giovedì 15 maggio 2008

La morte di Socrate


Qualche tempo addietro, leggevo un articolo trovato in un sito di psicologia analitica. L’articolo affermava che la nostra epoca manca completamente di grandi uomini, di grandi figure che abbiano saputo riassumere e concretizzare i valori più elevati dell’essere umano. La storia ha partorito questi uomini grandi che hanno saputo impersonare e praticare la libertà di pensiero, che si sono saputi elevare oltre le meschinità, trascinando e coinvolgendo la coraggiosa visionarietà di ciascun uomo: grandi persone che hanno saputo farci sentire in grado di lottare in nome dei grandi ideali umani, capaci di sfidare il mondo in nome di valori. Al loro posto, si affermava, sono comparse delle caricature di umanità, anche caricature positive, ma caricature di piccoli sogni e di piccola caratura. Su questi umuncoli si sono basate le descrizioni delle mezze misure, del “buonismo”, che è l’apoteosi dell’incapacità di critica e di coerenza. Caricature pericolose perché capaci di minimizzare il messaggio , di rinforzare una carenza e/o debolezza di valori, trasformandolo in valore reale ed autentico. Questa epoca è orfana, affermava l’autrice, è carente di questi grandi padri.
A me è venuta in mente la morte di Socrate, che bene caratterizza come gli uomini abbiano spesso trattato questi grandi padri e maestri. Il processo a Socrate avviene nel 399 a.C. ed il clima politico non è certo secondario, ai fini dell’indagine sui motivi che resero possibile una condanna così dura contro il vecchio filosofo. Appena cinque anni prima, la guerra del Peloponneso aveva visto la sconfitta di Atene e la vittoria di Sparta, per cui in Atene era andato al governo un gruppo di oligarchi, il governo dei “Trenta tiranni”, un regime assai compiacente con i vincitori e che viene ben presto rovesciato. Viene avviata un’operazione di eliminazione dei collaborazionisti e di condanna all’esilio dei simpatizzanti degli spartani. Ben presto giunge la voce che gli esiliati preparano la riscossa, per cui il nuovo governo di Atene, fa uccidere i capi degli oligarchi e richiama gli esuli in patria, dove li sottopone ad un regime di rigido controllo. Nel 399 la città è ormai libera seppure provata dalle epurazioni, che appaiono ridotte al minimo indispensabile e non troppo cruente, ed Atene appare rientrata in un regime di democrazia dialettica. Questo clima viene disturbato dal processo a Socrate, che è essenzialmente un processo politico contro un intellettuale scomodo. Nello stesso periodo, moventi politici vi furono anche nel processo contro Andocide (400), nella mutilazione delle erme (415) imputata ad Alcibiade per frenare la vertiginosa ascesa del giovane leader democratico e nel processo ad Anassogora (448) mirante a turbare lo strapotere di Pericle.
Nel caso di Socrate, vediamo che il regime ateniese è ancora debole, per cui poco tollerante rispetto ad una personalità come quella del grande filosofo, dotata di un carisma e di una virtù eccezionali, tali da mettere in crisi anche il più stabile degli apparati. La filosofia favorisce l’affermarsi delle personalità individuali, si schiera, sempre e decisamente contro la massa facendo emergere il singolo, colui che possiede opinioni e pensieri propri, ed il livello di Socrate è gigantesco, per cui la lotta è all’ultimo sangue. Egli insegna come, a tutti gli uomini, sia dato riflettere e quindi come essi siano in grado di liberarsi, conoscersi ed elevarsi, da soli, al disopra della massa. La portata del messaggio è rivoluzionaria, e la sua filosofia è destabilizzante, perché libera, perché pensiero cosciente, perché è libertà che incita ad altra libertà, “il filosofo serve alla città, perché sveglia i cittadini dal sonno”. Socrate che gira per Atene ed istiga a ragionare, a farsi domande, ad elaborare critiche per fare nascere nuovi modi di ragionare, uno come lui mette in crisi il sistema in modo intollerabile. L’accusa dichiara nettamente un tale movente: “Accusa mossa e giurata da Meleto figlio di Meleto del demo di Pitto contro Socrate figlio di Sofronisco. Socrate commette reato non credendo negli dei in cui crede la città e cercando d’introdurre nuove divinità; commette anche reato corrompendo i giovani. Pena: la morte.” Ma potrebbe Socrate, in cambio della vita, rinunciare a quello stile di vita che tanta ostilità ha scatenato contro di lui? No! Egli non smetterà di filosofare, facendo vergognare tutti quelli che, interessati ai soli beni materiali, non perseguono la virtù. I suoi accusatori, in alcun modo possono nuocergli, giacché un uomo di un certo valore non può subire danni da uno che sia peggiore. Si accommiata dai suoi giudici dicendo: "Ormai è ora d’andare, io verso la morte, voi verso la vita. E’ ignoto a tutti, chi di noi vada verso il destino migliore, tranne che alla divinità". Così si avvia incontro al suo destino, ricordando a Critone il suo debito di un gallo con Esculapio.
Ritornando all’articolo di cui dicevo all’inizio, nello stesso si affermava che nei nostri tempi, vi è “la sfida di restare in vita senza perdere l’amore per la conoscenza, l'amore per gli altri uomini, il bisogno di cambiare e di vivere in un mondo diverso.” Dobbiamo fare una scelta di vita, se “farla vivere o lasciarla morire soffocata dall'impotenza, dalla nostalgia, dalla perdita di senso, dallo sgomento rispetto ad un mondo sempre più povero, questo è a mio avviso la posta in gioco che oggi turba i nostri animi.”
Ed io ho, dapprima condiviso quest’osservazione, ho condiviso il lamento per la mancanza di grandi uomini, di grandi persone, di intellettualità libere ed orgogliose. Ma poi, ieri l’altro, mentre leggevo un’intervista di Zygmunt Bauman, mi è tornato in mente l’articolo e ho pensato che non era vero, che l’articolo non era del tutto condivisibile. La nostra epoca ha avuto recentemente ed ha ancora grandi uomini, potrei citarne moltissimi. No! Non abbiamo bisogno di grandi uomini, abbiamo piuttosto bisogno di grande coraggio, coraggio di essere noi stessi, coraggio di vedere chi siamo, coraggio di portare avanti quello in cui crediamo, cioè i nostri ideali. Non abbiamo coraggio perché perseguire l’ideale è considerato una cosa stupida, un’ingenuità imperdonabile, una forma di “buonismo”, termine immondo che si fa equivalere a coglioneria. Allora ci si lamenta di perdite di identità o di coscienze, di assenze di buoni esempi, della morte dei grandi maestri. Spesso ci facciamo “infinocchiare” da personaggi burini e grossolani, da mezze calzette di periferia, per poi lamentarci di essere privi di grandi esempi, di dignità, di coerenze e di coraggio. In questi giorni c’è la polemica contro Marco Travaglio, attaccato da Sgarbi e querelato da Schifani. Ho visto il programma e devo dire che ho trovato ignobile il modo con cui è stato trattato. Senza dubbio qualche “Lor Signore” non tollera che un uomo sappia tenere alta la testa e ragionare con il suo cervello, che sappia ancora parlare fuori dal coro, che si permetta di rendendo noto l’operato della classe politica, bucando lo schermo con l'educazione e la pacatezza. Qualcuno dimentica che le accuse di Travaglio, sono fatti, perlopiù fatti giudiziari, fatti inclusi nei faldoni di procure e di tribunali, insomma la “carta che canta per non far dormire il villano.” Questo tempo non mi sembra che sia molto lontano dai tempi dell’antica Atene, quando Socrate fu condannato per essere un personaggio scomodo, un intellettuale troppo critico. Naturalmente auguro una lunghissima vita a Travaglio, di cui sono lettrice ed estimatrice convinta, e affermo che invece abbiamo ancora belle intelligenze. Vi sono ancora, ma noi preferiamo dire che ormai non esistono più. E’ il nostro alibi, è il nostro anestetico, è il nostro modo per restare dove siamo, un escamoutage per non divenire persone migliori.
Buona erranza.
Sharatan ain al Rami

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