erotico quando testimonia dello slancio irresistibile che spinge l’anima dell’uomo verso Dio. Non è un caso dicevo, poiché l’immaginario che abbiamo del rapporto assoluto ed esclusivo, dell’estremo piacere della fusione, non può che raccontare immagini che ricordano l’estasi fisica e l’acme orgasmico.

Se per millenni il mondo ha funzionato cercando di far resistere i due pilastri di amore per Dio e amore per il prossimo, oggi osserviamo che, con la morte di Dio, abbiamo assistito anche alla scomparsa del prossimo, dopo un’agonia che è durata tutto il Novecento. La fede è diventata un fenomeno privato e personale e, lo spazio reso vacante nell’alto dei cieli, è stato occupato dalla nuova divinità del Progresso tecnologico, una divinità esclusiva e feroce come il Dio dell’Antico Testamento, una Divinità implacabile con la Tavola delle sue Leggi del Mercato economico, a cui tutti offrono cruenti sacrifici e calorosi omaggi.

Poiché si conosce la necessità umana di avere qualcuno da adorare e a cui affidarsi, al posto di una invisibile divinità trascendente, afferma Zoja, l’uomo ha ben pensato di collocare se stesso ed il frutto delle sue mani, cioè la tangibilità del suo progresso tecnico ed economico. Così l’uomo si divinizza, si trasfigura e diventa sovrumano, ma facendolo non riesce più a vedere il suo prossimo, e ad essere il prossimo di altri: si crea eccezionale e distante. Eccezionale e distante, come tante stars del mondo dello spettacolo e della televisione, il cui mito viene costruito basandosi su questo meccanismo di fragilità umana e di bisogno di identificazione.

Chiaramente le persone comuni continuano ad esistere, ma sono del tutto prive di interesse per la loro normalità ed ordinarietà, quindi non destano più la nostra curiosità perché siamo amanti del personaggio unico ed esclusivo, senza pensare che essere tanto esclusivi da divenire unici corrisponde ad essere isolati e quindi soli, alieni e lontani dal conforto dei nostri simili. La solitudine così avanza e le persone più sensibili sentono le sofferenze a cui viene dato il nome di nevrosi.

Il bisogno di intimità, la necessità di sentirsi parte di un consorzio di individui a noi simili, ha certamente un’origine arcaica e animale, ed è collegato alla difesa della specie, malgrado ciò non si può negare che la maggiore nevrosi dell’uomo metropolitano rimanga quella della solitudine e dell’isolamento. Così non sembra possibile negare che viviamo in una dimensione post-umana e che, anche la virtualità che si sostituisce alla vita normale, è una dimostrazione di questa evidenza.

L’uomo delle civiltà antiche condivideva i suoi sentimenti e le sue paure con l’ambiente esterno, per cui personalizzava e sacralizzava tutta la natura ed i suoi fenomeni, tributando riti e atteggiamenti di rispetto e di venerazione all’intero cosmo: in tutto l’universo veniva cercata e riconosciuta la massima divinità e sacralità. Queste concezioni religiose le abbiamo ritenute primitive e le abbiamo denominate animismo, ritenendole forme di religiosità imperfetta e incompleta, ed i popoli che le hanno osservate li abbiamo chiamati primitivi.

Con la creazione delle religioni istituzionalizzate, tra cui il cristianesimo, gli slanci mistici si sono ritirati dalla natura e dal corpo umano e si sono canalizzati solo verso l’alto e verso il Cielo, assommandosi in una divinità sovrumana sostenuta dalla teologia tradizionale. Quando sopraggiunge la morte di Dio, nel Novecento, si crea una nuova sacralità delle masse, ed il baricentro diventa la psiche della massa per la quale, l’ideologia politica non ha meno rigidità delle teologie tradizionali.

Il nuovo sacro creato nelle utopie sociali, ora viene messo in liquidazione, all’alba del 21. secolo, così il vuoto, il freddo e tutti i problemi interiori, non possono più essere espulsi e vengono concentrati nel corpo e nella personalità individuale. L’uomo tecnologico conosce ora degli ingorghi psichici che prima non conosceva, perché vive delle utopie e delle illusioni solo individuali e non collettive. La mente viene drogata con i concetti di cultura elitaria e di realtà virtuali, mentre il corpo viene soddisfatto con manie salutistiche e con pratiche artificiali, come la chirurgia estetica, in cui la misura tracima ai limiti del paradossale e del grottesco.

Così l’uomo cade in una profonda solitudine perché è orfano, per la prima volta nella sua storia, sia del suo Padre Divino che del fratello terreno. Ma il precetto sull’amore, di biblica memoria, era estremamente complesso e profondo perché l’invito era ad amare Dio intensamente, cioè con il cuore, con l’anima e con la mente: il prossimo era sufficiente amarlo con la stessa misura con cui amiamo noi stessi. Queste realtà spirituali non facevano altro che assecondare un’esigenza biologica, che abbiamo verificato alla luce della zoologia, dell’etologia umana, della sociologia, dell’antropologia e persino per le neuroscienze, e cioè che l’uomo è un essere sociale a cui gli altri uomini sono necessari.

Tutto quello che fa un uomo può essere fatto anche da una macchina, ma di un uomo non si potrà mai sostituire la presenza umana. Perciò la lontananza dai nostri simili può arrecarci forti danni psichici, perché l’uomo che è troppo solo cade in depressione, e chi è depresso perde sempre più la gioia di vivere, cioè la forza e la spinta per andare verso gli altri uomini.

Oggi viviamo in megalopoli in cui le persone che vediamo sono moltissime, molto simili e troppo rumorose e, di fronte all’inondazione di tanti stimoli e situazioni ripetitive, l’alienazione diviene una condizione non eccezionale ma normale; così evitare gli altri diventa una condizione essenziale per sopravvivere. Ma la repressione permanente costa energia, ci irrigidisce, e diventa per Zoja “artrite della psiche” al punto che diventiamo incapaci di provare veri sentimenti: la capacità di amare diventa allora una condizione irraggiungibile.

Buona erranza
Sharatan


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