martedì 6 maggio 2008

I mercanti della felicità


Si chiedeva Freud “Quanta felicità barattiamo per la sicurezza?” e naturalmente questa domanda è condannata a rimanere senza risposta. Non possiamo sapere quanto saremmo stati felici se avessimo fatto una scelta piuttosta che un’altra: possiamo provare ad essere noi stessi e poi provare a costruire la nostra felicità. Nell’assumere i connotati della nostra essenza, il punto di partenza è che l’espressione della nostra personalità deve avvenire senza la paura di potere essere giudicati e condannati. Il passaggio dall’essere noi stessi all’essere quello che gli altri desiderano da noi, avviene da bambini, quando impariamo ad accontentare gli adulti in cambio della loro approvazione. Quando ci accorgiamo che la vera espressione della nostra personalità, non incontra il consenso degli adulti, impariamo a bloccare la nostra naturalezza e la nostra spontaneità e iniziamo a costruire le nostre corazze. Le corazze sono le difese che reputiamo utili per difenderci dal dorore di sentirci alienati dal nostro vero essere, dalla nostra anima.
Spesso non ci rendiamo conto che, nell’essere adulti, vi è la libertà di sperimentare la nostra vera essenza, il nostro vero io, e continuiamo ad usare anestetici e trucchi per continuare con il copione che ci abbiamo appreso, malgrado i nostri sentimenti ci facciano capire che non siamo felici. Siamo presi così in un’altalena di emozioni ora positive e ora negative, restando in balìa di uno squilibrio di cuore e anima. Sembra difficile liberarsi dal circolo vizioso, e spesso non ci riesce. E’ invece necessario iniziare ad amare il nostro modo di essere, sia pure cercando sempre di migliorarsi: è questo il primo passo per la riconquista della propria felicità. E’ un cammino difficile e coraggioso che richiede una forte determinazione e una grande coerenza morale, soprattutto perché bisogna lavorare su meccanismi arcaici del nostro sviluppo. L’atteggiamento compiacente che si adotta, in cambio dell’accettazione dell’altro, sviluppa un “falso sé” che viene confuso con il vero essere della persona. Il filosofo Umberto Galimberti, nello scritto “La grande tribù dei prevedibili” del 2002, afferma che, nell’epoca della tecnica e dell’economia globale, l’uomo è spinto all’”omologazione di principio” che è la condizione in cui il lavorare insieme equivale al collaborare. Ciò permette di avere una precisa previsione delle mosse di ogni individuo, in modo da permettere una pianificazione anticipata e maggiormente funzionale dell’apparato sociale stesso. La nostra società agisce rivendicando una “coscienza omologata” in cui si richiede una coscienziosità, cioè una coscienza conformista che si può facilmente controllare ed ottimizzare.
Fin da bambini ci insegnano che il successo è facilmente perseguibile se ci si adatta alle altrui esigenze, e così vengono incoraggiati gli atteggiamenti di imitazione: incoraggiati sia dalla famiglia che dalla società. Quando si manifesta un disagio nell’adottare un atteggiamento imitativo e non ragionato, si viene accusati di non avere quel “sano realismo” che garantisce il successo sociale. Coloro che osano discutere e contestare questa accettazione supina e acritica della vita, sono tacitati con l’accusa di essere dei disadattati, dei bastian contrari o dei contestatori adolescenziali. In realtà, nel mondo odierno, emergono concezioni uniche ed univoche della realtà, a cui ognuno deve aderire o soccombere. Chi si chiama fuori è un emarginato sociale. L’atteggiamento conformista è l’unico che viene accettato, sebbene esso offra catene più solide di quelle della coercizione degli schiavi del mondo antico. Noi tutti siamo schiavi delle comodità e delle opportunità che il mondo ci offre e con cui ci asserve: a quelle catene volentieri offriamo polsi e caviglie. Inutile dire che, al condizionamento offriamo tutta la nostra complicità o perlomeno facciamo mancare il nostro diniego. Gli stessi mezzi di comunicazione mettono in scena delle realtà uniche in cui la visione del mondo è mediamente o molto ristretta e ripetutamente ed ossessivamente riaffermata. Ciò che ascoltiamo è quello che vogliamo sentire, perché è quello a cui ci abituano, perché è quello a cui dobbiamo aspirare. Le differenze individuali sono fortemente penalizzate e il messaggio prevalente è la ripetizione in fotocopia di ideali di vita, di bellezza, di successo, etc. Non abbiamo dei media in cui viene messo in atto un reale scopo di comunicazione, piuttosto vi è una banale e nevrotica ripetizione di stereotipi sociali e culturali. La comunicazione è possibile solo laddove vi sia la reale messa a confronto di esperienze: la convenzionalità e il formalismo sono le principali caratteristiche che vengono accettate e propugnate. In questo modo si incoraggiano le introiezioni di “falsi sé” e s’incoraggia l’individuo ad aderire ad un’idea costruita e falsa di necessità, bisogni ed ideali, ai limiti della schizofrenia personale e sociale. Questa dissociazione si osserva soprattutto a livello corporeo, nella rincorsa ad ideali fisici che spesso sono inadatti o impossibili da perseguire per la persona, ma a cui il consenso sociale condanna ad aderire. Le persone imparano ben presto a travestirsi sotto altre individualità e molto spesso tale travestimento dura tutta la vita. La vita diventa un palcoscenico su cui la persona indossa una maschera sociale e culturale, che gli è stata saldata a viva forza sulle carni fine a diventarne parte inscindibile: il palcoscenico è tutta la vita e tutta la vita diventa un palcoscenico. Il travestimento assume maggiore valore, tanto più garantisce un apparente successo nella vita, nel lavoro o nei sentimenti: è solamente necessario rinunciare al calore dei sentimenti e alle vibrazioni delle emozioni.
Gli spazi privati, confusi con quelli pubblici, diventano tutt’uno nel controllo globale dell’individuo, e quando il disagio all’adattamento conformista diventa troppo soffocante, allora si chiamano in gioco le terapie dell’anima, le psicologie di rito. Nel nostro mondo sono sempre più fortemente emergenti tutte le psicologie dell’adattamento, mentre cadono sempre più in crisi le analisi del profondo, in cui vengono indagate e messe in luce le dissonanze individuali ed esistenziali. Trionfano invece, tutte quelle psicologie in cui viene valorizzato l’essere conforme ed adeguato alla società, in cui ogni conato individualistico risulta sgradito: viviamo in una società omologante in cui la diversità è un fattore di disturbo. In questa società le differenze, le specificità, le competenze e le abilità personali sono guardate con sospetto e fatalmente emarginate. Il travestimento del proprio vero essere è divenuta una moda molto in auge nel nostro tempo, ed è il sintomo di un’epoca in cui, il motto del Tempio di Apollo a Delfi, “Conosci te stesso”, potrebbe essere scambiato per una bestemmia. Le condotte ed i comportamenti sono conformi a quelle che la società ritiene accettabili e le condotte trasgressive vengono ammesse solo se praticate in ambiti estremamente privati e discreti. Le persone vengono così convinte a nascondere il loro vero essere, nella convinzione che la comunicazione di vissuti soggettivi possa essere non compresa e non condivisa dagli altri. L’essere sè stessi, l’essere centrati sul proprio essere, la scarsa adattabilità a condizioni non liberamente negoziate, vengono stigmatizzati come atteggiamenti individualistici perché non funzionali in una società fortemente omologata ed omologabile. Il mascheramento della propria essenza assume il valore di protezione da tali scomodi, si assume quindi la maschera di un non coinvolgimento emotivo che può divenire una fortezza veramente impenetrabile. Il falso sé che si spende a livello sociale diviene brillante ed affascinante solo con lo scopo di continuare ad essere guidato ed apprezzato. Il desiderio di esprimersi, di provare dei sentimenti, di coltivare degli interessi personali, viene vissuto come egoismo ed autocolpevolizzazione, viene soffocato fino a precludersi ogni aspirazione o desiderio di realizzazione e di felicità personale.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

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